venerdì, giugno 23, 2006


CONTRORIFORMA DELLA GIUSTIZIA E CONTRORIFORMA DELLA COSTITUZIONE[1]


Vorrei impostare il mio intervento sulla base di alcune considerazioni che sono state proposte nei giorni precedenti questo nostro incontro, le quali possono costituire lo spunto per procedere in alcune riflessioni di carattere generale in ordine agli argomenti su cui ci troviamo oggi a dibattere.
Nell’illuminante saggio in cui vengono esposte le ragioni del No alla riforma costituzionale voluta dal centro-destra, Pietro Ciarlo rileva come la c.d. bozza di Lorenzago costituisce il frutto di un bieco baratto tra le forze politiche che componevano la precedente maggioranza di governo [2].
Per ottenere la rapida approvazione delle leggi necessarie a risolvere le proprie pendenze giudiziarie e quelle di alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, l’on. Berlusconi non ha infatti esitato ad accordare alla Lega Nord la tanto sospirata devolution, ad assecondare le tendenze autoritarie di AN disegnando quella figura di premier forte la quale peraltro si adatta perfettamente ai caratteri di Piccolo Cesare che da sempre lo contraddistinguono, e ad accontentare l’UDC attraverso l’approvazione di una legge elettorale proporzionale talmente bizantina e cavillosa da costituire alla lunga la stessa corda che ha impiccato la Casa delle Libertà alle ultime consultazioni politiche.
Tuttavia, per quanto formalmente qualificabile come il risultato di un compromesso tra le varie anime poliste, questa riforma costituisce , a mio modesto avviso, una sorta di assordante e stucchevole inno al berlusconismo. Costituisce infatti una verità inconfutabile l’affermazione in forza della quale Berlusconi può essere qualificato (secondo la terminologia propria delle manifestazioni degli anni ’70) come un padrone: in quanto padrone, egli preferisce accordare ai suoi subordinati dei benefit più o meno consistenti piuttosto che incontrare resistenze nell’attuazione dei processi aziendali.
Ma c’è di più: proprio in quanto padrone, il Cavaliere mal sopporta l’esistenza di istituzioni di garanzia che, svolgendo in maniera incisiva la loro funzione, possano limitare la sua libertà di azione e rallentare l’esecuzione delle sue decisioni. Ho già avuto modo di rilevare [3] come, in questo senso, trova una sua ragion d’essere la rideterminazione dei criteri di nomina dei giudici della Consulta, la revisione delle prerogative del Capo dello Stato, l’attribuzione al Presidente della Repubblica (nominato dal Parlamento) di procedere alla nomina del vice-presidente del CSM (misura quest’ultima palesemente diretta a rendere più stringente il controllo della politica sull’organo di autogoverno della Magistratura).
Tuttavia, risulta secondo me condivisibile il rilievo proposto da Giancarlo Caselli nel suo intervento pubblicato sull’ultimo numero di Micromega [4]: la riforma della Costituzione non deve essere concepita come un’iniziativa del tutto isolata, ma come un momento di attuazione di un progetto politico più ampio, risultando animata dalla medesima ratio che contraddistingue la riforma dell’ordinamento giudiziario. Le affinità esistenti tra le due leggi appena richiamate sono anche troppo evidenti: entrambe rappresentano un attacco della politica al diritto, un’aggressione in confronto della stabilità ed al corretto funzionamento dell’ordinamento giuridico.
E’ noto come proprio sulla materia dei rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario le forze del centro-sinistra ed i vari movimenti formatisi in seno alla c.d. società civile hanno condotto una strenua opposizione alle decisioni assunte dal Governo Berlusconi nel corso della precedente legislatura. Gli elettori hanno pertanto conferito all’Esecutivo appena insediatosi un mandato chiaro ed inequivocabile: quello di impostare una politica della giustizia diretta ad assecondare le istanze degli operatori di settore, mettendo i magistrati nella condizione di operare con quella indipendenza ed autonomia che è stata loro costantemente negata negli ultimi cinque anni.
Ebbene, i primi segnali non sono incoraggianti: il nuovo Guardasigilli (un politico di professione, forse inconsapevole dei problemi che affliggono il dicastero da lui diretto) ha infatti deciso di non ricorrere alla decretazione d’urgenza per paralizzare i decreti attuativi della riforma-Castelli, preferendo rimettere la questione al giudizio delle Camere attraverso la proposizione di un normale ddl.
Premesso che la ragione giustificativa di una simile, scellerata valutazione è stata individuata nell’impossibilità per la maggioranza di sostenere in Senato un duro scontro con la CDL in sede di conversione dell’eventuale decreto, lo scorso lunedì la suddeta riforma ha iniziato a produrre i suoi nefasti effetti, affidando al Procuratore della Repubblica il monopolio esclusivo in relazione alla gestione delle indagini ed all’esercizio dell’azione penale e precludendo ai magistrati di partecipare a qualsiasi iniziativa pubblica su materie politicamente sensibili.
Tutto ciò implica che è sufficiente la presenza in un ufficio del PM di un Procuratore capo contiguo a determinati centri di potere per paralizzare il funzionamento della macchina processuale e per evitare che determinati fatti vengano portati a conoscenza dell’opinione pubblica.
Avviandomi a concludere, ho voluto sottoporre questi fatti alla vostra attenzione per rendere chiaro come, votando “no” a questa riforma della Costituzione, abbiamo la possibilità non solo di manifestare la nostra contrarietà al progetto politico in questa si inserisce, ma anche di invitare l’attuale Governo a varare una politica fatta di scelte incisive e radicali, ancorché politicamente rischiose.
L’esperienza della Bicamerale ci ha infatti insegnato come con quelle forze politiche nella cui cultura non rientra l’amor costitutionis la ricerca del confronto può rappresentare un pericolo che il centro-sinistra non può attualmente permettersi di correre. Volendo parafrasare Marco Travaglio, si può infatti affermare come con quella variegata fauna composta da pregiudicati e plurinquisiti, da caimani, alligatori e squali di ogni sorta la via del dialogo risulta essere assolutamente non percorribile.
Carlo Dore jr.

