domenica, novembre 26, 2006


LA NOTTE DEGLI SCIACALLI


L’inchiesta giornalistica condotta da Enrico Deaglio in ordine ai presunti brogli elettorali verificatisi nella notte tra il 10 e l’11 aprile ha gettato una nuova luce sugli avvenimenti che scandirono l’incedere delle ore più lunghe e sofferte della recente storia politica italiana. Spetta ora alla Magistratura l’arduo compito di accertare se il DVD allegato all’odierna copia di “Diario” contiene solo un buon thriller fantapolitico o se effettivamente, durante quella estenuante maratona di dati, cifre, dichiarazioni e smentite, si consumò un vero e proprio attentato alla democrazia italiana.
Nell’attesa che la verità giudiziaria venga offerta all’opinione pubblica, rimane comunque lo spazio per proporre alcune considerazioni circa la costruzione prospettata dagli autori di “Uccidete la democrazia”, considerazioni rese peraltro difficilmente confutabili da una serie di dati di fatto.
Le elezioni amministrative del 2005 avevano infatti fornito un’indicazione politicamente incontrovertibile: l’onda lunga del consenso berlusconiano si era ormai esaurita, e Romano Prodi (forte della straordinaria legittimazione popolare ottenuta attraverso le primarie) si accingeva ad intraprendere una nuova marcia trionfale verso Palazzo Chigi.
Premesso che tutti i sondaggi attribuivano all’Unione una maggioranza schiacciante, ho sempre ritenuto non del tutto credibili quanti ancora affermano che le troppe incertezze manifestate, specie in politica economica, dai leaders del centro-sinistra nel corso della campagna elettorale (indiscutibilmente inficiata nelle sua impostazione dal clamoroso errore di considerare già acquisito il successo finale) sarebbero state l’unica causa della clamorosa rimonta compiuta sul filo di lana dal Cavaliere di Arcore.
Sfruttando la sua ben nota abilità di comunicatore (resa ancor più incisiva dall’impressionante apparato mediatico a sua disposizione), Berlusconi riuscì effettivamente, di fronte alla prospettiva di una sconfitta annunciata, a proporre una duplica linea di reazione: mentre infatti il suo sorriso stereotipato e la sua capigliatura posticcia dominavano in tutti i programmi televisivi, la sua maggioranza parlamentare imponeva (attraverso una scelta che i costituzionalisti definirono degna della più greve dittatura centroamericana) l’approvazione di una legge elettorale diretta a limitare le possibilità di successo dell’avversario politico.
Tuttavia, in considerazione delle continue nefandezze che avevano caratterizzato gli ultimi cinque anni di governo, i principali esperti di sondaggi rimanevano concordi nel sostenere che le contorsioni televisive del Caimano e le logiche bulgare dei suoi subordinati non risultavano idonee a scalfire il vantaggio dell’Unione, vantaggio quantificato, al momento della chiusura delle urne, tra i quattro e gli otto punti percentuali.
Curiosamente, tutti valori proposti dai suddetti sondaggi hanno trovato conferma nei dati reali, con due sole eccezioni: la radicale diminuzione (rispetto alle elezioni precedenti ed a tutte le elezioni successive) del numero delle schede bianche ed il corrispondente exploit di consenso registrato da Forza Italia. E mentre il margine di successo dell’Ulivo si assottigliava di proiezione in proiezione, per lo sgomento del popolo progressista riunitosi in Piazza Santi Apostoli, dal quartier generale di Romano Prodi partì un ordine (rivolto agli eletti ed ai militanti impegnati presso i seggi) di cui pochi nella concitazione generale compresero il significato: “vigilate”.
Questa indicazione così secca ed ambigua fu interpretata da alcuni opinionisti come un segnale inquietante, come il segnale che qualcosa di grave stava accadendo in quei minuti: in altre parole, iniziò a prendere consistenza il sospetto che una strana ombra nera si stesse dipanando lungo il percorso che separa il Viminale da Palazzo Grazioli, per assicurare al Caimano altri cinque anni di permanenza alla guida del Paese.
In questo senso, se il teorema di Deaglio dovesse trovare conferma, se davvero venisse rilevato che le schede bianche sono state assegnate, in virtù di determinate procedure informatiche, al partito dell’ex premier, il significato di simili pratiche, della riforma della legge elettorale e della costante manipolazione dei mass media potrebbe essere riassunto attraverso una semplice perifrasi: colpo di Stato.
Tuttavia, nell’attesa che la magistratura accerti la verità circa le varie fasi da cui risulta scandita questa sorta di surreale notte degli sciacalli, dai fatti in commento può essere tratta una prima, importante indicazione politica: è ben noto come l’attuale maggioranza di governo sia troppo spesso vittima di pulsioni trasversali, giungendo talvolta a riconoscere alla Casa delle Libertà una legittimazione istituzionale che i seguaci del Cavaliere forse non meritano.
La notte degli sciacalli può rappresentare quindi un’ulteriore conferma di una verità tante volte affermata in passato: forte di un agglomerato di potere non configurabile presso alcuna realtà politica occidentale, Berlusconi rappresenta una variabile impazzita in grado di minare le fondamenta stesse della democrazia italiana. In confronto di questa variabile impazzita, la strada del riconoscimento reciproco, della cooperazione istituzionale, della serena dialettica nei rapporti tra maggioranza ed opposizione non risulta in alcun modo percorribile.

