martedì, febbraio 28, 2006


Lettera aperta a Graziano Milia, Presidente della Provincia di Cagliari

Egregio Presidente Milia:

Le scrivo questa lettera in merito alle ben note vicende di cui è stato protagonista la scorsa settimana, e che nella giornata di ieri sembrano aver trovato il loro epilogo.
Per elaborare le considerazioni che oggi porto alla Sua attenzione, ho voluto attendere la conclusione della vertenza in cui si inquadra il suo acceso confronto con gli operai impegnati nell’occupazione dei locali di viale Ciusa proprio in quanto ritengo che gli avvenimenti a cui ho appena fatto riferimento debbano costituire oggetto di una serena ed approfondita riflessione relativamente alla linea politica seguita nell’ultimo periodo dal nostro partito in generale e da Lei in particolare.
Premesso che il mio rispetto per la Sua intelligenza e per il Suo senso dell’equilibrio è tale da indurmi a non attribuire alcun rilievo alle volgari illazioni vagamente sollevate da alcuni quotidiani in ordine al suo modus vivendi (illazioni da Lei peraltro efficacemente liquidate con l’ironia propria della persona capace di dimostrarsi superiore a certe prese di posizione che l’opinione pubblica talvolta immotivatamente assume), non nego che la prospettiva di uno scontro tra un leader storico della sinistra sarda ed un gruppo di disoccupati che (senza voler in questa sede prendere posizione in ordine alla fondatezza delle pretese di cui i medesimi si sono fatti portatori) manifestano a difesa del loro diritto al lavoro appare ai miei occhi quantomeno inquietante.
Le recenti performance dell’ex ministro Calderoli confermano infatti che ai soggetti preposti all’esercizio di una carica pubblica può essere richiesto nella determinazione dei comportamenti che li caratterizzano, nella valutazione delle persone che li circondano, nella individuazione delle reazioni da contrapporre alle provocazioni di cui possono eventualmente costituire oggetto un livello di attenzione adeguato al prestigio del ruolo che ricoprono, il quale risulta per forza di cose più elevato di quello che può essere normalmente imposto ad un cittadino comune.
Siffatto livello di attenzione deve – a mio modesto avviso – a maggior ragione contraddistinguere l’operato di tutti gli esponenti della sinistra chiamati ad assumere incarichi di governo, in considerazione di quella supremazia morale più volte rivendicata dal popolo progressista in confronto dei militanti degli opposti schieramenti politici.
Le ragioni della supremazia morale a cui si è appena fatto riferimento risiedono nelle tante battaglie che questo popolo ha combattuto nel corso della sua storia a difesa delle posizioni dei più deboli, nella sua costante contrapposizione a tutti i centri di potere, nel rifiuto di ogni trasversalismo e di tutte le forme di compromesso idonee a determinare una –seppur minima- lesione dei principi ideologici a cui esso ha costantemente dimostrato di ispirarsi.
Se considera che questo patrimonio storico ed ideologico costituisce il presupposto fondamentale del mio essere a sinistra, riuscirà senza dubbio a comprendere le ragioni in forza delle quali la sola idea di un Suo acceso confronto con un gruppo di disoccupati mi riempie di amarezza, la stessa amarezza che provo allorquando sono tenuto a rilevare la progressiva tendenza dei DS a perdere contatto con le esigenze della loro base elettorale e con gli interessi che istituzionalmente il principale partito della sinistra italiana è tenuto a difendere.
La vicenda in cui Lei si è trovato coinvolto sembra infatti perfettamente riconducibile a questa tendenza, dalla cui attuazione dipende quella “deriva moderata” in ragione della quale il Partito è giunto quasi a rinunciare alla sua reale identità. Queste mie preoccupazioni vengono ulteriormente confermate dalla mancanza di incisività manifestata da alcuni leaders del centro -sinistra (ostentata tanto nell’attuale campagna elettorale quanto nelle precedenti competizioni in cui Lei è stato direttamente coinvolto) nel rilevare le indubbie carenze morali e personali che sovente caratterizzano gli avversari con cui nostro malgrado siamo chiamati a confrontarci, ed ai quali viene così conferita una legittimazione politica e democratica che a mio avviso non meritano.
Tra le molteplici incombenze a cui la Sua carica le impone di assolvere, spero che Lei riesca comunque a trovare il tempo per riflettere su queste mie osservazioni, consiederandole non come una vuota sequenza di critiche inutili, ma come i rilievi mossi da un militante che invita i dirigenti del movimento a cui sente di dover aderire ad operare coerentemente con gli ideali in cui crede.
Con immutata stima,

Carlo Dore jr.

