giovedì, dicembre 21, 2006


Le ultime ore di Salvador Allende
UNA VOCE SOTTO LE BOMBE


Dal momento in cui, circa una settimana fa, le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia della morte di Augusto Pinochet, una sola immagine ha iniziato a dominare i miei pensieri, senza che né i tanti articoli scritti sui giornali, né le struggenti narrazioni di quanti sono riusciti a sopravvivere alla tragedia del golpe, né le deliranti farneticazioni di alcuni squadristi della Nuova Destra italiana potessero alterarne i contorni o attenuarne l’intensità.
E’ l’immagine di un piccolo uomo che, solo in un palazzo deserto, continua a parlare ad un Paese attanagliato da una guerra civile del sogno di poter giungere alla realizzazione di una società di eguali e della necessità di combattere per questo sogno.
Un popolo e la sua Nuova Frontiera, una voce sotto le bombe, un Presidente che voleva sconvolgere gli equilibri di un Mondo dominato da due opposti imperialismi: attraverso le ultime parole di questo piccolo uomo, di questo Presidente sognatore, tenterò di riassumere i momenti centrali di una delle più struggenti pagine della storia del Secolo Breve.

“…Conmigo, es el pueblo que entra a La Moneda…”

All’inizio degli anni’70, le condizioni di vita in cui il Cile versava erano di fatto coincidenti con quelle che tuttora caratterizzano gran parte dei paesi dell’America Latina, in cui lo splendore dei grattacieli funge da contraltare alla miseria delle favelas. La costante concentrazione del potere nelle mani della ricca borghesia, l’attribuzione alle grandi multinazionali dell’integrale controllo delle risorse minerarie, l’incontrollabile diffusione della cultura del latifondo erano le principali cause di un conflitto sociale secondo cui la sopravvivenza stessa delle classi più disagiate dipendeva in toto dalle determinazioni assunte dai titolari dei fattori di produzione.
In questo senso, l’idea che Salvador Allende lanciò nel 1971 risultava sconvolgente nella sua semplicità: nel momento in cui si afferma la necessità di tutelare la libertà di un popolo, si deve considerare che l’attuazione di una compiuta libertà non può prescindere dall’applicazione di un rigoroso sistema di giustizia sociale.
Conquistando il governo del Paese, l’Unidad Popular diede per la prima volta voce a quelle generazioni di eterni sconfitti di cui la società cilena in gran parte si componeva: insieme ad Allende, erano i contadini, i minatori e gli operai a fare idealmente ingresso nel palazzo de “La Moneda”.

“…Estaban comprometidos, la Historia juzgarà…”

La realizzazione di quel sistema di giustizia sociale a cui si è appena fatto riferimento trovò due momenti centrali nella nazionalizzazione delle miniere e nell’espropriazione dei terreni agricoli: due misure intese non solo come semplici riforme di tipo economico, ma come la effettiva conferma della possibilità di giungere all’affermazione per via democratica di quel “socialismo dal volto umano” che gli stessi progressisti europei iniziarono a vagheggiare una volta destatisi dall’incubo della Primavera di Praga, primo vero momento di rottura tra i partiti della sinistra occidentale e la Grande Madre Russia.
Ma l’idea di un centro-sinistra forte e democratico, in grado di spezzare gli equilibri che vigevano nel cuore dell’America Latina, collideva apertamente (al pari della strategia del “Compromesso Storico”, posta in essere in Italia da Moro e Berlinguer) con le contrapposizioni imposte al Mondo dai protagonisti della Guerra Fredda. A fronte del grigio potere sovietico, basato sul bieco imperversare dei carri armati di Breznev, l’Occidente costituiva oggetto di una forma di imperialismo non meno stringente, la cui influenza risultava imperniata su ferree relazioni di dipendenza economica, sul calcolato appoggio a gruppi eversivi di varia natura, sul sostegno a logge massoniche deviate, sull’instaurazione di regimi dittatoriali non meno feroci di quelli facenti capo agli eredi di Stalin.
Il colpo di Stato di Pinochet costituisce la diretta propagazione di questa forma di imperialismo, apertamente disposto a sostenere il perverso connubio tra depositari del potere economico – i quali miravano a ripristinare l’antico sistema di privilegi – e forze politiche conservatrici, ansiose di riconquistare, seppure attraverso l’azione di un manipolo di sicari in uniforme, il controllo del Cile.


“…Viva Chile! Viva el pueblo! Viva los trabajadores!...”

La marea golpista iniziò a montare, strisciante e silenziosa, durante il lungo inverno del 1973, per poi esplodere in tutta la sua violenza in quel terribile 11 settembre, quando un’insurrezione della Marina isolò Valparaiso, dando seguito alla rivolta delle forze armate verso il Governo.
Solo e ormai privo di difese, Allende tentò di usare il suo carisma per ricondurre la situazione alla normalità, per far prevalere “la forza della ragione sulle ragioni della forza”. Mentre i caccia bombardavano Santiago e le stazioni radio venivano, una dopo l’altra, ridotte al silenzio, la voce “ferma e tranquilla” del Presidente della Repubblica continuava a trasmettere alla Nazione il suo messaggio di speranza: la speranza che “più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costituire una società migliore”, quella stessa società di eguali che costituiva il presupposto del suo credo politico.
Una voce sotto le bombe, destinata ad essere spezzata solo da una raffica di mitra: ma il grido “Viva il Cile! Viva il Popolo! Viva i lavoratori!” costituisce la più forte espressione di dissenso che il Mondo libero è tuttora in grado di opporre nei confronti di una tra le dittature più feroci della seconda metà del ‘900.

“…Socialista serà el porvenir!...”

A quasi trentacinque anni di distanza dai drammatici eventi sopra descritti, l’eco di quell’assordante grido di libertà non sembra peraltro essersi ancora attenuato. In un’epoca caratterizzata da un preoccupante vuoto ideologico, in cui alcuni tra i più insigni esponenti dei partiti socialisti europei sembrano disposti a mettere in discussione la loro identità, le loro idee ed i loro valori pur di assicuarsi le simpatie dei moderati, le parole di Salvador Allende contribuiscono a rilevare che il socialismo non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva.
Anche nel nuovo millennio, l’idea di un modello sociale ispirato a principi di eguaglianza ed equità, al radicale rifiuto di ogni preconfezionato centro di potere, alla naturale prevalenza della “forza della ragione sulle ragioni della forza”, può sempre costituire quella Nuova Frontiera nel cui perseguimento i progressisti non possono e non devono smettere di credere.

Carlo Dore jr

mercoledì, dicembre 06, 2006


I DS SARDI TRA PARTITO DEMOCRATICO ED ESIGENZE DI RINNOVAMENTO


In un incontro-dibattito recentemente svoltosi a Cagliari, il senatore diessino Antonello Cabras si è soffermato, con l’intelligenza e l’acume che sempre lo contraddistinguono, su alcune interessanti questioni relative alla prossima costituzione del Partito Democratico in generale e della sua organizzazione in particolare.
Debitamente supportato nelle sue argomentazioni dagli interventi di Nazareno Pacifico, Siro Marrocu e Graziano Milia (ormai più vicini alle posizioni dei democratici americani che a quelle dei socialisti europei), l’ex segretario dei DS sardi ha da un lato ribadito la necessità di procedere nella realizzazione del nuovo soggetto politico, promuovendo in tempi rapidi un ampio dibattito tra i cittadini in ordine ai caratteri strutturali che il medesimo dovrà assumere ed alle modalità che dovranno caratterizzarne la formazione. D’altro lato, egli ha messo in rilievo la pressante esigenza di un rinnovamento della classe politica nella sua interezza, presupposto indispensabile per garantire il coinvolgimento dei giovani nelle scelte cruciali relative alla vita del Paese.
Le opinioni appena esposte (altamente rispettabili nei loro contenuti, al pari di tutti gli orientamenti che animano il dibattito ideologico riguardante il futuro della più importante tra le forze politiche discendenti dal PCI ) si prestano però, a mio sommesso avviso, ad alcune obiezioni difficilmente superabili.
Nel prospettare un confronto con i militanti circa la struttura e le modalità realizzative del Partito Democratico, Cabras finisce col cadere una volta ancora nell’equivoco che inficia la strategia sostenuta dal direttivo della Quercia: prima di avviare una discussione sui caratteri peculiari del suddetto Partito, occorre infatti comprendere se sussistano le condizioni necessarie per procedere alla sua costituzione. In altri termini, è necessario valutare se la linea politica elaborata nell’assise di Orvieto incontra tra i militanti un consenso talmente diffuso da legittimare la radicale cancellazione della principale realtà della sinistra italiana, destinata a confluire in una nuova forza politica dai caratteri incerti e dalle dubbie prospettive.
Alla vigilia di un congresso che si preannuncia quantomai infuocato, questo interrogativo assilla incessantemente i sostenitori della mozione unitaria, consapevoli del fatto che il conseguimento di un numero di consensi inferiore alle aspettative renderebbe incontrovertibile la frattura in atto tra la base e l’attuale gruppo dirigente, le cui scelte continuano ad apparire ispirate a principi e valori non coincidenti con quelli (riconducibili al patrimonio ideologico della sinistra tradizionale ) in cui gran parte degli iscritti tuttora si riconosce.
In questo senso, l’esigenza di un ricambio generazionale alla guida del Partito emerge in tutta la sua evidenza, coinvolgendo non solo i vertici nazionali ma anche il direttivo dei DS sardi. La sconfitta riportata a Cagliari in occasione delle elezioni comunali e le difficoltà palesate dai vertici di via Emilia nell’individuazione di proposte utili per impostare un proficuo confronto con il governatore Soru (il quale si trova nella felice condizione di poter individuare nella maggioranza che lo sostiene un mero organo di ratifica delle sue determinazioni) costituiscono infatti due chiari segnali dello stato di estrema debolezza in cui la Quercia isolana attualmente versa.
Premesso che tale condizione di debolezza è riconducibile a molteplici cause, uno di questi fattori può essere con certezza individuato nella costante concentrazione (da dieci anni a questa parte) della guida del partito in capo ad alcuni ben noti centri di potere, i cui leaders sono stati capaci di conservare intatti il loro prestigio e la loro influenza malgrado le alterne fortune a cui sono andati incontro durante la loro carriera politica.
Tuttavia, nel corso del tempo, questi stessi leaders hanno gradualmente perso credibilità agli occhi dell’elettorato, alimentando, con particolare riguardo alla Sardegna, quella frattura tra la base diessina ed il gruppo di comando a cui si è in precedenza fatto riferimento.
Così ragionando, l’affermazione di una nuova classe dirigente, composta da soggetti in grado, con la forza delle idee, della cultura e di una convinta adesione ai postulati su cui si fonda la “questione morale”, di offrire ai militanti un nuovo modello in cui riconoscersi, può costituire il momento iniziale di quella fase di rinnovamento della politica sarda di cui il popolo del centro-sinistra da tempo auspica l’attuazione.