Carlo Dore jr.

sabato, novembre 18, 2006


PANSA: LE TROPPE BUGIE DE “LA GRANDE BUGIA”.


In una lunga intervista rilasciata a “L’Unione Sarda”, Giampaolo Pansa ha riproposto anche ai lettori del più importante quotidiano dell’Isola le principali argomentazioni che stanno alla base della sua ultima “Grande Bugia”.
Avendo ormai definitivamente assunto il ruolo di primo difensore dei “Vinti” della Guerra di Liberazione, di quelle migliaia di pretesi desaparecidos le cui vicende sarebbero state sistematicamente occultate dalle ricostruzioni della Resistenza proposte dai tanti storici afferenti all’egemone cultura di sinistra, l’Autore si è attribuito il merito di avere finalmente dato “voce ai moderati”, rivelando una volta per sempre le “troppe balle” su cui il PCI avrebbe impostato la formazione ideologica dei suoi militanti.
Tuttavia, una volta superato lo sconcerto per l’entusiasmo che le parole del giornalista piemontese continuano a destare nei nostalgici di tutta Italia (ed in particolare in quei Cagliaritani che, il 25 aprile, non esitano a prendere parte alle funzioni religiose che si svolgono in memoria dei “martiri” della RSI ed a ribadire la veridicità del ridicolo assunto secondo cui “Mussolini era un dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza ai confini”) e per la sostanziale indifferenza con cui i leaders dei DS assistono ai continui attacchi rivolti ai valori di cui l’ Antifascismo costituisce espressione, le tante Grandi Bugie di Pansa non possono non essere oggetto di qualche considerazione al veleno.
Allorquando lo scrittore di Casale Monferrato afferma che la storia italiana è vittima della perversa logica in forza della quale “chi vince parla e scrive, chi perde sta zitto e tace”, egli finisce col dimenticare una delle realtà che con maggiore evidenza emergono dalle pagine di quella stessa storia di cui il suo libro dovrebbe rappresentare una nuova lettura. Per oltre vent’anni i “Vinti” in camicia nera ebbero infatti modo di manifestare la loro reale natura, di esprimere i valori a cui essi aderivano: le spedizioni punitive, le torture di piazza, gli omicidi a sangue freddo, la brutale soppressione di ogni libertà individuale si rivelarono infatti ben presto i principi – cardine del loro credo politico; le parate in Piazza Venezia, i Tribunali Speciali, l’Asse Roma-Berlino le modalità attraverso cui tali principi trovarono attuazione.
Al grido “La storia siamo noi!”, i partigiani portarono avanti non una semplice guerra di ideologie, ma una vera e propria battaglia diretta alla realizzazione di un Sogno: quello di consegnare alle future generazioni un Paese libero dal giogo che il Fascio aveva imposto. Pur con tutte le degenerazioni che fatalmente contraddistinguono ogni Guerra Civile (in cui l’esplosione di antichi rancori, la volontà di riparare vecchi torti e l’esaltazione giustizialista alimentano costantemente la ferocia dei conflitti che si consumano all’interno del medesimo popolo), la Resistenza offre in questo senso alcune certezze incontrovertibili: di fronte ad una lotta tra quanti si batterono per l’affermazione dei valori democratici e quanti scelsero di schierarsi a difesa delle grandi tirannie, il tentativo di equiparare vincitori e vinti, oppressi ed oppressori, vittime e carnefici costituisce l’autentica Grande Bugia di cui il Revisionismo si nutre.
Se del sacrificio compiuto da quanti persero la vita in nome dei suddetti valori i seguaci di Pansa non riescono a comprendere l’alto valore ideologico ed etico (mettendo tuttora in discussione la legittimazione storica dei principi proposti dalle forze politiche a cui i soggetti in questione facevano obiettivamente riferimento), del tanto sangue versato dai Vincitori della Guerra di Liberazione anche il più convinto fautore del revisionismo non può esimersi dall’avere rispetto.