sabato, febbraio 25, 2006


Sulle ulteriori prospettive di riforma della Giustizia

INCUBI E DELIRI

L’annuale congresso dell’ANM ha rappresentato il momento consumativo dell’ultimo atto dello scontro tra potere esecutivo e potere giudiziario che ha integralmente caratterizzato la legislatura appena conclusa.
Replicando alle recenti esternazioni del Presidente del Consiglio, il quale (nel denunciare per l’ennesima volta l’utilizzo politico delle inchieste attuato in suo danno da alcune ben note toghe rosse) era giunto ad accusare i PM di Milano di avere vanificato, attraverso le loro indebite indagini, l’offerta “assolutamente regolare” formulata dalla Banca Popolare di Lodi per l’acquisizione della Banca Antonveneta, il Presidente delle Corte di Cassazione Marvulli ha liquidato le affermazioni di Berlusconi come indicative di un delirio di persecuzione che lo induce ad offrire una valutazione in chiave meramente ideologica di ogni decisione politicamente sensibile che la Magistratura assume nel legittimo esercizio delle sue funzioni.
Indipendentemente dalle convulse reazioni proposte dai vari luogotenenti della CDL, al solito puntuali nel rilevare come il premier intenda riaffermare lo stato di diritto di fronte alla nuova offensiva giudiziaria scatenata contro l’esecutivo alla vigilia del voto, le parole del Presidente del Supremo Collegio risultano assolutamente condivisibili sul piano sostanziale, ma paradossalmente prive dell’incisività richiesta dalla situazione attuale.
Senza volere in questa sede prendere in esame le complesse vicende che hanno contraddistinto l’OPA avente ad oggetto le azioni della Banca Antonveneta, sembra quasi superfluo precisare che il teorema del Cavaliere diretto a dimostrare l’esistenza di un unico disegno persecutorio a cui possono essere ricondotti tutti i procedimenti avviati nei suoi confronti dalla Procura di Milano risulta apertamente sconfessato dalle verità emergenti da sentenze pronunciate da giudici “terzi ed imparziali”.
Con particolare riguardo all’appena concluso processo SME, la decisione del tribunale di Milano di non doversi procedere nei confronti del medesimo Presidente del Consiglio in ragione dell’intervenuta prescrizione del reato in conseguenza della concessione delle circostanze attenuanti generiche di fatto ribadisce la validità dell’impianto accusatorio, confermando la responsabilità dell’eccellente imputato in ordine ai fatti di corruzione in quella sede contestatigli.
Del pari prive di fondamento si rivelano le accuse, mosse alla suddetta Procura, di condurre, con riferimento ai procedimenti penali (tuttora in corso) relativi alla compravendita di diritti cinematografici e televisivi da parte di società del gruppo Mediaset, “delle inchieste ad orologeria, sincronizzate con le scadenze elettorali”, considerato che le richieste di rinvio a giudizio formulate nell’ambito di tali procedimenti non rappresentano che il momento conclusivo di un’ attività di indagine evidentemente avviata in tempi non ricollegabili in alcun modo alle prossime elezioni politiche.
Tutto ciò posto, i continui attacchi che Berlusconi rivolge al potere giudiziario non rappresentano semplicemente le deliranti esternazioni di un leader allo sbando, ormai perso tra manie di grandezza e incubi di persecuzione. Tali prese di posizione si inquadrano nell’ambito di un ben preciso progetto politico, già avviato con la riforma dell’ordinamento giudiziario e diretto a minare definitivamente, anche attraverso la radicale separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri (necessaria per sottoporre gli inquirenti alla volontà del potere politic), l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Dinanzi ad un simile status quo, i magistrati hanno il dovere di difendere con vigore le prerogative ad essi attribuite dalla Carta Costituzionale, inducendo le istituzioni di garanzia a difendere con maggiore incisività quegli equilibri tra poteri dello Stato che rappresentano la base imprescindibile di una democrazia evoluta. In questo senso, l’invito a resistere rivolto a tutte le toghe da Saverio Borrelli nell’inverno di tre anni or sono potrebbe risultare di incredibile attualità, finendo col rendere palese agli occhi dei cittadini la manifesta infondatezza e la sostanziale malafede che contraddistingue le continue accuse con cui il Capo dell’Esecutivo mette in discussione il prestigio e l’autonomia del potere giudiziario.