Carlo Dore jr.

domenica, novembre 26, 2006


LA NOTTE DEGLI SCIACALLI


L’inchiesta giornalistica condotta da Enrico Deaglio in ordine ai presunti brogli elettorali verificatisi nella notte tra il 10 e l’11 aprile ha gettato una nuova luce sugli avvenimenti che scandirono l’incedere delle ore più lunghe e sofferte della recente storia politica italiana. Spetta ora alla Magistratura l’arduo compito di accertare se il DVD allegato all’odierna copia di “Diario” contiene solo un buon thriller fantapolitico o se effettivamente, durante quella estenuante maratona di dati, cifre, dichiarazioni e smentite, si consumò un vero e proprio attentato alla democrazia italiana.
Nell’attesa che la verità giudiziaria venga offerta all’opinione pubblica, rimane comunque lo spazio per proporre alcune considerazioni circa la costruzione prospettata dagli autori di “Uccidete la democrazia”, considerazioni rese peraltro difficilmente confutabili da una serie di dati di fatto.
Le elezioni amministrative del 2005 avevano infatti fornito un’indicazione politicamente incontrovertibile: l’onda lunga del consenso berlusconiano si era ormai esaurita, e Romano Prodi (forte della straordinaria legittimazione popolare ottenuta attraverso le primarie) si accingeva ad intraprendere una nuova marcia trionfale verso Palazzo Chigi.
Premesso che tutti i sondaggi attribuivano all’Unione una maggioranza schiacciante, ho sempre ritenuto non del tutto credibili quanti ancora affermano che le troppe incertezze manifestate, specie in politica economica, dai leaders del centro-sinistra nel corso della campagna elettorale (indiscutibilmente inficiata nelle sua impostazione dal clamoroso errore di considerare già acquisito il successo finale) sarebbero state l’unica causa della clamorosa rimonta compiuta sul filo di lana dal Cavaliere di Arcore.
Sfruttando la sua ben nota abilità di comunicatore (resa ancor più incisiva dall’impressionante apparato mediatico a sua disposizione), Berlusconi riuscì effettivamente, di fronte alla prospettiva di una sconfitta annunciata, a proporre una duplica linea di reazione: mentre infatti il suo sorriso stereotipato e la sua capigliatura posticcia dominavano in tutti i programmi televisivi, la sua maggioranza parlamentare imponeva (attraverso una scelta che i costituzionalisti definirono degna della più greve dittatura centroamericana) l’approvazione di una legge elettorale diretta a limitare le possibilità di successo dell’avversario politico.
Tuttavia, in considerazione delle continue nefandezze che avevano caratterizzato gli ultimi cinque anni di governo, i principali esperti di sondaggi rimanevano concordi nel sostenere che le contorsioni televisive del Caimano e le logiche bulgare dei suoi subordinati non risultavano idonee a scalfire il vantaggio dell’Unione, vantaggio quantificato, al momento della chiusura delle urne, tra i quattro e gli otto punti percentuali.
Curiosamente, tutti valori proposti dai suddetti sondaggi hanno trovato conferma nei dati reali, con due sole eccezioni: la radicale diminuzione (rispetto alle elezioni precedenti ed a tutte le elezioni successive) del numero delle schede bianche ed il corrispondente exploit di consenso registrato da Forza Italia. E mentre il margine di successo dell’Ulivo si assottigliava di proiezione in proiezione, per lo sgomento del popolo progressista riunitosi in Piazza Santi Apostoli, dal quartier generale di Romano Prodi partì un ordine (rivolto agli eletti ed ai militanti impegnati presso i seggi) di cui pochi nella concitazione generale compresero il significato: “vigilate”.
Questa indicazione così secca ed ambigua fu interpretata da alcuni opinionisti come un segnale inquietante, come il segnale che qualcosa di grave stava accadendo in quei minuti: in altre parole, iniziò a prendere consistenza il sospetto che una strana ombra nera si stesse dipanando lungo il percorso che separa il Viminale da Palazzo Grazioli, per assicurare al Caimano altri cinque anni di permanenza alla guida del Paese.
In questo senso, se il teorema di Deaglio dovesse trovare conferma, se davvero venisse rilevato che le schede bianche sono state assegnate, in virtù di determinate procedure informatiche, al partito dell’ex premier, il significato di simili pratiche, della riforma della legge elettorale e della costante manipolazione dei mass media potrebbe essere riassunto attraverso una semplice perifrasi: colpo di Stato.
Tuttavia, nell’attesa che la magistratura accerti la verità circa le varie fasi da cui risulta scandita questa sorta di surreale notte degli sciacalli, dai fatti in commento può essere tratta una prima, importante indicazione politica: è ben noto come l’attuale maggioranza di governo sia troppo spesso vittima di pulsioni trasversali, giungendo talvolta a riconoscere alla Casa delle Libertà una legittimazione istituzionale che i seguaci del Cavaliere forse non meritano.
La notte degli sciacalli può rappresentare quindi un’ulteriore conferma di una verità tante volte affermata in passato: forte di un agglomerato di potere non configurabile presso alcuna realtà politica occidentale, Berlusconi rappresenta una variabile impazzita in grado di minare le fondamenta stesse della democrazia italiana. In confronto di questa variabile impazzita, la strada del riconoscimento reciproco, della cooperazione istituzionale, della serena dialettica nei rapporti tra maggioranza ed opposizione non risulta in alcun modo percorribile.

Carlo Dore jr.

sabato, novembre 18, 2006


PANSA: LE TROPPE BUGIE DE “LA GRANDE BUGIA”.


In una lunga intervista rilasciata a “L’Unione Sarda”, Giampaolo Pansa ha riproposto anche ai lettori del più importante quotidiano dell’Isola le principali argomentazioni che stanno alla base della sua ultima “Grande Bugia”.
Avendo ormai definitivamente assunto il ruolo di primo difensore dei “Vinti” della Guerra di Liberazione, di quelle migliaia di pretesi desaparecidos le cui vicende sarebbero state sistematicamente occultate dalle ricostruzioni della Resistenza proposte dai tanti storici afferenti all’egemone cultura di sinistra, l’Autore si è attribuito il merito di avere finalmente dato “voce ai moderati”, rivelando una volta per sempre le “troppe balle” su cui il PCI avrebbe impostato la formazione ideologica dei suoi militanti.
Tuttavia, una volta superato lo sconcerto per l’entusiasmo che le parole del giornalista piemontese continuano a destare nei nostalgici di tutta Italia (ed in particolare in quei Cagliaritani che, il 25 aprile, non esitano a prendere parte alle funzioni religiose che si svolgono in memoria dei “martiri” della RSI ed a ribadire la veridicità del ridicolo assunto secondo cui “Mussolini era un dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza ai confini”) e per la sostanziale indifferenza con cui i leaders dei DS assistono ai continui attacchi rivolti ai valori di cui l’ Antifascismo costituisce espressione, le tante Grandi Bugie di Pansa non possono non essere oggetto di qualche considerazione al veleno.
Allorquando lo scrittore di Casale Monferrato afferma che la storia italiana è vittima della perversa logica in forza della quale “chi vince parla e scrive, chi perde sta zitto e tace”, egli finisce col dimenticare una delle realtà che con maggiore evidenza emergono dalle pagine di quella stessa storia di cui il suo libro dovrebbe rappresentare una nuova lettura. Per oltre vent’anni i “Vinti” in camicia nera ebbero infatti modo di manifestare la loro reale natura, di esprimere i valori a cui essi aderivano: le spedizioni punitive, le torture di piazza, gli omicidi a sangue freddo, la brutale soppressione di ogni libertà individuale si rivelarono infatti ben presto i principi – cardine del loro credo politico; le parate in Piazza Venezia, i Tribunali Speciali, l’Asse Roma-Berlino le modalità attraverso cui tali principi trovarono attuazione.
Al grido “La storia siamo noi!”, i partigiani portarono avanti non una semplice guerra di ideologie, ma una vera e propria battaglia diretta alla realizzazione di un Sogno: quello di consegnare alle future generazioni un Paese libero dal giogo che il Fascio aveva imposto. Pur con tutte le degenerazioni che fatalmente contraddistinguono ogni Guerra Civile (in cui l’esplosione di antichi rancori, la volontà di riparare vecchi torti e l’esaltazione giustizialista alimentano costantemente la ferocia dei conflitti che si consumano all’interno del medesimo popolo), la Resistenza offre in questo senso alcune certezze incontrovertibili: di fronte ad una lotta tra quanti si batterono per l’affermazione dei valori democratici e quanti scelsero di schierarsi a difesa delle grandi tirannie, il tentativo di equiparare vincitori e vinti, oppressi ed oppressori, vittime e carnefici costituisce l’autentica Grande Bugia di cui il Revisionismo si nutre.
Se del sacrificio compiuto da quanti persero la vita in nome dei suddetti valori i seguaci di Pansa non riescono a comprendere l’alto valore ideologico ed etico (mettendo tuttora in discussione la legittimazione storica dei principi proposti dalle forze politiche a cui i soggetti in questione facevano obiettivamente riferimento), del tanto sangue versato dai Vincitori della Guerra di Liberazione anche il più convinto fautore del revisionismo non può esimersi dall’avere rispetto.

Carlo Dore jr.

domenica, novembre 05, 2006


PARTITO DEMOCRATICO E ALTERNATIVE DI SINISTRA
di
Carlo Dore jr.

SOMMARIO: 1. L’assise di Orvieto: le ragioni della trasformazione; 2. La semplificazione della politica: il Partito Democratico non è il partito unico del centro-sinistra; 3. Romano Prodi: il leader di un partito o un leader al di sopra dei partiti?; 4. Il problema della collocazione: possiamo morire democristiani?; 5. Una forza unitaria della sinistra italiana come alternativa al Partito Democratico



1. L’assise di Orvieto: le ragioni della trasformazione

All’indomani della sofferta vittoria riportata alle elezioni politiche del 9 e del 10 aprile, il processo di costituzione del nuovo soggetto politico del centro-sinistra (già delineato nella fase pre-elettorale attraverso la formazione di liste unitarie di candidati espressione della Margherita e dei DS) sembra aver trovato il suo effettivo avviamento.
L’assise degli eletti dell’Ulivo recentemente convocata in quel di Orvieto è stata senz’altro utile per ribadire le ragioni di fondo che stanno alla base di questo processo di trasformazione, ma non per gettare un fascio di luce sulle tante zone d’ombra che contraddistinguono siffatto progetto né per impedire le lacerazioni che l’attuazione del medesimo determinerà in seno alla sinistra italiana.
Le posizioni dei sostenitori della “linea unitaria” (espresse da Walter Veltroni con la passione e l’intelligenza che caratterizzano ogni suo intervento) possono essere così riassunte: premesso che la scelta iniziale –risalente all’ormai lontano 1995- di dare vita ad un’alleanza riformista trova la sua naturale evoluzione nella realizzazione di un partito unico, in grado di rappresentare tutte le componenti del progressiste presenti nel Paese, la creazione di una simile forza politica determinerebbe da un lato il rafforzamento della leadership di Romano Prodi (finalmente identificabile come il capo di un partito in grado di raccogliere almeno il 35% dei consensi complessivi), e d’altro lato garantirebbe più stabilità all’etreogenea e litigiosa maggioranza che sostiene il Governo.