Carlo Dore jr.

domenica, novembre 05, 2006


PARTITO DEMOCRATICO E ALTERNATIVE DI SINISTRA
di
Carlo Dore jr.

SOMMARIO: 1. L’assise di Orvieto: le ragioni della trasformazione; 2. La semplificazione della politica: il Partito Democratico non è il partito unico del centro-sinistra; 3. Romano Prodi: il leader di un partito o un leader al di sopra dei partiti?; 4. Il problema della collocazione: possiamo morire democristiani?; 5. Una forza unitaria della sinistra italiana come alternativa al Partito Democratico



1. L’assise di Orvieto: le ragioni della trasformazione

All’indomani della sofferta vittoria riportata alle elezioni politiche del 9 e del 10 aprile, il processo di costituzione del nuovo soggetto politico del centro-sinistra (già delineato nella fase pre-elettorale attraverso la formazione di liste unitarie di candidati espressione della Margherita e dei DS) sembra aver trovato il suo effettivo avviamento.
L’assise degli eletti dell’Ulivo recentemente convocata in quel di Orvieto è stata senz’altro utile per ribadire le ragioni di fondo che stanno alla base di questo processo di trasformazione, ma non per gettare un fascio di luce sulle tante zone d’ombra che contraddistinguono siffatto progetto né per impedire le lacerazioni che l’attuazione del medesimo determinerà in seno alla sinistra italiana.
Le posizioni dei sostenitori della “linea unitaria” (espresse da Walter Veltroni con la passione e l’intelligenza che caratterizzano ogni suo intervento) possono essere così riassunte: premesso che la scelta iniziale –risalente all’ormai lontano 1995- di dare vita ad un’alleanza riformista trova la sua naturale evoluzione nella realizzazione di un partito unico, in grado di rappresentare tutte le componenti del progressiste presenti nel Paese, la creazione di una simile forza politica determinerebbe da un lato il rafforzamento della leadership di Romano Prodi (finalmente identificabile come il capo di un partito in grado di raccogliere almeno il 35% dei consensi complessivi), e d’altro lato garantirebbe più stabilità all’etreogenea e litigiosa maggioranza che sostiene il Governo.