Carlo Dore jr.

sabato, febbraio 18, 2006


I fatti di Genova e il programma dell’Unione



La prima settimana di campagna elettorale è stata scandita dalle polemiche relative ai rapporti tra i partiti tradizionali e i movimenti che costituiscono le frange più estreme dei due schieramenti. Attribuendo ad Alessandra Mussolini l’etichetta di “autentica e fervente democratica” (appellativo obiettivamente incompatibile con la storia politica della fondatrice di Alternativa Sociale), il Presidente del Consiglio, dopo avere negato ogni contatto con quegli inquietanti esponenti di oscure formazioni neofasciste più volte immortalati mentre brindavano alla prossima affermazione elettorale della CDL nei salotti di Palazzo Grazioli, ha infatti trovato il modo di denunciare i rapporti esistenti tra l’Unione ed i movimenti no-global, individuati come un’ulteriore conferma della più volte rilevata tendenza dei “comunisti” a “far politica a colpi di spranga”.
Quasi contemporaneamente, gli altri leaders del Polo commentavano con indignazione la proposta, contenuta nel programma del centro – sinistra, di procedere alla istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta diretta ad accertare eventuali responsabilità politiche in ordine ai fatti svoltisi a Genova in occasione del G8, considerando tale manifestazione di volontà come uno sfregio al prestigio delle forze dell’ordine.
Ferma restando la necessità di non confondere il vandalismo fine a se stesso con la libertà di manifestazione del pensiero e di non mettere in discussione il prestigio che le forze dell’ordine in quanto tali meritano in ragione dell’opera che quotidianamente svolgono, le immagini di quelle giornate dell’estate di cinque anni fa sono drammaticamente impresse nella memoria di chiunque possa dirsi portatore di un sincero spirito democratico.
Un movimento di popolo animato da una molteplicità di ideali diversi, sussumibili nell’avversione ai principi su cui si basa quella sorta di oligarchia di potenti che da oltre un secolo governa il Pianeta, fu capace di mettere in crisi i grandi della politica con una manifestazione di impressionante imponenza ed incisività: un’ immensa muraglia umana invase le strade infuocate del capoluogo ligure, animata dal convincimento di poter proporre un’alternativa sul piano sociale, civile ed ideologico al presente staus quo.
Di fronte al tanto improvviso quanto scientifico imperversare di quelle bande di devastatori organizzati comunemente noti come balck-blockers, la reazione delle forze dell’ordine fu straordinariamente brutale ed inefficace, finendo col coinvolgere anche e soprattutto quei manifestanti che non si erano resi responsabili di alcun comportamento qualificabile in termini di reato.
Gli avvenimenti che fecero seguito alla morte di Carlo Giuliani, i pestaggi avvenuti ad opera dei celerini all’interno della scuola Diaz, le violenze perpetrate in danno di uomini inermi nella caserma di Bolzaneto, la precostituzione di false prove da parte degli stessi tutori della sicurezza pubblica rappresentano la massima lesione di quei principi di rispetto della persona umana a cui la nostra Costituzione è ispirata.
Ripercorrendo i momenti centrali di quei giorni di ordinaria follia, sorge forte ed insistente il sospetto che i fatti in esame non rappresentino altro che l’esecuzione di un ben preciso progetto politico, diretto a criminalizzare il movimento antiglobalizzazione attraverso una prima dimostrazione di forza da parte di un Governo che, nel corso degli ultimi cinque anni, ha più volte rivelato la sua vocazione autoritaria.
In ragione di quanto appena affermato, l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta può assolvere ad una duplice finalità: da un lato, essa può infatti risultare idonea ad accertare se gli agenti protagonisti degli episodi sopra descritti agirono di loro iniziativa o se essi operarono in qualità di meri esecutori di direttive impartite da soggetti investiti di responsabilità politiche ben precise.
D’altro lato, l’attività di tale organo può attribuire un significato particolarmente rilevante all’affermazione di Bertinotti, secondo cui la linea programmatica della sinistra italiana deve “partire da Genova”. Rilevando le responsabilità politiche esistenti con riferimento a situazioni che hanno rappresentato un’arbitraria compressione di diritti costituzionalmente garantiti, il centro-sinistra dimostra di aderire ad una concezione di democrazia in cui i valori della libertà di manifestazione del pensiero, della libertà di stampa e di informazione, della separazione tra i poteri dello Stato (costantemente sviliti nel corso della legislatura appena terminata) assumono effettivamente quel rilievo dominante ad essi attribuito dalla Carta Costituzionale.

Carlo Dore jr.

domenica, febbraio 12, 2006


La sinistra italiana tra revisionismo e prospettive

ROMANZO CRIMINALE [1]