2. La semplificazione della politica: il Partito Democratico non è il partito unico del centro-sinistra.

Ricostruite in questi termini le argomentazioni di coloro i quali aderiscono alla linea programmatica imposta da Rutelli e Fassino, non si può non osservare come tali argomentazioni destino molteplici ragioni di perplessità. In primo luogo, occorre superare il macroscopico equivoco alimentato ogni giorno (più o meno consapevolmente) dai tanti illuminati riformisti che oggi affollano la bouvette di Montecitorio: il Partito Democratico, nella sua configurazione attuale, non può essere presentato come una sorta di labour party all’italiana, come un punto di riferimento comune per quanti rifiutano di conformarsi all’arroganza bieca e al servile pronismo su cui è tuttora edificata la Casa delle Libertà. Il PD non rappresenta infatti il tanto vagheggiato partito unico del centro-sinistra, ma più semplicemente l’aggregazione delle (componenti maggioritarie presenti nell’ambito) delle principali forze che governano la coalizione.
Dall’accettazione di questo semplice postulato, derivano una serie di considerazioni ulteriori, idonee sia a confutare le costruzioni sopra riportate, sia a mettere ancora una volta in rilievo l’esistenza, all’interno del progetto di unificazione, di quell’insieme di lati oscuri a cui si è in precedenza fatto cenno. In occasione delle ultime elezioni politiche, la lista dell’Ulivo ha infatti conseguito un quoziente elettorale approssimativamente pari al 32% dei voti, potendo contare anche sull’apporto di quegli elettori che, indipendentemente dalle identità partitiche, hanno voluto sostenere Prodi nel confronto diretto col Caimano.
Premesso che un simile risultato è sostanzialmente lontano dalle aspettative cullate dal gruppo dirigente ulivista, la qualificazione del PD come centro catalizzatore del 45% dei consensi rappresenta solo un’altra pagina del voluminoso libro dei sogni della politica italiana, considerato il dissenso dell’ala radicale dei DS e le perplessità di alcune frange della Margherita a confluire in un partito caratterizzato da una forte componente postcomunista.
Tutto questo implica che la creazione del nuovo soggetto unitario non solo non contribuirà alla “semplificazione” dei rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo, ma paradossalmente finirà con l’alimentare le già descritte ragioni di eterogeneità che contraddistinguono un’alleanza dimostratasi, in questi primi mesi della legislatura, già di per sé divisa ai limiti dell’implosione.
3. Romano Prodi: il leader di un partito o un leader al di sopra dei partiti?

In un simile contesto, la leadership di Romano Prodi appare per forza di cose tanto debole da rendere la sua posizione equiparabile a quella di uno dei tanti Presidenti del Consiglio alternatisi durante l’epoca del CAF, durante la quale la sopravvivenza del Governo era di fatto rimessa al mero arbitrio dei segretari dei tanti partiti che ne sostenevano l’azione in Parlamento. Le ragioni dell’instabilità del Premier vengono generalmente ricondotte alla “mancanza di un partito alle sue spalle”, con la conseguenza che il Partito Democratico può essere individuato come il punto di appoggio in grado di conferire al Professore la credibilità politica necessaria per affrontare in maniera efficace i tanti problemi che oggi attanagliano il Paese.
Posto infatti che l’Unione continua ad essere soggetta alla pregiudiziale che preclude alla principale forza della coalizione di indicare un proprio esponente quale leader della medesima, la condizione di Prodi, dopo le primarie dell’ottobre del 2005, dovrebbe trascendere i singoli partiti, avendo il consenso dei militanti elevato l’attuale inquilino di Palazzo Chigi al ruolo di capo dell’intero schieramento progressista.
Forte di una legittimazione popolare senza precedenti, l’attuale capo dell’Esecutivo ha avuto la possibilità di predisporre un programma di governo che doveva essere coraggioso, intelligibile e preciso a tal punto da “rimettere in moto l’Italia” dopo i disastri dell’era berlusconiana. Tuttavia, il Professore forse non è riuscito ad esercitare la legittimazione di cui era investito con la necessaria incisività, impostando una campagna elettorale ispirata ad un inspiegabile basso profilo al cospetto di un avversario prematuramente considerato inoffensivo.
Le troppe incertezze relative alle scelte di politica economica hanno costituito l’ulteriore causa che ha condotto alla folle notte del 10 aprile, in cui l’Unione ha rischiato di perdere un’elezione che in base ai sondaggi poteva considerarsi già vinta. Come noto, dalle urne è uscita una maggioranza parlamentare così esigua che il Presidente del Consiglio risulta quotidianamente al costante ricatto dei partiti minori, i cui voti risultano evidentemente determinanti per la conservazione del vincolo fiduciario.
Tutto ciò premesso, sembra difficile sostenere che il Partito Democratico costituisca lo strumento idoneo per rafforzare l’immagine di Prodi all’interno della coalizione: qualora infatti si ponesse a capo di una forza direttamente coinvolta nelle lotte di potere al momento in atto in seno all’Unione, egli paradossalmente rischierebbe di perdere quella superiore legittimazione a cui si è in precedenza fatto riferimento, e la cui sussistenza ha finora impedito ai suoi riottosi alleati di metterne in discussione il ruolo.

4. Il problema della collocazione: possiamo morire democristiani?

Tuttavia, i problemi presi in esame fino a questo momento assumono un rilievo marginale rispetto alle grandi questioni inerenti alla collocazione ideologica del nuovo partito ed all’identità che questo dovrà assumere. Prendendo vita dalla mera fusione di due realtà caratterizzate da una diversa cultura, da una diversa storia, da diversi valori e da diversi principi etici e morali, il PD nasce come un movimento bicefalo frutto di una lenta e macchinosa strategia di compromesso, finora ispirata dalla logica dalemiana secondo cui “non si può costringere i democristiani a morire socialisti”.
L’attuazione di una simile linea di ragionamento impone però ai dirigenti diessini di qualificare con chiarezza i rapporti che il nuovo partito dovrà intrattenere con il PSE, rapporti finora delineati attraverso perifrasi nebulose quali sono i continui riferimenti a un “costante dialogo” o a un proficuo confronto” con la principale forza del socialismo europeo che quotidianamente caratterizzano le dichiarazioni rese alla stampa dallo stato maggiore ulivista.
Di fronte ad un simile status quo, sorge spontanea la necessità di riproporre quegli interrogativi che da troppo tempo tormentano le coscienze dei militanti della sinistra italiana: se non è possibile costringere i democristiani a morire socialisti, è eticamente corretto imporre agli eredi di Gramsci e Berlinguer di rinunciare una volta per sempre alla loro identità, confluendo in un movimento ideologicamente comparabile alla corrente morotea che governava la DC negli anni del compromesso storico? E’ lecito, in altri termini, costringere le migliaia di elettori che continuano orgogliosamente ad affermare il loro “essere di sinistra” a morire democristiani?
Per offrire una risposta convincente ai quesiti appena formulati, può essere utile, a mio avviso, ripercorrere alcuni dei momenti centrali della storia politica italiana degli ultimi quindici anni. Da un sintetico esame di tali avvenimenti, emerge come la Quercia abbia incessantemente cercato di conseguire una piena legittimazione democratica anche agli occhi di quella che può genericamente definirsi la classe borghese, legittimazione peraltro già ampiamente conquistata attraverso la Guerra di Liberazione e le grandi battaglie civili compiute negli anni ’70 e ulteriormente consolidata attraverso il sostegno fornito ai governi guidati da Amato e Ciampi nella delicatissima fase di transizione che caratterizzo l’inizio degli anni ’90.
La strategia elaborata nei piani alti di Botteghe Oscure (inizialmente diretta ad individuare, in ossequio alla migliore tradizione della politica berlingueriana, una serie di punti di convergenza con i soggetti espressione dell’area cattolica, liberaldemocratica e riformista) ha però subito una serie di degenerazioni, in forza delle quali i DS sono giunti a mettere in discussione la loro natura socialista per assumere essi stessi una connotazione riformista e liberaldemocratica palesemente non in linea con le idee ed i principi a cui la base continua ad ispirarsi.
Queste degenerazioni possono essere ravvisate nell’apertura alle istanze revisioniste dirette a mettere in discussione i valori della Resistenza e ad offrire una nuova verginità politica agli adepti della Repubblica di Salò, nella costante ricerca di un confronto istituzionalmente corretto con un avversario che non perde occasione per manifestare quotidianamente la sua indole parafascista e antidemocratica, nella manifesta incapacità di avanzare sui grandi temi della giustizia, del lavoro, delle relazioni internazionali, della laicità dello Stato delle proposte in grado di assecondare le istanze avanzate dalla maggioranza dei militanti.

5. Una forza unitaria della sinistra italiana come alternativa al Partito Democratico

L’attuale prospettiva di procedere allo scioglimento dei DS, di privare l’Italia di una forza politica che si ispiri ai valori del socialismo europeo , rappresenta in questo senso la logica evoluzione di quella deriva moderata di cui il suddetto partito è in questa fase oggetto, a causa delle basse logiche di potere che animano le scelte varate dall’attuale gruppo dirigente.
Costituisce infatti una verità incontrovertibile l’affermazione secondo cui il Partito Democratico (già dotato di una sua iniziale struttura, di una scuola di formazione, di un periodico di riferimento) non ripete i suoi caratteri essenziali dalle indicazioni avanzate da tesserati e simpatizzanti attraverso serrati dibattiti svoltisi nelle assemblee o nelle sezioni, ma dalle determinazioni espresse da un’oligarchia, da quella ristretta cerchia di eletti riunitisi nella già descritta assise di Orvieto, di cui fanno parte gli stessi illuminati intellettuali che, dopo aver rischiato di consegnare ancora una volta al Cavaliere le chiavi di Palazzo Chigi, ne hanno addirittura caldeggiato la nomina a senatore a vita.
Prendendo atto delle decisioni assunte da questa sorta di conclave ulivista (autoqualificatosi come rappresentativo della maggioranza degli elettori del centro-sinistra), anche l’interessante costruzione avanzata da Paolo Prodi avente l’oggetto l’attribuzione al popolo delle primarie del potere di eleggere i componenti degli organi direttivi del nuovo partito risulta alla lunga poco risolutiva: prima di discutere su “come” realizzare siffatto partito, occorre infatti comprendere “se” effettivamente sussistono ragioni valide per procedere alla sua costituzione.
Dal mio punto di vista, è proprio su quest’ultimo aspetto che si sta consumando una frattura tra il popolo diessino ed i vertici del partito: prendendo coscienza di una simile frattura, è possibile affermare l’esigenza di un ricambio generazionale (a livello sia locale che nazionale) dell’attuale classe dirigente, presupposto indispensabile per restituire ai DS una collocazione ideologica inequivocamente riconducibile ai valori del socialismo europeo e per offrire ad un elettorato deluso e disorientato un nuovo modello in cui credere, un nuovo punto di riferimento a cui ispirarsi.
In questo senso, non si può non guardare con interesse alla proposta – inizialmente formulata da Diliberto e rilanciata in questi giorni anche da alcuni esponenti del Correntone – diretta a realizzare una forza unitaria della sinistra italiana, capace di coinvolgere anche quelle componenti di Rifondazione che faticano a riconoscersi negli effimeri rigurgiti di estremismo che talvolta contraddistinguono le frange più estreme di quel partito.
La creazione di una sinistra forte ed unita, imperniata su un forte consenso popolare ed immune alle tendenze al trasversalismo che talvolta pervadono alcune forze dell’attuale maggioranza di governo, non solo sarebbe utile per attribuire incisività e chiarezza all’azione politica dell’Unione, ma garantirebbe anche la sussistenza a livello istituzionale di una realtà in grado di contrapporsi all’incedere del Caimano con la stessa passione che ha caratterizzato, negli ultimi cinque anni, l’attività dei movimenti operanti nell’ambito della società civile.