[1] Il presente scritto riproduce l’intervento all’incontro-dibattito sulla riforma della Costituzione svoltosi a Cagliari il 20 giugno 2006
[2] Così P. Ciarlo, No alla controriforma costituzionale voluta dal centro-destra, Napoli, 2006.
[3] Sul punto, C. Dore jr., Il ruolo delle istituzioni di garanzia nella riforma della Costituzioni, disponibile sul sito http://www.dscagliari.it/
[4] G. Caselli, Lettera aperta al Ministro della giustizia, in Micomega, 4, 2006.

martedì, giugno 13, 2006


L’AVVELENATA


La più lunga ed estenuante campagna elettorale della storia politica cagliaritana ha avuto oggi l’esito forse più scontato che si potesse attendere: mentre Emilio Floris viene trionfalmente confermato nella carica di Primo Cittadino, l’Unione si avvia verso l’ennesima, bruciante sconfitta. Premesso che la delusione ed il rammarico per l’occasione mancata (rammarico reso ancor più feroce dalle illusioni cullate a seguito dei brillanti risultati ottenuti dal centro-sinistra in occasione delle ultime consultazioni politiche) in questo momento limitano la lucidità del ragionamento di candidati e militanti, questa triste debacle costituisce il presupposto per procedere ad alcune necessarie considerazioni al veleno.
In primo luogo, le elezioni comunali appena concluse hanno fatto riemergere una volta di più l’anima nera che da sempre contraddistingue la città di Cagliari, la cui popolazione, mostrandosi drammaticamente indifferente ai quotidiani problemi della realtà urbana, non ha esitato a rinnovare la fiducia ad un sindaco il quale, lungi dal dedicarsi alla cura degli interessi della collettività, si è limitato nell’ultima consiliatura ad assecondare le esigenze di pochi e ben noti centri di potere.
Di fronte ad un simile status quo, era compito dell’Unione proporre una sfida di rinnovamento: una sfida che si poneva di per sé come ardua e rischiosa, considerate le connessioni esistenti tra il centro destra e quel sostrato provinciale e stucchevolmente piccolo-borghese su cui si fonda il nucleo della società cagliaritana. Tuttavia - forse male interpretando l’antico grido di Che Guevara, in base al quale le battaglie non si perdono ma si vincono sempre -, di fronte alla prospettiva di combattere una battaglia aspra e senza esclusione di colpi, l’Ulivo nostrano ha scelto di deporre preventivamente le armi e di lasciare così all’avversario la possibilità di assicurarsi quasi senza colpo ferile il campo di azione.
In questo senso assume una sua ragion d’essere la candidatura di Gianmario Selis, uomo onesto e politico capace, ma ormai privo del carisma necessario per rappresentare le istanze di tutte le anime della coalizione; in questo senso può inoltre essere individuata la perversa logica che ha ispirato la formazione di una lista unitaria composta (ferma restando qualche fisiologica eccezione) da candidati talmente logori ed abusati da non potere in alcun modo meritare il sostegno di quell’ampia fetta di elettorato la quale, mostrandosi insensibile a ipocrisie e trasformismi, continua orgogliosamente a professarsi di sinistra.
Ora, mentre questa ennesima sconfitta assume proporzioni sempre più definite, un’altra sfida di rinnovamento deve essere proposta: la sfida diretta a costituire una nuova classe dirigente in grado di sostituirsi al ristretto manipolo di druidi della politica che, ormai da vent’anni, governa con alterne sfortune le sorti del centro-sinistra sardo. Volendo infatti ancora una volta parafrasare Che Guevara, sembra logico sostenere che, se non tutte le battaglie possono essere vinte, sicuramente tutte meritano di essere almeno combattute.