Commentando le dichiarazioni di Massimo d’Alema in ordine alla (presunta) necessità di sospendere l’esecuzione di Benito Mussolini in attesa di un processo, l’on. Berlusconi ha rilevato come la sinistra italiana stia procedendo alla riabilitazione del Duce dopo avere dovuto rivedere il giudizio in passato formulato su Craxi e Andreotti, già descritti dal medesimo Presidente del Consiglio come i principali artefici di un sistema politico capace di garantire al nostro Paese libertà e democrazia per oltre mezzo secolo.
Premesso che sarebbe superfluo ed ozioso procedere ad un’ennesima confutazione degli argomenti che hanno caratterizzato questo ennesimo raptus verbale del Cavaliere di Arcore (le cui performance oratorie sono ormai tristemente note anche ben oltre i patri confini), in questa sede si tenterà di ripercorrere alcune tappe di quell’incredibile “Romanzo Criminale” che è stata la storia italiana dal dopoguerra fino all’avvento di Tangentopoli, nel tentativo di individuare in maniera netta i valori a cui il centro-sinistra deve ispirarsi nella marcia verso le elezioni.
Da troppo tempo esiste infatti la strana e perversa tendenza a rivalutare il passato, attraverso interpretazioni di fatti storici talmente ardite da risultare idonee a trasformare i carnefici in vittime, i latitanti in esuli, i principali referenti delle cosche mafiose in perseguitati politici ed i magistrati (rei di avere semplicemente espletato con rigore le loro funzioni) in spietati esecutori di fantomatici progetti eversivi.
Questa assurda tendenza non riguarda solamente la destra post-fascista (da anni impegnata nel tentativo di conseguire una legittimazione democratica attraverso l’eliminazione di quelle indelebili tare che tuttora caratterizzano il suo codice genetico) o la miriade di formazioni sorte dalla frantumazione dei partiti tradizionalmente afferenti al CAF. Essa tende a coinvolgere anche alcune componenti dell’attuale Unione, come confermato dalle raggelanti esternazioni di Luciano Violante sulla necessità di tributare un ricordo anche ai ragazzi di Salò o dalla ancor più sconvolgente proposta di Piero Fassino di inserire Craxi tra i padri del socialismo italiano.
Premesso che tali posizioni rappresentano una sorta di suicidio ideologico da parte del principale partito d’opposizione (di cui gran parte dell’elettorato è tuttora orgogliosamente fedele ai principi cui da sempre si ispira la sinistra tradizionale, attualmente affermati con maggior vigore dall’ala più radicale della coalizione progressista), nessun artificio retorico può scalfire una verità irreversibilmente impressa nel granito della memoria: la lotta di Liberazione, con il sue vittime e con gli eccessi propri di ogni guerra civile, ha costituito un grido di libertà senza eguali, che, dalle gole degli Appennini ai vicoli delle città distrutte dai bombardamenti, ha determinato il crollo di un regime sanguinario e posto così fine ad oltre sessant’anni di oppressione.
Il destino cui andò incontro Mussolini, bloccato mentre tentava una disperata fuga sicuramente non in linea con la vis romaneggiante tragicomicamente ostentata durante l’intero ventennio, non rappresenta in tal senso un atto qualificabile come illegittimo o affrettato, ma la corretta esecuzione dell’inappellabile sentenza pronunciata dal tribunale della Storia.
Il sogno dei partigiani e dei padri costituenti relativo alla creazione di “un mondo di libertà, giustizia, pace, fratellanza e serenità” non trovò però nell’immediato una piena attuazione. La democrazia sorta dopo la Resistenza non ebbe infatti, complice il clima della Guerra Fredda, un suo corretto sviluppo, risultando ben presto strangolata da un sistema che, in nome dell’anti-comunismo, arrivava persino ad ammettere le relazioni tra partiti politici, finanzieri di dubbia fama, logge massoniche deviate e settori della criminalità organizzata (relazioni la cui esistenza è stata accertata attraverso sentenze aventi l’autorità del giudicato).
Mentre questa sorta di agglomerato di potere tendeva a soffocare dignitosamente nel sangue quei soggetti che attentavano alla sua stabilità e a brandire lo spettro del terrorismo per far percepire all’opinione pubblica l’attualità del pericolo rosso, il Partito Comunista Italiano, proponendo una politica equilibrata, incisiva e finalmente affrancata dal giogo sovietico, si mise nelle condizioni di superare siffatto status quo, riuscendo a proporsi come forza in grado di assumere il governo del Paese.
Ma il progetto elaborato da Berlinguer con il determinante consenso di Aldo Moro fu fatto naufragare a seguito dell’incedere della stagione delle stragi, scandita dal macabro suono dell’esplosione delle bombe che sconvolsero le piazze delle più importanti città, dalle grida di troppe persone la cui vita era stata devastata semplicemente in nome di ragioni di real politique, e dall’incontrastato imperversare di quelle terribili bande armate, troppo organizzate, spietate e sicure nella loro azione per poter essere descritte alle stregua di cellule impazzite del movimento operaio.
Come noto, agli anni di Piombo fece seguito l’avvento del CAF, di quel sistema di corruzione istituzionalizzata destinato a collassare sotto il maglio delle inchieste di Mani Pulite, condotte da magistrati troppo zelanti per non essere definiti come i principali fautori dell’ennesimo golpe criptocomunista.
Tutto ciò posto, ora ci troviamo di fronte ad una strana rivisitazione delle più nere pagine di questo nostro romanzo criminale, la quale impone di considerarne i personaggi sotto una luce diversa: la luce del revisionismo e della riabilitazione. Tuttavia l’esame dei momenti che sono stati appena ripercorsi non lascia spazio a revisioni o riabilitazioni, ma semmai determina il rafforzamento di quelle certezze che sono profondamente radicate nell’animo di chiunque ancora si sente fiero di dichiararsi di sinistra.
E queste certezze inducono a considerare gli ideali della resistenza al fascismo ed i principi dell’eurosocialismo berlingueriano (eternamente contrapposti a quelli professati da Craxi anche dal preteso esilio di Hammamet) non come il semplice sfondo che ha caratterizzato delle fasi storiche da dimenticare definitivamente, ma come una sorta di stella polare a cui i progressisti dovranno fare costantemente riferimento nella loro opera di rinnovamento dell’Italia.