martedì, ottobre 03, 2006


D’ALEMA, BERLINGUER E IL PARTITO DEMOCRATICO

In un’intervista apparsa sull’ultimo numero di “Panorama”, Massimo d’Alema ha affrontato il problema relativo alla collocazione ideologica del futuro Partito Democratico, individuando, in base ad una linea di ragionamento sostanzialmente coincidente con quella proposta da Veltroni nel suo intervento alla Festa de “l’Unità” di Pesaro, nell’attuazione di siffatto progetto politico l’ideale completamento della strategia del compromesso storico avviata da Berlinguer nel lontano 1973.
Premesso che non può sfuggire ad un osservatore attento come l’attuale Ministro degli Esteri scelga sempre il periodico di casa Berlusconi per rivolgersi alle anime moderate della coalizione (emblematica in questo senso fu la dichiarazione in cui egli sosteneva la sostanziale ingiustizia dell’esecuzione di Mussolini in quanto non preceduta da un regolare processo), l’argomentazione diretta a dimostrare che “oggi Berlinguer vorrebbe il Partito democratico” costituisce, a mio sommesso avviso, un falso storico di dimensioni macroscopiche.
Se infatti si può ammettere che la politica del Segretario sassarese identificava nel dialogo tra masse operaie e masse cattoliche (presupposto imprescindibile per la configurazione del PCI quale forza rappresentativa del socialismo moderno, definitivamente affrancata dal giogo di Mosca) l’unica via italiana per l’affermazione della socialdemocrazia, non può del pari negarsi che siffatta strategia non imponeva in alcun modo alla principale realtà della sinistra di rinunciare alla propria identità e al proprio ruolo di protagonista nelle Istituzioni e nel Paese.
Queste considerazioni trovano conferma nei passaggi centrali della famosa intervista rilasciata a Repubblica nel 1981, laddove il delfino di Togliatti, nel proporre la questione morale in confronto delle varie componenti del nascente CAF, metteva in risalto le ragioni di quella diversità etica ed ideologica che precludeva l’assimilazione del Partito Comunista agli altri movimenti che allora imperversavano a Montecitorio.
Posto che, pur nel rispetto dello spirito collaborativo imposto dalla logica di coalizione, tali ragioni di diversità rimangono tuttora inalterate, appare evidente come la creazione di un unico soggetto politico derivante dalla fusione fredda tra DS e Margherita rappresenterebbe sotto un duplice aspetto una radicale negazione dell’appena descritta questione morale.
Da un lato, essa imporrebbe ai Democratici di Sinistra di dismettere una volta per sempre l’identità socialista - che ancora caratterizza la maggioranza dei militanti - per venire incontri alle istanze moderate proposte da realtà le quali, per cultura e tradizione, del socialismo non possono condividere principi e valori; d’altro lato, risolvendosi in un partito destinato a riconoscersi nell’ovattato modello stile liberal proprio dei Democratici statunitensi, gli eredi di Gramsci si precluderebbero la possibilità di esercitare quella funzione di punto di riferimento per tutti i progressisti d’Italia che Berlinguer intendeva attribuire al Partito da lui guidato.
Alla luce di queste considerazioni, tra i tanti dubbi che attualmente tormentano la sinistra italiana, una piccola certezza può considerarsi acquisita: se per avventura il Segretario sassarese si fosse trovato ad operare nell’epoca dei reality show e della globalizzazione, delle guerre preventive e del berlusconismo imperante, il Partito Democratico non sarebbe stato al centro del suo patrimonio ideologico.

Carlo Dore jr.

sabato, settembre 30, 2006


IL CONFLITTO DI INTERESSI COME SFIDA DI CREDIBILITA’

Con l’individuazione da parte del Consiglio dei Ministri delle linee guida a cui dovrebbe essere ispirata la prossima legge finanziaria, il Governo ha temporaneamente allontanato i dubbi sollevati da parte dell’opinione pubblica in ordine alla sua stabilità, fermo restando che la compattezza della maggioranza parlamentare sembra comunque destinata ad essere messa a dura prova dalla battaglia politica e sociale che desumibilmente caratterizzerà l’attuazione della manovra economica.
Tuttavia, proprio le vicende che hanno portato all’intesa in ordine al contenuto della legge in questione, unitamente agli sbandamenti manifestati con riferimento all’affaire Telecom, hanno sostanzialmente indebolito la posizione dell’Esecutivo sia nei confronti dell’elettorato (intimorito di fronte a scelte di politica economica enfaticamente descritte come ispirate a logiche di tipo dirigista), sia nei confronti dell’opposizione, i cui esponenti hanno potuto dileggiare la storia personale del Premier senza che nessuno tra i leaders dell’Ulivo rilevasse che nel passato di Romano Prodi non vi è traccia di condanne estinte per prescrizione o di affiliazioni a logge massoniche deviate.
Vittima predestinata di una legge elettorale elaborata al solo scopo di esaltare la funzione dei partiti minori, l’Unione si presenta allo stato attuale come una coalizione profondamente eterogenea, in cui i particolarismi mastelliani prevalgono sulle logiche di tipo unitario. Premesso che un simile stato di fatto non può essere superato attraverso il completamento del processo costitutivo del Partito Democratico (la cui formazione finirebbe paradossalmente con l’incrementare i consensi dei partiti afferenti alla c.d. sinistra radicale, finora resasi peraltro coerente portatrice di quelle istanze di giustizia sociale già manifestate durante la campagna elettorale), Prodi ha dovuto in questi mesi fungere da paziente mediatore tra le diverse anime progressiste, assumendo decisioni che per forza di cose non sono mai risultate unanimemente condivise.
Tuttavia, spetta ora al Presidente del Consiglio il compito di imporre alla maggioranza che lo sostiene le priorità dell’azione di governo; e queste priorità devono essere individuate nella riforma del sistema elettorale e nell’approvazione di una legge in grado di regolamentare in maniera incisiva la materia del conflitto di interessi.
Premesso che le argomentazioni di quegli esponenti dell’Ulivo che, nell’ auspicare l’instaurazione di un “proficuo confronto con l’opposizione”, individuano nello stesso Berlusconi l’uomo in grado di favorire “il dialogo tra i poli” possono essere liquidate come meri colpi di calore causati dallo splendido sole di Mergellina, costituisce infatti una verità incontrovertibile l’affermazione secondo cui il Caimano rappresenta l’anomalia che preclude il corretto funzionamento della nostra democrazia.
In una fase in cui ogni intervento dello Stato in settori strategici dell’economia viene immediatamente bollata come manifestazione di dirigismo, non si deve dimenticare come i cinque anni di governo della Casa delle Libertà sono stati caratterizzati dal costante asservimento del potere politico alle esigenze di un gruppo imprenditoriale privato, messo nelle condizioni di risolvere, a seguito della ormai famosa “discesa in campo” del suo dominus, la pesantissima situazione debitoria in cui versava nel 1994.
Attraverso il voto del 10 aprile, gli elettori hanno conferito all’Unione un chiarissimo mandato diretto a risolvere siffatta anomalia. Attraversa la previsione della radicale ineleggibilità del Cavaliere, l’attuale maggioranza ha quindi la possibilità di eliminare dalla scena politica italiana l’assurda commistione tra interessi privati e potere pubblico che egli da dodici anni rappresenta, recuperando così agli occhi degli elettori quella credibilità in parte venuta meno in questi primi mesi di governo.

Carlo Dore jr.

domenica, settembre 10, 2006


WORLD TRADE CENTER
“…contro il terrorismo sempre, con Bush mai…”

Nella giornata di oggi, il Mondo intero si fermerà per ricordare le vittime degli attentati che, in quel pomeriggio di cinque anni fa, colpirono al cuore gli Stati Uniti d’America. Ogni singolo istante che scandì l’evolversi di quegli eventi è indelebilmente impresso nella memoria di tutti i nostri contemporanei, come i frammenti degli incubi più terribili, che ritornano alla mente dopo il risveglio malgrado gli sforzi compiuti per dimenticarli.
Ma quel giorno l’incubo non svanì con i primi raggi del sole, facendo prepotentemente irruzione nella realtà sotto forma di aerei impazziti scagliati con precisione distruttiva contro il World Trade Center, simbolo per antonomasia della più importante potenza occidentale. E mentre le edizioni straordinarie dei telegiornali trasmettevano in diretta le raccapriccianti immagini delle persone che cercavano invano salvezza lanciandosi nel vuoto prima del crollo delle due Torri, allo sgomento e alla costernazione cagionata da quegli eventi si affiancavano i timori per gli scenari di politica internazionale celati sotto le macerie di Ground Zero.
Tuttavia, i suddetti scenari avevano iniziato a delinearsi dal momento in cui quello che Michael Moore coraggiosamente definì (secondo una traduzione a dir poco libera) “l’imbelle delfino di un Presidente guerrafondaio” completò la sua ascesa alla Casa Bianca. Ideatore di una strategia di potere diretta a collocare sotto il diretto controllo statunitense una serie di “Stati canaglia” , Gorge W. Bush ha utilizzato l’argomento della lotta al terrorismo per riaffermare una concezione degli equilibri mondiali sostanzialmente coincidente con quella che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda. Seminando il panico in una popolazione ferita, egli di fatto ha invocato uno sorta di scontro tra civiltà, attribuendo all’Occidente il compito di imporre il vangelo della democrazia ai fanatici infedeli.
Anche grazie ad una congiuntura politica favorevole che rendeva la comunità internazionale quasi integralmente asservita ai voleri di Washington, il petroliere texano ha così scagliato un offensiva militare senza precedenti nei confronti di alcuni dei paesi oggetto della suddetta strategia, quali l’Afghanistan e l’Iraq. Tutti coloro i quali tentavano di opporsi ad un simile status quo, rilevando come i valori democratici non possono essere imposti ad un popolo attraverso l’uso delle bombe, venivano puntualmente additati come disfattisti e come fiancheggiatori di Al Quaeda, e di conseguenza travolti dalla cieca ostinazione con cui i governi di Spagna, Inghilterra ed Italia sostenevano la nuova crociata americana.
Ma l’infelice esito del conflitto iracheno ha fatto esplodere in tutta la sua evidenza la macroscopica contraddizione che stava alla base del disegno strategico perseguito dalla White House: la guerra (intesa come fenomeno convenzionale di contrapposizione militare tra Stati) non può costituire lo strumento utile per fronteggiare un nemico senza nome né volto, e capace per giunta di colpire il suo avversario all’improvviso in contesti del tutto estranei al terreno di scontro.
E così, mentre Bin Laden rimane un fantasma inafferrabile ed Al Quaeda dimostra quotidianamente la sua immutata pericolosità, le guerre di Bush continuano a mietere vittime tra civili inermi e militari il più delle volte spinti a partecipare a pericolose operazioni non da elevati ideali patriottici ma dalla semplice e comprensibile prospettiva di alleviare il disagio che caratterizza la loro condizione nel paese d’origine.
Di fronte al crescente numero di morti cagionati dai conflitti attualmente in atto, agli orrori verificatisi nelle segrete di Abu Grahib e nel campo di prigionia di Guantanamo, ai proclami razzisti scagliati a reti unificate da uno scalcinato tribuno sciaguratamente investito di un incarico ministeriale, alle sporche logiche a cui troppo spesso la politica si adegua, sorge spontanea l’osservazione secondo cui, a cinque anni di distanza da quel maledetto 11 settembre, questa dimensione dell’Occidente democratico non rende onore ai caduti delle Torri Gemelle.
La loro memoria trova la giusta celebrazione in una realtà ben diversa: nella realtà del popolo della pace, disposto a riversarsi nelle strade e nelle piazze per dimostrare, attraverso un gesto semplice come l’esposizione di una bandiera arcobaleno, la propria contrarietà ad una politica radicalmente inidonea ad assicurare la diffusione della democrazia. La riaffermazione del valore della pace in confronto di tutte le strategie di potere basate su autentiche guerre di aggressione costituisce infatti il modo più efficace per ricordare quanti persero la vita in nome della libertà.