Carlo Dore jr.

sabato, giugno 10, 2006


LA FOLLA GRIDAVA: ENRICO! ENRICO!


Il ventiduesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer assume una valenza politica del tutto particolare, considerato il contesto temporale in cui si colloca. Il (seppur risicato) successo riportato dal centro-sinistra nell’ultima competizione elettorale, la presenza nell’Esecutivo di numerosi ministri espressione delle forze politiche direttamente riconducibili all’esperienza del PCI, la nomina di Giorgio Napolitano alla carica di Presidente della Repubblica costituiscono infatti il presupposto utile per procedere nell’elaborazione di alcune riflessioni in ordine alla figura del leader sassarese, nel tentativo di mettere in evidenza l’estrema attualità che tuttora caratterizza il progetto politico in cui egli credeva.
Il punto di partenza di tale riflessione può essere paradossalmente individuato proprio in quella uggiosa serata di giugno di ventidue anni fa, quando Berlinguer si spense sul Palco allestito in Piazza della Frutta a Padova, durante un comizio in occasione delle elezioni europee. Mentre il megaschermo catturava le smorfie di dolore che contraevano il suo volto esausto durante gli ultimi passaggi del discorso, la folla iniziò a scandire all’unisono il nome del Segretario, avvincendolo così in quell’ideale abbraccio destinato ad essere rinnovato dalle migliaia di persone che invasero Roma in occasione dei funerali, tenutisi tre giorni dopo.
Le ragioni di una simile ondata emotiva sono state efficacemente illustrate da Miriam Mafai, in un passaggio del suo bellissimo “Botteghe Oscure addio”: in una fase storica caratterizzata da un preoccupante vuoto ideologico che facilitava il manifestarsi dei primi rigurgiti di estremismo, con Berlinguer il popolo della sinistra ritrovava un Capo.
Le immagini di Jan Palack che brucia dinanzi al carro armato sovietico avevano infatti rappresentato per i comunisti italiani l’inizio del procedimento di disgregazione del mito della Grande Madre Russia, già messo pesantemente in discussione a seguito dei fatti di Ungheria del 1956: si avvertiva forte la necessità di individuare un nuovo modello a cui ispirarsi, un nuovo progetto nel quale credere.
Facendo chiaramente riferimento alla linea politica che in Cile aveva portato al successo l’Unidad Popular, il neo-eletto Segretario ebbe il merito di recepire le istanze della base attraverso la proposizione di quella rivoluzionaria idea di centro-sinistra rivelatasi idonea a trascinare il PCI (dal 1948 irreversibilmente radicato nelle grigie paludi di una statica opposizione radicale) fino alle porte di Palazzo Chigi.
Posto che le grandi battaglie sui diritti civili e sulle politiche del lavoro, lo strappo da Mosca e la questione morale vengono identificate come le tappe fondamentali della strategia berlingueriana, si è più volte affermato che l’esperienza dell’Ulivo rappresenta l’ideale continuazione di quella meravigliosa stagione politica: tuttavia, pur avendo la coalizione guidata da Romano Prodi conquistato il governo del Paese, la figura del Segretario rimane al centro del dibattito in corso tra le varie anime del progressismo italiano.
Persi tra le tante, vuote elucubrazioni di dirigenti privi del carisma necessario per entusiasmare la base, risolutamente ostinati nel dissertare di scenari di unità che la maggioranza degli elettori dimostra di non comprendere e di non condividere, i militanti avvertono, oggi come negli anni ’70, la mancanza di un autentico leader capace di colmare il vuoto ideologico apertosi dopo al sconfitta del 2001.
Ma forse, proprio guardando agli insegnamenti del delfino di Togliatti, i DS potranno individuare la linea di azione necessaria per impostare questa nuova fase di governo. Se le forze politiche che discendono dal PCI riusciranno a trovare il coraggio di riaffermare con forza la loro identità, facendo ancora una volta valere la supremazia morale che caratterizza il popolo della sinistra italiana rispetto agli adepti del Caimano, il disegno di Berlinguer, finalizzato proprio a mettere il Partito Comunista nella condizione di porsi come credibile forza di governo, avrà davvero trovato una sua piena attuazione.