Carlo Dore jr.
[1] Il titolo del presente scritto è volutamente ispirato all’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, brillante rivisitazione degli anni più bui della storia d’Italia

L’ULTIMO CAPODANNO DEL PRESIDENTE


L’ultima conferenza stampa di fine anno della presente legislatura ha offerto all’opinione pubblica un’immagine del Presidente del Consiglio triste e dimessa: l’immagine di un leader (o presunto tale) che tenta di mascherare dietro un fiume di parole ed una miriade di fantomatici dati l’ineluttabile fallimento del suo preteso progetto politico.
Tuttavia, fermo restando che questa sorta di lifting mediatico ha sortito un effetto ancora meno convincente di quello praticato sulla sua persona dai più eminenti baroni della chirurgia estetica, non potevano mancare i consueti fochi artificiali a caratterizzare l’ultimo capodanno del premier.
Quando Berlusconi ha sbandierato di fronte alle telecamere del TG1 (per l’occasione, riadattato a nuovo reality show della televisione di Stato) il titolo del “L’Unità” che riportava la notizia, risalente al lontano 1953, della morte di Stalin, accusando redattori e lettori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci di essere moralmente corresponsabili di oltre cento milioni di omicidi, l’ilarità prodotta fino a quel momento dalle mirabili gags del Cavaliere di Arcore ha inevitabilmente lasciato spazio ad alcune considerazioni al vetriolo.
Volendo parafrasare le parole di Karl Marx, si potrebbe affermare che un fantasma tuttora si aggira per l’Italia: il fantasma dell’anticomunismo. Nei momenti in cui i grandi centri di potere si trovano sul punto di collassate, vittime di quelle stesse perversioni strutturali su cui fondano la loro esistenza, ecco che il fantasma viene puntualmente evocato, per apparire, cupo e terribile, nei peggiori incubi dei pacifici moderati, attraverso l’immagine delle orde cosacche che invadono Piazza San Pietro.
Nelle sue ultime esternazioni (inficiate dalla consueta gaffe storica circa i patimenti subiti da Vladimir Putin durante l’assedio di Stalingrado, avvenuto approssimativamente dieci anni prima della nascita dell’attuale Capo del Cremino), il Presidente del Consiglio si è semplicemente adeguato a questo canovaccio stantio ed abusato. Vedendo fallire miseramente tutti i suoi numeri di lanterna magica (diretti a far apparire come reale il Paese da Cartolina descritto negli opuscoli di Forza Italia) di fronte ad una crisi economica senza precedenti ed al conseguente malcontento manifestato da insigni esponenti di quella stessa fascia di elettorato che dovrebbe trovare in lui un costante punto di riferimento, da buon prestigiatore ha tentato di far ricorso ad un classico “coupe de teatre”: con toni melodrammatici, ha agitato lo spettro di Stalin in confronto del principale partito del centro sinistra, sempre più credibile quale futura forza di governo.
Ma anche i colpi di teatro più eclatanti non hanno incidenza se privi di connessione con la realtà in cui vengono collocati: allo stato attuale, anche l’ala più radicale dello schieramento progressista ha dato più volte conferma della sua piena legittimazione democratica, manifestando, negli ultimi trent’anni, una totale aderenza politica e ideologica a quegli stessi principi della Costituzione repubblicana che oggi rischiano di crollare sotto il maglio delle riforme varate dalla destra post-fascista di cui il Cavaliere rappresenta la massima espressione.
Per questo, la storia della sinistra italiana (dalla lotta di Resistenza al contributo all’elaborazione della Carta Fondamentale, dalla lotta al terrorismo alla stagione delle grandi riforme degli anni ’70, dal compromesso storico alla difesa dell’attuale forma di governo) merita un rispetto totale ed assoluto, poiché questa storia ricomprende in sé tutti i momenti determinanti per l’affermazione ed il consolidamento dell’attuale sistema democratico.
Ma il rispetto costituisce notoriamente un valore composto di tre principi primari: cultura, intelligenza e senso della democrazia. E questi principi non possono trovare affermazione né attraverso i numeri di lanterna magica né attraverso parole incendiarie utilizzati come fuochi d’artificio per ravvivare il Capodanno. L’ultimo Capodanno del Presidente.
Carlo Dore jr.