Carlo Dore jr.

lunedì, agosto 28, 2006


IL CACCIATORE DI INCIUCI
- la sindrome del Beriatravaglio –


Il rilievo giustamente offerto dall’intera opinione pubblica alle decisioni assunte dal Governo in ordine alle strategie di politica estera ha fatto praticamente passare sotto silenzio la polemichetta, elegantemente consumatasi sulle pagine de “l’Unità” all’inizio di agosto, tra Sergio Staino e Marco Travaglio.
In una delle sue vignette domenicali, Staino infatti proponeva la parodia del lento processo di trasformazione di cui sarebbe vittima il tipico militante dei DS in quanto soggetto alla venefica influenza del Beriatravaglio, un inquietante avvoltoio i cui tratti ricordano fatalmente quelli del ben noto giornalista, capace con la sua azione persuasiva di tramutare un appassionato osservatore delle scelte del partito in un fanatico “cacciatore di inciuci” pronto ad incrementare le fila della pseudotalebana “brigata di Micromega”.
Premesso che Antonio Padellaro ha intelligentemente riportato la suddetta querelle alla giusta dimensione di una normale divergenza di vedute sorta all’interno di una redazione non omologata ad un pensiero egemone, gli spunti offerti dalla vignetta appena descritta suggeriscono, a mio sommesso avviso, una riflessione ulteriore. Pur nella sua dimensione caricaturale, essa infatti mette in rilievo le radici più profonde di quella sorta di innata propensione al trasversalismo che ha caratterizzato l’azione delle principali forze del centro-sinistra dal momento stesso della loro ascesa al governo del Paese.
I più evidenti segnali dell’esistenza di siffatta propensione possono essere individuati nella scellerata intesa bipartizan che ha condotto all’approvazione dell’indulto, nella partecipazione di Berlusconi alla prossima Festa della Margherita, e infine nei mai rinnegati legami tra Clemente Mastella e Moggi.
Coloro i quali trovano la forza di denunciare un simile status quo, rilevando come le situazioni appena elencate si pongano in aperto contrasto con i valori a cui si ispira la sinistra tradizionale, vengono puntualmente bollati come disfattisti, come soggetti privi di lungimiranza politica e di lealtà istituzionale, come paranoici “cacciatori di inciuci”.
Tuttavia, il ragionamento ironicamente formulato da Staino è caratterizzato da un macroscopico errore di fondo: proprio in quanto osservatore appassionato delle vicende che coinvolgono il partito in cui tuttora si riconosce, l’autentico militante dei DS, politicamente formatosi tra i comizi di Berlinguer e le discussioni che animano ogni festa de “l’Unità”, è per forza di cose un cacciatore di inciuci, trovando nella questione morale e nelle ragioni costitutive della diversità esistente tra la già citata sinistra tradizionale e lo schieramento che ad essa si contrappone i capisaldi ideologici su cui è fondato il suo credo.
Le ragioni di questa diversità vengono quotidianamente ribadite attraverso gli articoli di Travaglio ed i saggi pubblicati su “Micromega”, nel tentativo di affermare una volta di più quella forte aspettativa di dicontinuità rispetto al passato che gli elettori continuano a nutrire nei confronti dell’attuale maggioranza di governo.
Se questa aspettativa dovesse al fine risultare disattesa, in quanto soffocata da basse logiche di tipo consociativo, il monito palesemente espresso dal “Caimano” di Nanni Moretti assumerebbe i contorni di una drammatica realtà: senza la discontinuità richiesta dai cacciatori di inciuci, si potrebbe davvero affermare che, malgrado il successo elettorale riportato dall’Unione nella notte del 10 aprile, Berlusconi di fatto ha vinto comunque.

Carlo Dore jr.

martedì, agosto 01, 2006



I FURBETTI DELL’INDULTINO


All’indomani dell’approvazione dell’indulto da parte del Senato, il ministro Mastella ha rilevato come la felice conclusione dell’iter relativo all’intesa sul provvedimento di clemenza rappresenta una vittoria del garantismo sul giustizialismo forcaiolo. Così ragionando, il Guardasigilli si è unito a quel trasversalissimo coro di benpensanti che, con chiaro riferimento alla posizione di Cesare Previti, non hanno esitato a qualificare talebani quanti “vogliono ancora vedere le manette ai polsi di un povero settantenne”.
Premesso che le ragioni proposte per giustificare l’estensione del provvedimento in questione anche ai soggetti sotto processo per reati finanziari sono sembrate talmente deboli da non risultare convincenti nemmeno per i non addetti ai lavori, le parole del Ministro della Giustizia hanno suscitato lo sconcerto e l’indignazione dell’intero elettorato progressista.
Costituisce infatti ormai una verità tristemente inconfutabile l’affermazione secondo cui, nella precedente legislatura, sono stati minati i principi essenziali su cui il nostro ordinamento giuridico (basato sulla separazione dei poteri dello Stato e sulla configurazione del processo penale come contraddistinto dalla “parità di condizioni” tra le parti del contraddittorio) attualmente si fonda.
Come noto, la non rimpianta maggioranza di centro-destra, elevatasi a principale difensore di alcuni imputati eccellenti, ha approvato negli ultimi cinque anni una serie di leggi utili non solo a risolvere le pendenze giudiziarie dei suddetti imputati, ma anche a precludere di fatto alla magistratura l’esercizio delle prerogative che la Carta Fondamentale ad essa riconnette.
Mentre i parlamentari dell’Ulivo assistevano passivi ed impotenti al bieco imperversare delle orde capitanate Cavaliere di Arcore, migliaia di persone non direttamente collegate ad alcun partito politico hanno invaso tutte le piazze d’Italia per manifestare il loro dissenso verso un simile status quo. A guidare questa dirompente opposizione civile non era solo l’avversione maturata in confronto degli atteggiamenti da caudillo quotidianamente ostentati dal Caimano nel salotto di Bruno Vespa, ma anche la convinzione che il centro-sinistra avrebbe saputo restituire efficienza ed equità al sistema-giustizia, attraverso una incisiva valorizzazione dei principi dell’autonomia della magistratura e della certezza della pena nei riguardi di quanti risultano condannati con sentenza irrevocabile.
Tuttavia, a seguito di un patto perverso stipulato proprio con i sodali di Berlusconi, il ministro Clemente (fedele al dogma del trasversalismo estremo proprio della migliore tradizione andreottiana) ha preferito ignorare il mandato conferito all’Unione dagli elettori, garantendo l’impunità a una serie di “poveri cristi” del calibro di Previti e Ricucci, di Cragnotti e Tanzi, di Fiorani e del sig. Savoia.
Ma una simile operazione, per quanto potenzialmente conveniente dal punto di vista degli equilibri parlamentari, espone l’attuale maggioranza al rischio (politicamente altissimo) di alimentare la spaccatura esistente tra i militanti ed i vertici dei partiti, sempre più impegnati in giochi di potere del tutto inidonei ad assecondare le istanze provenienti dalla base che li sostiene. E questa spaccatura può alla lunga rappresentare la principale causa del definitivo fallimento del progetto di Romano Prodi: quell’agguerrito manipolo di giustizialisti che si ostina a credere nei valori consacrati nella Costituzione non può in alcun modo sentirsi rappresentato dai furbetti dell’indultino.

Carlo Dore jr.

martedì, luglio 18, 2006


GENOVA, CINQUE ANNI DOPO
-20 luglio 2001: ricordo di un giorno di ordinaria follia-


La storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi è caratterizzata da una molteplicità di misteri destinati a rimanere insoluti: sono misteri inquietanti e terribili, animati da aerei improvvisamente esplosi in volo, banchieri deceduti a seguito di suicidi acrobatici, stragi rosse e stragi nere, magistrati vittime di brutali attentati, politici corrotti, poliziotti collegati ad occulti centri di potere, anarchici distratti accidentalmente volati da una finestra, persone comuni uccise in inspiegabili incidenti.
Ma tutte queste storie sono contraddistinte da un sinistro minimo comune denominatore: su di esse è calata, cupa ed implacabile, la macabra cortina d’oblio del politicamente corretto, della verità bipartizan, della diffusa consapevolezza che l’approfondita analisi di determinate vicende potrebbe portare alla luce verità incompatibili con la necessità di garantire il sereno funzionamento delle istituzioni democratiche. In questo senso, i “fatti di Genova” di cinque anni fa possono essere qualificati come l’ultimo grande mistero d’Italia.
L’estate del 2001 ricorda molto (dal punto di vista climatico) quella che stiamo vivendo attualmente, con le città attanagliate da un caldo secco ed opprimente: a rendere ancor più infuocate quelle giornate di luglio contribuiva peraltro l’insediamento di un Governo chiaramente intenzionato a dare agli oppositori una prima, inequivocabile dimostrazione di forza. L’occasione si presentò proprio con riferimento alle manifestazioni programmate a Genova in occasione del G8: un fiume di gente si preparava ad invadere le strade blindate del capoluogo ligure, abbacinato dall’idea di un mondo non più governato dalle consuete oligarchie.
Ma mentre il corteo procedeva, pacifico e chiassoso, una serie di piccoli gruppi di devastatori organizzati (tristemente noti come black blockers) iniziò a mettere a ferro e fuoco il centro cittadino: la reazione delle forze dell’ordine (che per lunghe ore erano rimaste inerti di fronte all’imperversare delle tute nere) si abbattè con improvvisa, scomposta ed ingiustificata violenza anche sulla componente pacifica della manifestazione, con la folla sgomenta squarciata dalle ripetute cariche dei blindati.
Ad interrompere per un lunghissimo istante quel turbine di grida, sassi e manganelli fu il rumore secco e metallico di un colpo di pistola: e quando i grandi della politica iniziavano a negoziare i futuri assetti del Pianeta, il sangue di Carlo Giuliani (vittima ma non martire di quei giorni di ordinaria follia) già si spandeva sul cemento arroventato di Piazza Alimonda.
Gli altri episodi che scandirono l’evolversi delle vicende oggetto di questa riflessione sono tristemente noti a tutti: la precostituzione di false prove, le torture praticate in confronto di individui inermi rei di avere esercitato un loro diritto costituzionalmente garantito spinsero la metà del Paese a gridare sdegno, odio e furore per rispondere all’ululato delle sirene che si elevava costante dal porto di Genova.
Ma, a distanza di cinque anni, la cortina d’oblio cui si è in precedenza fatto riferimento tende a calare ancora una volta su queste tristi vicende: forti dell’appoggio degli squadristi della Nuova Destra, impegnati allo spasimo nella difesa incondizionata del prestigio delle forze dell’ordine, alcuni dei funzionari responsabili degli avvenimenti appena descritti sono stati addirittura promossi a più alti gradi del corpo di riferimento, mentre il processo che vede imputati i carabinieri responsabili dell’irruzione alla scuola Diaz sembra destinato ad arenarsi nelle secche della prescrizione.
Tuttavia, in quanti non riescono a dimenticare le immagini di quelle giornate del luglio 2001, sopravvive il sospetto che essi fossero i meri esecutori di un disegno politico diretto a criminalizzare un movimento capace di costituire una voce di opposizione forte ed incessante nei confronti di un determinato status quo. E’un sospetto che emerge dai fotogrammi di documentari e reportage, che traspare dai libri e dagli articoli dedicati ai fatti che caratterizzarono il G8 del 2001: dinanzi all’incombere di un ennesimo mistero di Stato, la forza della memoria costituisce il migliore strumento per affermare il desiderio di verità.