Carlo Dore jr.

sabato, giugno 03, 2006


IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI DI GARANZIA NELLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE


Archiviate definitivamente le polemiche relative all’estenuante maratona elettorale, la materia della riforma della Costituzione è ritornata al centro del dibattito politico, in previsione del referendum confermativo del prossimo 25 giugno.
I più eminenti costituzionalisti italiani (da Allegretti a Barbera, da Ciarlo a De Siervo) hanno ripetutamente denunciato i rischi collegati all’entrata in vigore del testo di revisione della Carta Fondamentale predisposto dai sedicenti saggi di Lorenzago, rischi principalmente riconducibili al fatto che il suddetto testo tende a concentrare nelle mani del primo ministro un potere tale da renderlo il dominus indiscusso della politica nazionale.
Tuttavia, alcuni aspetti di tale disegno (forse marginali, ma non per questo meno inquietanti) meritano a nostro avviso di essere oggetto di un ulteriore riflessione: costituisce una realtà tristemente incontrovertibile l’affermazione secondo cui Silvio Berlusconi, indotto per mentalità a non concepire l’esistenza di limiti che possano ostacolare l’attuazione dei suoi progetti, ha sempre considerato le istituzioni di garanzia alla stregua di un mero fattore perturbante per l’adempimento dell’ormai celeberrimo contratto con gli Italiani. Questa manifesta insofferenza costituisce l’effettiva ratio delle disposizioni che definiscono le prerogative del Capo dello Stato e che individuano i nuovi criteri per la nomina dei membri della Corte Costituzionale, non a caso più volte qualificata dai vari luogotenenti del Caimano come una sorta di moderno soviet supremo.
Premesso che la più alta carica dello Stato risulta pesantemente menomata nelle sue prerogative in ragione del fatto che essa viene privata del potere di determinazione in ordine allo scioglimento delle Camere, è opportuno rilevare come la riforma in commento, individuando tout court il Primo Ministro nel leader della coalizione che prevale nella competizione elettorale, di fatto assegna al Presidente della Repubblica un ruolo del tutto marginale anche nella fase di formazione dell’Esecutivo.
Una simile misura, unitamente alla previsione che riserva al premier il potere di nomina e revoca dei vari ministri, è palesemente finalizzata a scongiurare il verificarsi di situazioni analoghe a quelle che, nel lontano 1994, caratterizzarono la composizione del primo governo della Casa delle Libertà: in quell’occasione il Presidente Scalfaro non solo riuscì a precludere l’ascesa alla carica di Ministro della Giustizia di un soggetto (pochi mesi fa condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) privo dei requisiti morali necessari per svolgere con l’adeguata autorevolezza il ruolo di Guardasigilli, ma arrivò a denunciare dinanzi alla Nazione intera la presenza, nell’ambito della maggioranza parlamentare, di forze politiche storicamente ostili a quei principi democratici che trovano proprio nella Carta Costituzionale la loro più elevata espressione.
Peraltro, si è già evidenziato come, a seguito della pronuncia di incostituzionalità della legge che garantiva alle più alte cariche dello Stato l’immunità anche con riferimento ai processi in corso, la Consulta è stata brutalmente accusata di partigianeria, in ragione di una pretesa (e, nel caso di specie, del tutto irrilevante) continuità ideologica tra alcuni suoi componenti ed i partiti del centro-sinistra.
In questo senso, l’innalzamento del numero dei giudici di nomina parlamentare assolve perfettamente all’esigenza di garantire una piena omogeneità tra la maggioranza di Governo ed il collegio che costituisce il Giudice delle Leggi, così sostanzialmente trasformato da organo di controllo in organo di ratifica delle decisioni maturate a livello parlamentare.
Alla luce delle considerazioni appena formulate, l’esigenza di esprimere un voto contrario alla riforma in commento appare forse ancora più pressante: il tratto fondamentale che contraddistingue ogni democrazia evoluta viene infatti identificato nell’esistenza di una serie di istituzioni di garanzia la cui funzione è appunto quella di evitare che le forze maggioritarie in un dato momento storico possano abusare del potere ad esse conferite dal corpo elettorale.
Nel momento in cui le prerogative di queste istituzioni vengono messe in discussione dagli stessi organi titolari del potere politico, i quali si trovano quindi nella condizione di poterne limitare la rilevanza in seno all’ordinamento, sono le fondamenta stesse della democrazia a tremare violentemente.

Carlo Dore jr.