La deriva moderata e la supremazia morale della sinistra italiana

LA LUNGA MARCIA

La pubblicazione da parte de “Il Giornale” di alcuni frammenti delle intercettazioni aventi ad oggetto le conversazioni avvenute tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, nel corso delle quali il segretario dei DS manifestava un certo favor per la scalata condotta dall’UNIPOL al vertice della Banca Nazionale del Lavoro, ha provocato un autentico terremoto nel mondo della politica italiana i cui effetti hanno profondamente inciso sugli orientamenti del corpo elettorale.
Al legittimo e giustificato sconcerto manifestato da parte dell’elettorato progressista di fronte alla condotta disinvolta ed inopportuna tenuta nel caso in esame da uno dei suoi leaders più autorevoli, si contrappone infatti l’atteggiamento sprezzante con cui l’intera Casa delle Libertà (capace di ritrovare l’aggressività dei giorni della discesa in campo dell’Unto dal Signore dopo mesi di depressione causata dalla prospettiva di un’ennesima debacle elettorale) è giunta a negare alla sinistra quella supremazia morale da essa costantemente rivendicata.
Dinanzi ad un simile status quo, occorre porsi due fondamentali interrogativi: da un lato, è necessario chiarire quali siano state le cause che hanno dato luogo a questa sorta di collateralismo tra gli eredi di Gramsci e Berlinguer e determinati esponenti delle lobbies dei c. d. “Furbetti del Quartierino”. D’altro lato, ci si deve domandare se le vicende de quibus siano o meno idonee a determinare in capo agli elettori dell’Unione una sostanziale perdita di fiducia nelle forze politiche cui essi si trovano a dover fare riferimento.
Premesso che nella condotta del segretario dei DS (massimamente censurabile sul piano politico e morale) non possono essere rilevati quei profili di illiceità penale che hanno viceversa caratterizzato l’agire di alcuni assidui frequentatori del salotto buono di Palazzo Grazioli, costituisce una verità inconfutabile l’affermazione secondo cui la linea politica seguita negli ultimi anni dal principale partito della sinistra italiana per volontà dell’attuale gruppo dirigente ha determinato una sorta di deriva moderata a seguito della quale il medesimo partito ha finito col perdere la sua identità.
Questa sorta di involuzione ideologica è emersa sia con riferimento ad alcune scelte di politica estera ( a seguito della mancata adesione della maggioranza diessina alla c.d. linea Zapatero in ordine al ritiro delle truppe dall’Iraq), sia riguardo a determinate valutazioni in tema di politica interna, tra le quali rientra appunto l’impostazione di rapporti troppo stretti con i poteri forti dell’economia, storicamente intesi come semplici interlocutori (se non come autentici oppositori) delle componenti della società che una forza politica come i DS dovrebbe tuttora rappresentare.
Posto che all’attuazione della strategia appena descritta ha fatto da sfondo anche un fastidioso e stucchevole imborghesimento degli atteggiamenti esteriori dei leaders della componente maggioritaria del partito, gli errori di valutazione, le leggerezze e le ambizioni individuali di alcuni dirigenti poco illuminati (che ora si trovano a dover subire il severo giudizio di una base tanto matura da non affermare a loro discolpa l’esistenza di quei diabolici complotti che vengono invece costantemente individuati a fondamento di ogni iniziativa lesiva dell’aureo prestigio del Presidente del Consiglio) non possono e non devono intaccare lo straordinario patrimonio di idee, di passioni, di lotte e di progetti che da sempre contraddistingue la principale realtà della sinistra italiana.
La straordinaria rilevanza di siffatto patrimonio emerge in tutto il suo prestigio nel momento in cui il medesimo viene posto a confronto con le argomentazioni formulate da un avversario che, facendo proprio dell’anteposizione degli interessi individuali a quelli della collettività l’obiettivo principale del suo programma di governo, rappresenta massimamente tutte le degenerazioni che hanno caratterizzato la vita politica a cavallo tra le due Repubbliche.
In questo momento di incertezza, ai valori che compongono il suddetto patrimonio il popolo progressista deve aggrapparsi per portare a compimento la sua ultima missione: mettere Romano Prodi nella condizione di procedere alla formazione di un esecutivo capace di restituire al Paese quella autorevolezza e quella credibilità smarrite negli ultimi cinque anni di governo del centro-destra. Se si tiene costantemente presente questo obiettivo, il lungo cammino verso le elezioni di aprile può ancora assumere i toni di una lunga marcia trionfale.

Carlo Dore jr.

CRAXI E LA QUESTIONE MORALE.