Carlo Dore jr.

domenica, luglio 02, 2006


PARTITO DEMOCRATICO: LE RAGIONI DEL “NO”


In coincidenza con le prime tensioni manifestatesi nella maggioranza di governo in ordine ad alcune scelte assunte dall’Esecutivo in materia di politica estera e di strategia economica, il problema relativo alla collocazione del futuro partito democratico torna prepotentemente al centro del dibattito in corso all’interno della sinistra italiana.
Mentre Gavino Angius ha rilevato la gestione “eccessivamente oligarchica” dei principali momenti in base ai quali è stata scandita la transizione verso il nuovo soggetto politico, il leaders del Correntone Salvi e Mussi non hanno esitato a prospettare l’eventualità di una scissione qualora la suddetta fase di transizione non venga resa oggetto di un aperto confronto in sede congressuale.
Le preoccupazioni manifestate dalla componente più radicale dei DS non sono state però recepite dal Presidente della Provincia di Cagliari Graziano Milia, il quale, fedele al ruolo di moderato riformista che ormai lo contraddistingue, ha recentemente ribadito l’impegno del centro-sinistra sardo per l’attuazione del disegno volto a determinare la tanto sospirata fusione tra la Margherita e la Quercia.
Orbene, proprio i concetti di oligarchia e di progetto politico rappresentano, a mio modesto avviso, i cardini su cui risulta impostato il dibattito a cui si è fatto inizialmente riferimento. Da un punto di vista strettamente ideologico, molteplici sono i fattori che alimentano le perplessità relative alla realizzazione del progetto del partito democratico: in primo luogo, non si comprende infatti su quale base è possibile impostare la coesistenza, all’interno di una formazione unitaria, tra soggetti che sono espressione di realtà a tal punto distanti da rendere problematica persino la quotidiana stabilità di una semplice coalizione.
In secondo luogo, considerato che la guida del nuovo partito verrà fatalmente assunta da esponenti riconducibili all’ala moderata del centro-sinistra attuale, non si può non rilevare come l’operazione che si esamina priverebbe la politica italiana di un movimento saldamente ancorato ai principi del socialismo europeo, in grado di farsi portatore (con riferimento ai grandi temi della giustizia, della pace, del lavoro, della laicità dello Stato, dell’istruzione e della ricerca scientifica) delle istanze costantemente proposte da quell’ampia fascia di elettorato che, pur non identificandosi nelle degenerazioni estremiste proprie di alcune frange di Rifondazione Comunista, continua a riconoscersi nei valori della sinistra tradizionale.
Resa in questi termini palese l’assoluta mancanza di logica che caratterizza il disegno unitario perseguito con tanta ostinazione dai vertici diessini, la perdita di consensi subita dalla Quercia negli ultimi dieci anni sembra confermare la tendenza dei militanti non collegati ad alcun centro di potere a prendere le distanze dalla più volte descritta deriva moderata in cui il Partito sembra ormai irreversibilmente coinvolto.
Ma è proprio alla luce di quest’ultimo dato che il concetto di oligarchia riemerge in tutta la sua prepotente evidenza: l’idea del superamento dell’identità socialista, della creazione di un nuovo partito di chiara estrazione moderata sembra essere lo strumento perfetto per giustificare l’adesione ad una linea politica che si rivela ogni giorno sempre più lontana da quelli che sono i principi di solidarietà, rigore e giustizia sociale a cui la Sinistra da sempre si ispira.
Derivando da una serie di valutazioni assunte nel segreto delle tanto vagheggiate stanze del potere, il Partito Democratico è destinato ad abbattersi sul popolo progressista come una valanga: spetta ora alla base l’onere di prendere le distanze da una strategia che sembra allontanare in via definitiva la struttura dei DS dal popolo che la sostiene. Messi di fronte ad una scelta che rischia di determinare il venire meno del principale partito della sinistra italiana, i militanti hanno infatti il dovere di ribadire ancora una volta che l’identità socialista ed i valori su cui essa di fonda non possono costituire oggetto discussione.

Carlo Dore jr.

venerdì, giugno 23, 2006


CONTRORIFORMA DELLA GIUSTIZIA E CONTRORIFORMA DELLA COSTITUZIONE[1]


Vorrei impostare il mio intervento sulla base di alcune considerazioni che sono state proposte nei giorni precedenti questo nostro incontro, le quali possono costituire lo spunto per procedere in alcune riflessioni di carattere generale in ordine agli argomenti su cui ci troviamo oggi a dibattere.
Nell’illuminante saggio in cui vengono esposte le ragioni del No alla riforma costituzionale voluta dal centro-destra, Pietro Ciarlo rileva come la c.d. bozza di Lorenzago costituisce il frutto di un bieco baratto tra le forze politiche che componevano la precedente maggioranza di governo [2].
Per ottenere la rapida approvazione delle leggi necessarie a risolvere le proprie pendenze giudiziarie e quelle di alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, l’on. Berlusconi non ha infatti esitato ad accordare alla Lega Nord la tanto sospirata devolution, ad assecondare le tendenze autoritarie di AN disegnando quella figura di premier forte la quale peraltro si adatta perfettamente ai caratteri di Piccolo Cesare che da sempre lo contraddistinguono, e ad accontentare l’UDC attraverso l’approvazione di una legge elettorale proporzionale talmente bizantina e cavillosa da costituire alla lunga la stessa corda che ha impiccato la Casa delle Libertà alle ultime consultazioni politiche.
Tuttavia, per quanto formalmente qualificabile come il risultato di un compromesso tra le varie anime poliste, questa riforma costituisce , a mio modesto avviso, una sorta di assordante e stucchevole inno al berlusconismo. Costituisce infatti una verità inconfutabile l’affermazione in forza della quale Berlusconi può essere qualificato (secondo la terminologia propria delle manifestazioni degli anni ’70) come un padrone: in quanto padrone, egli preferisce accordare ai suoi subordinati dei benefit più o meno consistenti piuttosto che incontrare resistenze nell’attuazione dei processi aziendali.
Ma c’è di più: proprio in quanto padrone, il Cavaliere mal sopporta l’esistenza di istituzioni di garanzia che, svolgendo in maniera incisiva la loro funzione, possano limitare la sua libertà di azione e rallentare l’esecuzione delle sue decisioni. Ho già avuto modo di rilevare [3] come, in questo senso, trova una sua ragion d’essere la rideterminazione dei criteri di nomina dei giudici della Consulta, la revisione delle prerogative del Capo dello Stato, l’attribuzione al Presidente della Repubblica (nominato dal Parlamento) di procedere alla nomina del vice-presidente del CSM (misura quest’ultima palesemente diretta a rendere più stringente il controllo della politica sull’organo di autogoverno della Magistratura).
Tuttavia, risulta secondo me condivisibile il rilievo proposto da Giancarlo Caselli nel suo intervento pubblicato sull’ultimo numero di Micromega [4]: la riforma della Costituzione non deve essere concepita come un’iniziativa del tutto isolata, ma come un momento di attuazione di un progetto politico più ampio, risultando animata dalla medesima ratio che contraddistingue la riforma dell’ordinamento giudiziario. Le affinità esistenti tra le due leggi appena richiamate sono anche troppo evidenti: entrambe rappresentano un attacco della politica al diritto, un’aggressione in confronto della stabilità ed al corretto funzionamento dell’ordinamento giuridico.
E’ noto come proprio sulla materia dei rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario le forze del centro-sinistra ed i vari movimenti formatisi in seno alla c.d. società civile hanno condotto una strenua opposizione alle decisioni assunte dal Governo Berlusconi nel corso della precedente legislatura. Gli elettori hanno pertanto conferito all’Esecutivo appena insediatosi un mandato chiaro ed inequivocabile: quello di impostare una politica della giustizia diretta ad assecondare le istanze degli operatori di settore, mettendo i magistrati nella condizione di operare con quella indipendenza ed autonomia che è stata loro costantemente negata negli ultimi cinque anni.
Ebbene, i primi segnali non sono incoraggianti: il nuovo Guardasigilli (un politico di professione, forse inconsapevole dei problemi che affliggono il dicastero da lui diretto) ha infatti deciso di non ricorrere alla decretazione d’urgenza per paralizzare i decreti attuativi della riforma-Castelli, preferendo rimettere la questione al giudizio delle Camere attraverso la proposizione di un normale ddl.
Premesso che la ragione giustificativa di una simile, scellerata valutazione è stata individuata nell’impossibilità per la maggioranza di sostenere in Senato un duro scontro con la CDL in sede di conversione dell’eventuale decreto, lo scorso lunedì la suddeta riforma ha iniziato a produrre i suoi nefasti effetti, affidando al Procuratore della Repubblica il monopolio esclusivo in relazione alla gestione delle indagini ed all’esercizio dell’azione penale e precludendo ai magistrati di partecipare a qualsiasi iniziativa pubblica su materie politicamente sensibili.
Tutto ciò implica che è sufficiente la presenza in un ufficio del PM di un Procuratore capo contiguo a determinati centri di potere per paralizzare il funzionamento della macchina processuale e per evitare che determinati fatti vengano portati a conoscenza dell’opinione pubblica.
Avviandomi a concludere, ho voluto sottoporre questi fatti alla vostra attenzione per rendere chiaro come, votando “no” a questa riforma della Costituzione, abbiamo la possibilità non solo di manifestare la nostra contrarietà al progetto politico in questa si inserisce, ma anche di invitare l’attuale Governo a varare una politica fatta di scelte incisive e radicali, ancorché politicamente rischiose.
L’esperienza della Bicamerale ci ha infatti insegnato come con quelle forze politiche nella cui cultura non rientra l’amor costitutionis la ricerca del confronto può rappresentare un pericolo che il centro-sinistra non può attualmente permettersi di correre. Volendo parafrasare Marco Travaglio, si può infatti affermare come con quella variegata fauna composta da pregiudicati e plurinquisiti, da caimani, alligatori e squali di ogni sorta la via del dialogo risulta essere assolutamente non percorribile.
Carlo Dore jr.