2. La semplificazione della politica: il Partito Democratico non è il partito unico del centro-sinistra.

Ricostruite in questi termini le argomentazioni di coloro i quali aderiscono alla linea programmatica imposta da Rutelli e Fassino, non si può non osservare come tali argomentazioni destino molteplici ragioni di perplessità. In primo luogo, occorre superare il macroscopico equivoco alimentato ogni giorno (più o meno consapevolmente) dai tanti illuminati riformisti che oggi affollano la bouvette di Montecitorio: il Partito Democratico, nella sua configurazione attuale, non può essere presentato come una sorta di labour party all’italiana, come un punto di riferimento comune per quanti rifiutano di conformarsi all’arroganza bieca e al servile pronismo su cui è tuttora edificata la Casa delle Libertà. Il PD non rappresenta infatti il tanto vagheggiato partito unico del centro-sinistra, ma più semplicemente l’aggregazione delle (componenti maggioritarie presenti nell’ambito) delle principali forze che governano la coalizione.
Dall’accettazione di questo semplice postulato, derivano una serie di considerazioni ulteriori, idonee sia a confutare le costruzioni sopra riportate, sia a mettere ancora una volta in rilievo l’esistenza, all’interno del progetto di unificazione, di quell’insieme di lati oscuri a cui si è in precedenza fatto cenno. In occasione delle ultime elezioni politiche, la lista dell’Ulivo ha infatti conseguito un quoziente elettorale approssimativamente pari al 32% dei voti, potendo contare anche sull’apporto di quegli elettori che, indipendentemente dalle identità partitiche, hanno voluto sostenere Prodi nel confronto diretto col Caimano.
Premesso che un simile risultato è sostanzialmente lontano dalle aspettative cullate dal gruppo dirigente ulivista, la qualificazione del PD come centro catalizzatore del 45% dei consensi rappresenta solo un’altra pagina del voluminoso libro dei sogni della politica italiana, considerato il dissenso dell’ala radicale dei DS e le perplessità di alcune frange della Margherita a confluire in un partito caratterizzato da una forte componente postcomunista.
Tutto questo implica che la creazione del nuovo soggetto unitario non solo non contribuirà alla “semplificazione” dei rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo, ma paradossalmente finirà con l’alimentare le già descritte ragioni di eterogeneità che contraddistinguono un’alleanza dimostratasi, in questi primi mesi della legislatura, già di per sé divisa ai limiti dell’implosione.
3. Romano Prodi: il leader di un partito o un leader al di sopra dei partiti?

In un simile contesto, la leadership di Romano Prodi appare per forza di cose tanto debole da rendere la sua posizione equiparabile a quella di uno dei tanti Presidenti del Consiglio alternatisi durante l’epoca del CAF, durante la quale la sopravvivenza del Governo era di fatto rimessa al mero arbitrio dei segretari dei tanti partiti che ne sostenevano l’azione in Parlamento. Le ragioni dell’instabilità del Premier vengono generalmente ricondotte alla “mancanza di un partito alle sue spalle”, con la conseguenza che il Partito Democratico può essere individuato come il punto di appoggio in grado di conferire al Professore la credibilità politica necessaria per affrontare in maniera efficace i tanti problemi che oggi attanagliano il Paese.
Posto infatti che l’Unione continua ad essere soggetta alla pregiudiziale che preclude alla principale forza della coalizione di indicare un proprio esponente quale leader della medesima, la condizione di Prodi, dopo le primarie dell’ottobre del 2005, dovrebbe trascendere i singoli partiti, avendo il consenso dei militanti elevato l’attuale inquilino di Palazzo Chigi al ruolo di capo dell’intero schieramento progressista.
Forte di una legittimazione popolare senza precedenti, l’attuale capo dell’Esecutivo ha avuto la possibilità di predisporre un programma di governo che doveva essere coraggioso, intelligibile e preciso a tal punto da “rimettere in moto l’Italia” dopo i disastri dell’era berlusconiana. Tuttavia, il Professore forse non è riuscito ad esercitare la legittimazione di cui era investito con la necessaria incisività, impostando una campagna elettorale ispirata ad un inspiegabile basso profilo al cospetto di un avversario prematuramente considerato inoffensivo.
Le troppe incertezze relative alle scelte di politica economica hanno costituito l’ulteriore causa che ha condotto alla folle notte del 10 aprile, in cui l’Unione ha rischiato di perdere un’elezione che in base ai sondaggi poteva considerarsi già vinta. Come noto, dalle urne è uscita una maggioranza parlamentare così esigua che il Presidente del Consiglio risulta quotidianamente al costante ricatto dei partiti minori, i cui voti risultano evidentemente determinanti per la conservazione del vincolo fiduciario.
Tutto ciò premesso, sembra difficile sostenere che il Partito Democratico costituisca lo strumento idoneo per rafforzare l’immagine di Prodi all’interno della coalizione: qualora infatti si ponesse a capo di una forza direttamente coinvolta nelle lotte di potere al momento in atto in seno all’Unione, egli paradossalmente rischierebbe di perdere quella superiore legittimazione a cui si è in precedenza fatto riferimento, e la cui sussistenza ha finora impedito ai suoi riottosi alleati di metterne in discussione il ruolo.