Nella giornata di oggi, buona parte del mondo politico si è fermata a rendere omaggio alla memoria di Bettino Craxi, dalla cui scomparsa sono ormai trascorsi sei anni. A Milano in particolare, al cospetto di un commosso ed etereo Berlusconi, Bondi e Stefania Craxi (che ha peraltro colto l’occasione per annunciare la sua candidatura alle prossime elezioni politiche nelle liste di FI) hanno provveduto a ribadire i principi cardine del testamento morale ed ideologico di quello che lo stesso Fassino ha inopinatamente definito come uno dei padri del riformismo italiano: totale riabilitazione della classe politica facente riferimento al CAF; demonizzazione dell’operato dei magistrati che svelarono l’esistenza di quel complesso sistema corruttivo che costituiva la spina dorsale stessa della Prima Repubblica; qualificazione della sinistra postcomunista come l’avversario da contrastare con ogni mezzo.
Premesso che, alla luce dei postulati appena esposti, la candidatura della figlia dell’ex segretario socialista rappresenta nel migliore dei modi la continuità esistente tra quella stagione politica e gli ultimi giorni di gloria del Cavaliere di Arcore, è noto come le repentine beatificazioni costituiscano un’efficace cortina di fumo, utile a celare le indelebili verità della Storia. Ma queste verità impongono di considerare Craxi non come il protagonista di una nuova fase di rilancio dell’ideologia socialista, ma come il cinico esecutore di una strategia capace, in nome del profitto e del successo personale, di frustare all’ennesima potenza quella stessa ideologia.
Proponendo per primo, attraverso una gestione sfacciatamente faraonica del PSI, quell’idea di politica-spettacolo che tanti consensi riscuote al giorno d’oggi, egli consolidò la sua leadership grazie al sostegno offertogli da alcuni ben noti “parevenau” dell’imprenditoria, capaci di accumulare ingenti fortune anche attraverso i favori di cui godevano presso i salotti del potere.
Proprio con riguardo al modus operandi dei numerosi accoliti della Milano da bere, automunitisi nel frattempo della falsa aureola di moderni progressisti filo-occidentali, Enrico Berlinguer rilanciò la c.d. questione morale, rivendicando per i militanti del Partito Comunista la titolarità di quei valori democratici e morali che tuttora rappresentano (malgrado gli scivoloni in cui è recentemente incorsa la dirigenza diessina) il patrimonio ideologico a cui il popolo della sinistra può costantemente fare riferimento.
Gli eventi che sconvolsero il Paese all’inizio degli anni’90 confermarono la correttezza delle valutazioni del segretario del PCI: nel portare alla luce l’esistenza di quel sistema di corruzione istituzionalizzata di cui in precedenza ho tentato di proporre una breve descrizione, i magistrati del pool di Milano non costituirono il braccio armato di un disegno eversivo volto a minare gli equilibri democratici della Nazione. Nell’assoluto rispetto delle prerogative ad essi attribuite dall’ordinamento giuridico, essi si limitarono ad accertare (in base ad un teorema accusatorio in linea di massima accolto da una molteplicità di pronunce aventi l’autorità del giudicato) il coinvolgimento di numerosi esponenti della classe dirigente di allora in fatti di reato riconducibili alla corresponsione di somme di denaro a titolo di tangenti.
Posto che numerosi protagonisti degli anni di fango hanno poi scelto di tornare alla vita pubblica, forti di una verginità morale e politica che sicuramente non meritano, Craxi decise di concludere i suoi giorni sulle spiagge dorate della Tunisia, al fine di sottrarsi alla pena detentiva stabilita (al termine di un regolare processo) da una sentenza di condanna poi passata in giudicato, e di evitare il linciaggio da parte di un popolo intero, naturalmente indignato dalla gravità delle sue azioni.
Tuttavia, oggi la politica italiana gli ha tributato il suo commosso omaggio, assecondando una volta di più la tendenza a confondere gli inquirenti con i sicari, i martiri con i rei confessi e gli esuli con i latitanti. Ma anche le più ardite operazioni di revisionismo storico risultano inidonee a scalfire la portata di determinate verità, indelebilmente impresse nella memoria e nell’animo di quanti, affermando con orgoglio il proprio essere di sinistra, rivendicano ancora la propria supremazia morale rispetto ai seguaci di altre forze politiche, che recitarono un ruolo di primo piano in alcune delle più tristi vicende del nostro recente passato.

Carlo Dore jr.