[1] Il presente scritto riproduce l’intervento all’incontro-dibattito sulla riforma della Costituzione svoltosi a Cagliari il 20 giugno 2006
[2] Così P. Ciarlo, No alla controriforma costituzionale voluta dal centro-destra, Napoli, 2006.
[3] Sul punto, C. Dore jr., Il ruolo delle istituzioni di garanzia nella riforma della Costituzioni, disponibile sul sito http://www.dscagliari.it/
[4] G. Caselli, Lettera aperta al Ministro della giustizia, in Micomega, 4, 2006.

martedì, giugno 13, 2006


L’AVVELENATA


La più lunga ed estenuante campagna elettorale della storia politica cagliaritana ha avuto oggi l’esito forse più scontato che si potesse attendere: mentre Emilio Floris viene trionfalmente confermato nella carica di Primo Cittadino, l’Unione si avvia verso l’ennesima, bruciante sconfitta. Premesso che la delusione ed il rammarico per l’occasione mancata (rammarico reso ancor più feroce dalle illusioni cullate a seguito dei brillanti risultati ottenuti dal centro-sinistra in occasione delle ultime consultazioni politiche) in questo momento limitano la lucidità del ragionamento di candidati e militanti, questa triste debacle costituisce il presupposto per procedere ad alcune necessarie considerazioni al veleno.
In primo luogo, le elezioni comunali appena concluse hanno fatto riemergere una volta di più l’anima nera che da sempre contraddistingue la città di Cagliari, la cui popolazione, mostrandosi drammaticamente indifferente ai quotidiani problemi della realtà urbana, non ha esitato a rinnovare la fiducia ad un sindaco il quale, lungi dal dedicarsi alla cura degli interessi della collettività, si è limitato nell’ultima consiliatura ad assecondare le esigenze di pochi e ben noti centri di potere.
Di fronte ad un simile status quo, era compito dell’Unione proporre una sfida di rinnovamento: una sfida che si poneva di per sé come ardua e rischiosa, considerate le connessioni esistenti tra il centro destra e quel sostrato provinciale e stucchevolmente piccolo-borghese su cui si fonda il nucleo della società cagliaritana. Tuttavia - forse male interpretando l’antico grido di Che Guevara, in base al quale le battaglie non si perdono ma si vincono sempre -, di fronte alla prospettiva di combattere una battaglia aspra e senza esclusione di colpi, l’Ulivo nostrano ha scelto di deporre preventivamente le armi e di lasciare così all’avversario la possibilità di assicurarsi quasi senza colpo ferile il campo di azione.
In questo senso assume una sua ragion d’essere la candidatura di Gianmario Selis, uomo onesto e politico capace, ma ormai privo del carisma necessario per rappresentare le istanze di tutte le anime della coalizione; in questo senso può inoltre essere individuata la perversa logica che ha ispirato la formazione di una lista unitaria composta (ferma restando qualche fisiologica eccezione) da candidati talmente logori ed abusati da non potere in alcun modo meritare il sostegno di quell’ampia fetta di elettorato la quale, mostrandosi insensibile a ipocrisie e trasformismi, continua orgogliosamente a professarsi di sinistra.
Ora, mentre questa ennesima sconfitta assume proporzioni sempre più definite, un’altra sfida di rinnovamento deve essere proposta: la sfida diretta a costituire una nuova classe dirigente in grado di sostituirsi al ristretto manipolo di druidi della politica che, ormai da vent’anni, governa con alterne sfortune le sorti del centro-sinistra sardo. Volendo infatti ancora una volta parafrasare Che Guevara, sembra logico sostenere che, se non tutte le battaglie possono essere vinte, sicuramente tutte meritano di essere almeno combattute.

Carlo Dore jr.

sabato, giugno 10, 2006


LA FOLLA GRIDAVA: ENRICO! ENRICO!


Il ventiduesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer assume una valenza politica del tutto particolare, considerato il contesto temporale in cui si colloca. Il (seppur risicato) successo riportato dal centro-sinistra nell’ultima competizione elettorale, la presenza nell’Esecutivo di numerosi ministri espressione delle forze politiche direttamente riconducibili all’esperienza del PCI, la nomina di Giorgio Napolitano alla carica di Presidente della Repubblica costituiscono infatti il presupposto utile per procedere nell’elaborazione di alcune riflessioni in ordine alla figura del leader sassarese, nel tentativo di mettere in evidenza l’estrema attualità che tuttora caratterizza il progetto politico in cui egli credeva.
Il punto di partenza di tale riflessione può essere paradossalmente individuato proprio in quella uggiosa serata di giugno di ventidue anni fa, quando Berlinguer si spense sul Palco allestito in Piazza della Frutta a Padova, durante un comizio in occasione delle elezioni europee. Mentre il megaschermo catturava le smorfie di dolore che contraevano il suo volto esausto durante gli ultimi passaggi del discorso, la folla iniziò a scandire all’unisono il nome del Segretario, avvincendolo così in quell’ideale abbraccio destinato ad essere rinnovato dalle migliaia di persone che invasero Roma in occasione dei funerali, tenutisi tre giorni dopo.
Le ragioni di una simile ondata emotiva sono state efficacemente illustrate da Miriam Mafai, in un passaggio del suo bellissimo “Botteghe Oscure addio”: in una fase storica caratterizzata da un preoccupante vuoto ideologico che facilitava il manifestarsi dei primi rigurgiti di estremismo, con Berlinguer il popolo della sinistra ritrovava un Capo.
Le immagini di Jan Palack che brucia dinanzi al carro armato sovietico avevano infatti rappresentato per i comunisti italiani l’inizio del procedimento di disgregazione del mito della Grande Madre Russia, già messo pesantemente in discussione a seguito dei fatti di Ungheria del 1956: si avvertiva forte la necessità di individuare un nuovo modello a cui ispirarsi, un nuovo progetto nel quale credere.
Facendo chiaramente riferimento alla linea politica che in Cile aveva portato al successo l’Unidad Popular, il neo-eletto Segretario ebbe il merito di recepire le istanze della base attraverso la proposizione di quella rivoluzionaria idea di centro-sinistra rivelatasi idonea a trascinare il PCI (dal 1948 irreversibilmente radicato nelle grigie paludi di una statica opposizione radicale) fino alle porte di Palazzo Chigi.
Posto che le grandi battaglie sui diritti civili e sulle politiche del lavoro, lo strappo da Mosca e la questione morale vengono identificate come le tappe fondamentali della strategia berlingueriana, si è più volte affermato che l’esperienza dell’Ulivo rappresenta l’ideale continuazione di quella meravigliosa stagione politica: tuttavia, pur avendo la coalizione guidata da Romano Prodi conquistato il governo del Paese, la figura del Segretario rimane al centro del dibattito in corso tra le varie anime del progressismo italiano.
Persi tra le tante, vuote elucubrazioni di dirigenti privi del carisma necessario per entusiasmare la base, risolutamente ostinati nel dissertare di scenari di unità che la maggioranza degli elettori dimostra di non comprendere e di non condividere, i militanti avvertono, oggi come negli anni ’70, la mancanza di un autentico leader capace di colmare il vuoto ideologico apertosi dopo al sconfitta del 2001.
Ma forse, proprio guardando agli insegnamenti del delfino di Togliatti, i DS potranno individuare la linea di azione necessaria per impostare questa nuova fase di governo. Se le forze politiche che discendono dal PCI riusciranno a trovare il coraggio di riaffermare con forza la loro identità, facendo ancora una volta valere la supremazia morale che caratterizza il popolo della sinistra italiana rispetto agli adepti del Caimano, il disegno di Berlinguer, finalizzato proprio a mettere il Partito Comunista nella condizione di porsi come credibile forza di governo, avrà davvero trovato una sua piena attuazione.

Carlo Dore jr.

sabato, giugno 03, 2006


IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI DI GARANZIA NELLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE


Archiviate definitivamente le polemiche relative all’estenuante maratona elettorale, la materia della riforma della Costituzione è ritornata al centro del dibattito politico, in previsione del referendum confermativo del prossimo 25 giugno.
I più eminenti costituzionalisti italiani (da Allegretti a Barbera, da Ciarlo a De Siervo) hanno ripetutamente denunciato i rischi collegati all’entrata in vigore del testo di revisione della Carta Fondamentale predisposto dai sedicenti saggi di Lorenzago, rischi principalmente riconducibili al fatto che il suddetto testo tende a concentrare nelle mani del primo ministro un potere tale da renderlo il dominus indiscusso della politica nazionale.
Tuttavia, alcuni aspetti di tale disegno (forse marginali, ma non per questo meno inquietanti) meritano a nostro avviso di essere oggetto di un ulteriore riflessione: costituisce una realtà tristemente incontrovertibile l’affermazione secondo cui Silvio Berlusconi, indotto per mentalità a non concepire l’esistenza di limiti che possano ostacolare l’attuazione dei suoi progetti, ha sempre considerato le istituzioni di garanzia alla stregua di un mero fattore perturbante per l’adempimento dell’ormai celeberrimo contratto con gli Italiani. Questa manifesta insofferenza costituisce l’effettiva ratio delle disposizioni che definiscono le prerogative del Capo dello Stato e che individuano i nuovi criteri per la nomina dei membri della Corte Costituzionale, non a caso più volte qualificata dai vari luogotenenti del Caimano come una sorta di moderno soviet supremo.
Premesso che la più alta carica dello Stato risulta pesantemente menomata nelle sue prerogative in ragione del fatto che essa viene privata del potere di determinazione in ordine allo scioglimento delle Camere, è opportuno rilevare come la riforma in commento, individuando tout court il Primo Ministro nel leader della coalizione che prevale nella competizione elettorale, di fatto assegna al Presidente della Repubblica un ruolo del tutto marginale anche nella fase di formazione dell’Esecutivo.
Una simile misura, unitamente alla previsione che riserva al premier il potere di nomina e revoca dei vari ministri, è palesemente finalizzata a scongiurare il verificarsi di situazioni analoghe a quelle che, nel lontano 1994, caratterizzarono la composizione del primo governo della Casa delle Libertà: in quell’occasione il Presidente Scalfaro non solo riuscì a precludere l’ascesa alla carica di Ministro della Giustizia di un soggetto (pochi mesi fa condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) privo dei requisiti morali necessari per svolgere con l’adeguata autorevolezza il ruolo di Guardasigilli, ma arrivò a denunciare dinanzi alla Nazione intera la presenza, nell’ambito della maggioranza parlamentare, di forze politiche storicamente ostili a quei principi democratici che trovano proprio nella Carta Costituzionale la loro più elevata espressione.
Peraltro, si è già evidenziato come, a seguito della pronuncia di incostituzionalità della legge che garantiva alle più alte cariche dello Stato l’immunità anche con riferimento ai processi in corso, la Consulta è stata brutalmente accusata di partigianeria, in ragione di una pretesa (e, nel caso di specie, del tutto irrilevante) continuità ideologica tra alcuni suoi componenti ed i partiti del centro-sinistra.
In questo senso, l’innalzamento del numero dei giudici di nomina parlamentare assolve perfettamente all’esigenza di garantire una piena omogeneità tra la maggioranza di Governo ed il collegio che costituisce il Giudice delle Leggi, così sostanzialmente trasformato da organo di controllo in organo di ratifica delle decisioni maturate a livello parlamentare.
Alla luce delle considerazioni appena formulate, l’esigenza di esprimere un voto contrario alla riforma in commento appare forse ancora più pressante: il tratto fondamentale che contraddistingue ogni democrazia evoluta viene infatti identificato nell’esistenza di una serie di istituzioni di garanzia la cui funzione è appunto quella di evitare che le forze maggioritarie in un dato momento storico possano abusare del potere ad esse conferite dal corpo elettorale.
Nel momento in cui le prerogative di queste istituzioni vengono messe in discussione dagli stessi organi titolari del potere politico, i quali si trovano quindi nella condizione di poterne limitare la rilevanza in seno all’ordinamento, sono le fondamenta stesse della democrazia a tremare violentemente.