4. Il problema della collocazione: possiamo morire democristiani?

Tuttavia, i problemi presi in esame fino a questo momento assumono un rilievo marginale rispetto alle grandi questioni inerenti alla collocazione ideologica del nuovo partito ed all’identità che questo dovrà assumere. Prendendo vita dalla mera fusione di due realtà caratterizzate da una diversa cultura, da una diversa storia, da diversi valori e da diversi principi etici e morali, il PD nasce come un movimento bicefalo frutto di una lenta e macchinosa strategia di compromesso, finora ispirata dalla logica dalemiana secondo cui “non si può costringere i democristiani a morire socialisti”.
L’attuazione di una simile linea di ragionamento impone però ai dirigenti diessini di qualificare con chiarezza i rapporti che il nuovo partito dovrà intrattenere con il PSE, rapporti finora delineati attraverso perifrasi nebulose quali sono i continui riferimenti a un “costante dialogo” o a un proficuo confronto” con la principale forza del socialismo europeo che quotidianamente caratterizzano le dichiarazioni rese alla stampa dallo stato maggiore ulivista.
Di fronte ad un simile status quo, sorge spontanea la necessità di riproporre quegli interrogativi che da troppo tempo tormentano le coscienze dei militanti della sinistra italiana: se non è possibile costringere i democristiani a morire socialisti, è eticamente corretto imporre agli eredi di Gramsci e Berlinguer di rinunciare una volta per sempre alla loro identità, confluendo in un movimento ideologicamente comparabile alla corrente morotea che governava la DC negli anni del compromesso storico? E’ lecito, in altri termini, costringere le migliaia di elettori che continuano orgogliosamente ad affermare il loro “essere di sinistra” a morire democristiani?
Per offrire una risposta convincente ai quesiti appena formulati, può essere utile, a mio avviso, ripercorrere alcuni dei momenti centrali della storia politica italiana degli ultimi quindici anni. Da un sintetico esame di tali avvenimenti, emerge come la Quercia abbia incessantemente cercato di conseguire una piena legittimazione democratica anche agli occhi di quella che può genericamente definirsi la classe borghese, legittimazione peraltro già ampiamente conquistata attraverso la Guerra di Liberazione e le grandi battaglie civili compiute negli anni ’70 e ulteriormente consolidata attraverso il sostegno fornito ai governi guidati da Amato e Ciampi nella delicatissima fase di transizione che caratterizzo l’inizio degli anni ’90.
La strategia elaborata nei piani alti di Botteghe Oscure (inizialmente diretta ad individuare, in ossequio alla migliore tradizione della politica berlingueriana, una serie di punti di convergenza con i soggetti espressione dell’area cattolica, liberaldemocratica e riformista) ha però subito una serie di degenerazioni, in forza delle quali i DS sono giunti a mettere in discussione la loro natura socialista per assumere essi stessi una connotazione riformista e liberaldemocratica palesemente non in linea con le idee ed i principi a cui la base continua ad ispirarsi.
Queste degenerazioni possono essere ravvisate nell’apertura alle istanze revisioniste dirette a mettere in discussione i valori della Resistenza e ad offrire una nuova verginità politica agli adepti della Repubblica di Salò, nella costante ricerca di un confronto istituzionalmente corretto con un avversario che non perde occasione per manifestare quotidianamente la sua indole parafascista e antidemocratica, nella manifesta incapacità di avanzare sui grandi temi della giustizia, del lavoro, delle relazioni internazionali, della laicità dello Stato delle proposte in grado di assecondare le istanze avanzate dalla maggioranza dei militanti.