UN’AUTENTICA RAGIONE DI INDIGNAZIONE


L’annuncio della candidatura di Gerardo d’Ambrosio nelle liste dei DS ha contribuito a riaprire lo scontro tra politica e giustizia, scontro destinato a rendere ancor più incandescente il già infuocato clima della campagna elettorale in corso.
In una delle tante apparizioni televisive che hanno caratterizzato gli ultimi trenta giorni, il Presidente del Consiglio ha infatti espresso la sua “indignazione” con riferimento al deprecabile fenomeno della militanza politica di alcuni magistrati, individuando proprio nella candidatura di D’Ambrosio alla carica paralamentare e nella nomina di Bruti Liberati (descritto come una delle toghe più <> d’Italia) ad un ruolo di vertice presso la procura di Milano due elementi utili a confermare l’esistenza di quella connivenza tra determinati settori del potere giudiziario e le principali forze della sinistra che costituirebbe la ragione giustificativa tanto della miriade di procedimenti a suo carico, quanto del “graduale insabbiamento” delle inchieste relative al caso Unipol.
I principi cardine del teorema elaborato dal Cavaliere sono stati puntualmente recepiti da tutti gli alleati del centro-destra, i quali, nel denunciare una volta di più l’esistenza di una persecuzione in danno del loro leader, hanno colto l’occasione per qualificare l’Associazione Nazionale Magistrati come una sorta di setta sovversiva e Magistratura Democratica come una forza politica a tutti gli effetti inserita nell’ambito dell’Unione.
Premesso che non si intende in questa sede proporre una valutazione in ordine alla possibilità di configurare le dichiarazioni del premier come penalmente rilevanti, non si può non rilevare come la costante aggressione ad esponenti della magistratura, perpetrata attraverso l’infamante accusa di manipolare a fini politici le indagini in corso, costituisce una pratica non ammissibile nell’ambito di una democrazia evoluta, specie allorquando siffatte contestazioni si basano su macroscopiche distorsioni della realtà di fatto.
Posto infatti che le inchieste relative agli scandali Unipol e Antonveneta (condotte dalla procura di Milano e da quella di Roma) sono in pieno svolgimento, l’affermazione secondo cui i pm milanesi sarebbero impegnati nel tentativo di boicottare tali procedimenti risulta del tutto priva di fondamento, specie se si considera che fu proprio l’ufficio a cui tali magistrati fanno riferimento a prospettare, non più di sei mesi fa, l’esistenza di profili di illiceità penale nelle manovre finanziarie che avevano fatto da sfondo alle scalate di determinati gruppi imprenditoriali al vertice di alcuni ben noti istituti bancari.
Del pari, il teorema diretto a sostenere l’esistenza di un disegno persecutorio alla base dei molteplici procedimenti penali in cui risulta coinvolto Berlusconi non costituisce solamente la poco efficace linea difensiva di un soggetto che, in questi cinque anni, non ha esitato a fare ricorso a tutto il potere riconnesso alla carica da lui ricoperta per risolvere le proprie pendenze giudiziarie, ma rappresenta allo stato attuale una macroscopica alterazione della verità che emerge dalla lettura degli atti processuali.
In questo senso, può considerarsi illuminante la sentenza relativa al processo SME (salutata dall’intera Casa delle Libertà come la massima sconfitta dei c.d. maramaldi in toga), la quale, nel disporre il non doversi procedere in confronto del Presidente del Consiglio in ragione dell’intervenuta prescrizione del reato conseguente all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (il cui riconoscimento presuppone per forza di cose l’accertamento del reato oggetto di imputazione), indirettamente conferma la piena validità dell’impianto accusatorio sostenuto da Gherardo Colombo e da Ilda Boccassini.
Tutto ciò posto, non si vede la ragione per la quale la candidatura di D’Ambrosio dovrebbe essere valutata con indignazione dagli esponenti del centro-destra. Premesso che l’ordinamento riconosce ad ogni esponente del potere giudiziario il diritto ad avere delle idee e ad esternare il proprio pensiero attraverso molteplici forme di partecipazione alla vita pubblica senza che l’adesione ad un determinato orientamento politico possa intaccarne il prestigio nell’esercizio della funzione giudicante o requirente, meno che mai può essere contestata la partecipazione ad una competizione elettorale da parte di un ex magistrato ormai in pensione da tre anni, il quale intende ora mettere la sua esperienza e la sua indiscussa preparazione al servizio della collettività.
Nel momento poi in cui questo fatto costituisce lo spunto utile alla maggioranza di governo per sostenere che “c’è del marcio all’interno della magistratura italiana”, il discorso si sposta bruscamente dal piano giuridico a quello più squisitamente politico. Di fronte ad un legislatore dimostratosi negli ultimi cinque anni interessato non a porre rimedio ai reali problemi della giustizia ma solamente ad assecondare gli interessi personali di determinati personaggi (anche attraverso l’attuazione di una riforma dell’ordinamento giudiziario utile soltanto a vincolare i magistrati alle volontà contingenti della fazione politica prevalente in un dato momento storico), risulta infatti lecito domandarsi se la costante violazione del principio della separazione tra i poteri dello Stato non abbia messo in pericolo la stabilità di quegli equilibri su cui si regge l’ordinamento democratico. La radicale alterazione di questi equilibri può in effetti costituire un valido argomento per essere indignati.
Carlo Dore jr.