Carlo Dore jr.

domenica, maggio 21, 2006


LA QUESTIONE MORALE DI ZIO PAPERONE


All’indomani della concessione della fiducia da parte del Senato all’Esecutivo presieduto da Romano Prodi, le polemiche scatenate dal centro-destra in confronto dei sette senatori a vita, rei di avere manifestato il loro sostegno al nuovo governo pur non essendo investiti della necessaria legittimazione popolare, non accennano a placarsi.
Nell’ambito di questa sorta di commedia dell’assurdo che impone agli esponenti della Casa delle Libertà l’ingrato compito di ricoprire di contumelie persino due personaggi come Ciampi (ripetutamente osannato come il miglior Presidente della storia repubblicana) o Andreotti (già candidato dal Polo a ricoprire il più alto scranno di Palazzo Madama in quanto “figura di alto profilo morale” (sic!), capace peraltro di resistere all’aggressione del consueto manipolo di magistrati bolscevichi), Berlusconi non ha voluto rinunciare ad assumere il ruolo di protagonista assoluto, tacciando di “immoralità” i suddetti senatori a vita, ormai palesemente integrati nelle truppe cosacche recanti l’insegna dell’Ulivo.
L’episodio appena descritto ha riportato all’attualità una celebre massima di Nanni Moretti: indipendentemente dall’esito delle elezioni, il Caimano ha vinto comunque. Questa (neanche tanto simpatica ) versione di Zio Paperone della politica italiana ha infatti assunto, forte dell’immancabile sostegno di tre improvvisati Qui, Quo e Qua (al secolo rispondenti ai nomi di Bonaiuti, Schiffani e Cicchitto), una tale incidenza sulla nostra società da sentirsi ora in grado di determinare unilateralmente il confine tra giusto e ingiusto, tra equo e iniquo, tra morale e immorale.
Tuttavia, superando per un attimo i sacri precetti del Vangelo secondo Silvio, si può validamente affermare che un giudizio di moralità deve essere formulato in base a parametri oggettivi, ferma restando la logica componente di relativismo che per forza di cose caratterizza siffatto giudizio.
Applicando questi parametri, non potrà che qualificarsi come immorale colui il quale è disposto a corrompere un giudice pur di ottenere una sentenza favorevole, o a pagare un testimone affinché deponga il falso in Tribunale. Del pari, difficilmente potranno essere descritte come azioni moralmente elevate l’approvazione di una serie di leggi dirette a risolvere le pendenze giudiziarie di chi le propone, la costante delegittimazione di tutte le istituzioni di garanzia, la frequentazione di soggetti vicini alla criminalità organizzata, la predisposizione di un progetto di riforma della Carta Fondamentale che stravolge radicalmente le linee programmatiche individuate dai Padri Costituenti.
Delle valutazioni appena formulate, il Cavaliere farebbe bene a tenere conto prima di accusare di immoralità un senatore a vita che si limita ad esercitare una delle prerogative che la Costituzione riconnette alla sua carica. E in questo senso, proprio la lezione di Zio Paperone potrebbe risultare per lui illuminante: perso tra fiumi di monete e oceani di banconote, almeno il Vecchio Cilindro non ha la pretesa di impartire a chicchessia lezioni di moralità

Carlo Dore jr.

sabato, maggio 13, 2006


NAPOLITANO E LA LEZIONE DI BERLINGUER


Nell’editoriale pubblicato su “l’Unità” lo scorso 11 maggio, Antonio Padellaro rilevava come l’ascesa di Napolitano al Quirinale rappresenta il definitivo superamento di quello storico pregiudizio in forza del quale l’attribuzione di un’alta carica istituzionale ad un esponente dell’area postcomunista deve essere intesa come una minaccia per la stabilità della nostra democrazia.
Invero, quei militanti della Casa delle Libertà che, vittime di una faziosità talmente greve da sfociare nella miopia, sono giunti ad accusare di “estremismo” il nuovo Capo dello Stato hanno dimostrato una volta ancora di non conoscere né la sua personale evoluzione politica né tantomeno la storia del partito da cui proviene.
Definito “un laburista italiano” dagli stessi leaders del Labour Party , i quali, già negli anni della Guerra Fredda, ebbero modo di apprezzarne l’equilibrio ed il senso della misura, il neoeletto Presidente della Repubblica ha lasciato intendere di voler favorire il sereno confronto tra gli schieramenti in campo, confermando così quella vocazione al dialogo che ha caratterizzato la sua lunga militanza nel PCI.
Fu proprio questa sua vocazione ad indurlo a manifestare (nel famoso editoriale del 1982) la necessità di un costante confronto tra il suo partito ed i socialisti di Bettino Craxi, mettendo così in rilievo il suo evidente scetticismo verso la questione morale formulata in quei giorni da Berlinguer.
A seguito della pubblicazione dei nominativi degli adepti alla loggia P2, il Segretario denunciò infatti con forza l’irreversibile processo di degenerazione cui erano sottoposti i partiti di governo (lucidamente descritti come vuoti strumenti utili per assecondare le aspirazioni dei tanti centri di potere di cui si componeva il sottobosco della politica italiana), rivendicando per i comunisti una supremazia morale che li rendeva “diversi” rispetto ai sostenitori dei suddetti partiti.
Premesso che Napolitano sostenne le sue posizioni con tanta coerenza da abbandonare il comitato di segreteria, la Storia ha confermato la assoluta fondatezza della questione morale, confermando come DCI e PSI fossero i vertici di un sistema corruttivo talmente radicato nelle istituzioni da divenire l’asse portante della vita politica ed economica del Paese.
Il consenso di cui attualmente gode Berlusconi, figlio prediletto della Milano da bere cresciuto all’ombra di Craxi con la benedizione della già citata loggia P2, rappresenta in questo senso un’ideale linea di continuità tra prima e seconda Repubblica: la classe politica che faceva riferimento al CAF, contro la quale Berlinguer si era strenuamente battuto anche negli ultimi giorni della sua vita, non è stata spazzata via dai tanti scandali di cui è stata oggetto, culminati nel ciclone di Tangentopoli. Essa semmai si è rafforzata, potendo ora contare sulla diretta disponibilità di un incommensurabile potere finanziario e mediatico, reso ancor più inquietante e pericoloso dalle tendenze eversive del soggetto che ne è titolare.
Rappresentando pertanto il Cavaliere una colossale anomalia che inficia il corretto svolgimento della vita democratica, con una simile anomalia Napolitano sarà chiamato a confrontarsi, nella sua opera di pacificazione di un Paese ideologicamente spaccato a metà.
Ma, nel momento in cui prenderà possesso del suo ufficio al Quirinale, non potrà non tenere presente la correttezza delle valutazioni, da lui al tempo non del tutto condivise, che stavano alla base della “questione morale” proposta da Berlinguer: coerenti con i valori della loro tradizione, i postcomunisti devono affermare ancora la loro diversità rispetto a quanti plaudono meccanicamente alle esternazioni del Caimano, anche a costo di screditare apertamente le istituzioni che ora risultano sottratte al loro controllo.
Quelle valutazioni insegnano che, con riferimento a determinate forze politiche, la strada del dialogo non risulta percorribile.

Carlo Dore jr.

sabato, maggio 06, 2006


AVEVANO RAGIONE I GIROTONDI


La sentenza di condanna con cui la Corte di Cassazione ha definito il processo IMI-SIR ha posto fine ad una delle vicende giudiziarie più intricate della storia italiana. Dopo oltre dieci anni di indagini e di dibattimento, il Supremo Collegio ha confermato la validità del teorema accusatorio elaborato dalla procura di Milano, smentendo così quanti individuavano nel procedimento in questione una sorta di persecuzione condotta da un manipolo di magistrati militanti in danno di Silvio Berlusconi e dei suoi più stretti collaboratori.
E così Cesare Previti ha scelto di presentarsi spontaneamente al carcere di Rebibbia, confortato ed assistito da un nutrito drappello di parlamentari di Forza Italia, dimostratisi straordinariamente solerti nel descriverlo come il Socrate dei giorni nostri, ignorando forse che l’insigne maestro di Platone scelse di bere la cicuta pur di non violare le leggi dello Stato, senza peraltro attivarsi per tentare preventivamente di modificarle in suo favore.
Questa pronuncia assume tuttavia un forte significato politico in quanto si colloca in una fase di dialogo tra i due schieramenti, determinati ad abbassare, attraverso il raggiungimento di larghe intese sul nome del prossimo Capo dello Stato, i toni del confronto dopo le violente schermaglie che hanno caratterizzato la campagna elettorale.
Tuttavia, indipendentemente dall’esigenza di garantire l’unità del Paese con riferimento alle scelte di maggiore rilievo istituzionale, la decisione in commento propone una serie di argomenti di riflessione che non possono, a nostro avviso, essere liquidati come meri rigurgiti di estremismo.
Costituisce oramai una verità giudiziaria incontrovertibile il fatto che uno dei più stretti collaboratori dell’ex Presidente del Consiglio si trovava al centro di una macroscopica operazione corruttiva diretta ad incidere sul contenuto delle sentenze relative a controversie al cui esito il Cavaliere in persona risultava, direttamente o indirettamente, interessato.
Se si considerano inoltre le molteplici pendenze che tuttora contraddistinguono la posizione di Marcello Dell’Utri (condannato in via definitiva per fatture false e frode fiscale ed in primo grado per associazione mafiosa), occorre seriamente domandarsi se il centro-sinistra debba riconoscere la legittimazione politica e morale di un’opposizione il cui leader ha individuato nella costante violazione delle norme dell’ordinamento, nello spregio ostentato verso tutte le istituzioni di garanzia, nelle menzogne impunemente proposte a reti unificate i fondamentali parametri a cui ispirare il suo agire.
Posto che Berlusconi rappresenta in questo senso un’anomalia non configurabile in nessun altro paese europeo, l’Unione è tenuta ad utilizzare il potere accordatogli dalla maggioranza degli elettori per risolvere questa anomalia, senza cadere nella tentazione di provare a convivere con essa accettando quei compromessi che già in passato si sono rivelati fatali.
Così ragionando, proprio le tante battaglie combattute negli ultimi cinque anni con riferimento alla materia della giustizia, la straordinaria mobilitazione civile messa in atto dal movimento dei Girotondi contro le ben note leggi ad personam devono costituire un punto di riferimento costante per la coalizione guidata da Romano Prodi.
I militanti della rete dei movimenti (bollati come talebani dai pasdaràn del Caimano e guardati con diffidenza da alcuni tra gli stessi leaders progressisti) scesero in piazza per difendere l’indipendenza della magistratura messa in pericolo da una serie di provvedimenti legislativi diretti unicamente a salvaguardare la posizione di Berlusconi e Previti dalle indagini di alcuni pubblici ministeri troppo scrupolosi nell’esercizio delle loro funzioni per chinare la testa di fronte al volere dei depositari del potere politico.
Confermando la capacità della macchina della giustizia di fare correttamente il suo corso malgrado le aggressioni di cui il potere giudiziario è stato oggetto nella scorsa legislatura, la sentenza in esame, oltre a mettere in rilevo la correttezza di quelle battaglie, costituisce quindi un monito ben preciso per la nuova maggioranza di governo: con quelle forze politiche che sono direttamente scese in campo per garantire l’impunità di un soggetto poi condannato a sette anni di reclusione, nessun compromesso deve considerarsi possibile. Sulla qualificazione dell’antiberlusconismo come un valore da affermare orgogliosamente i militanti del movimento dei Girotondi hanno dimostrato di avere ragione.

Carlo Dore jr.