5. Una forza unitaria della sinistra italiana come alternativa al Partito Democratico

L’attuale prospettiva di procedere allo scioglimento dei DS, di privare l’Italia di una forza politica che si ispiri ai valori del socialismo europeo , rappresenta in questo senso la logica evoluzione di quella deriva moderata di cui il suddetto partito è in questa fase oggetto, a causa delle basse logiche di potere che animano le scelte varate dall’attuale gruppo dirigente.
Costituisce infatti una verità incontrovertibile l’affermazione secondo cui il Partito Democratico (già dotato di una sua iniziale struttura, di una scuola di formazione, di un periodico di riferimento) non ripete i suoi caratteri essenziali dalle indicazioni avanzate da tesserati e simpatizzanti attraverso serrati dibattiti svoltisi nelle assemblee o nelle sezioni, ma dalle determinazioni espresse da un’oligarchia, da quella ristretta cerchia di eletti riunitisi nella già descritta assise di Orvieto, di cui fanno parte gli stessi illuminati intellettuali che, dopo aver rischiato di consegnare ancora una volta al Cavaliere le chiavi di Palazzo Chigi, ne hanno addirittura caldeggiato la nomina a senatore a vita.
Prendendo atto delle decisioni assunte da questa sorta di conclave ulivista (autoqualificatosi come rappresentativo della maggioranza degli elettori del centro-sinistra), anche l’interessante costruzione avanzata da Paolo Prodi avente l’oggetto l’attribuzione al popolo delle primarie del potere di eleggere i componenti degli organi direttivi del nuovo partito risulta alla lunga poco risolutiva: prima di discutere su “come” realizzare siffatto partito, occorre infatti comprendere “se” effettivamente sussistono ragioni valide per procedere alla sua costituzione.
Dal mio punto di vista, è proprio su quest’ultimo aspetto che si sta consumando una frattura tra il popolo diessino ed i vertici del partito: prendendo coscienza di una simile frattura, è possibile affermare l’esigenza di un ricambio generazionale (a livello sia locale che nazionale) dell’attuale classe dirigente, presupposto indispensabile per restituire ai DS una collocazione ideologica inequivocamente riconducibile ai valori del socialismo europeo e per offrire ad un elettorato deluso e disorientato un nuovo modello in cui credere, un nuovo punto di riferimento a cui ispirarsi.
In questo senso, non si può non guardare con interesse alla proposta – inizialmente formulata da Diliberto e rilanciata in questi giorni anche da alcuni esponenti del Correntone – diretta a realizzare una forza unitaria della sinistra italiana, capace di coinvolgere anche quelle componenti di Rifondazione che faticano a riconoscersi negli effimeri rigurgiti di estremismo che talvolta contraddistinguono le frange più estreme di quel partito.
La creazione di una sinistra forte ed unita, imperniata su un forte consenso popolare ed immune alle tendenze al trasversalismo che talvolta pervadono alcune forze dell’attuale maggioranza di governo, non solo sarebbe utile per attribuire incisività e chiarezza all’azione politica dell’Unione, ma garantirebbe anche la sussistenza a livello istituzionale di una realtà in grado di contrapporsi all’incedere del Caimano con la stessa passione che ha caratterizzato, negli ultimi cinque anni, l’attività dei movimenti operanti nell’ambito della società civile.