sabato, settembre 30, 2006


IL CONFLITTO DI INTERESSI COME SFIDA DI CREDIBILITA’

Con l’individuazione da parte del Consiglio dei Ministri delle linee guida a cui dovrebbe essere ispirata la prossima legge finanziaria, il Governo ha temporaneamente allontanato i dubbi sollevati da parte dell’opinione pubblica in ordine alla sua stabilità, fermo restando che la compattezza della maggioranza parlamentare sembra comunque destinata ad essere messa a dura prova dalla battaglia politica e sociale che desumibilmente caratterizzerà l’attuazione della manovra economica.
Tuttavia, proprio le vicende che hanno portato all’intesa in ordine al contenuto della legge in questione, unitamente agli sbandamenti manifestati con riferimento all’affaire Telecom, hanno sostanzialmente indebolito la posizione dell’Esecutivo sia nei confronti dell’elettorato (intimorito di fronte a scelte di politica economica enfaticamente descritte come ispirate a logiche di tipo dirigista), sia nei confronti dell’opposizione, i cui esponenti hanno potuto dileggiare la storia personale del Premier senza che nessuno tra i leaders dell’Ulivo rilevasse che nel passato di Romano Prodi non vi è traccia di condanne estinte per prescrizione o di affiliazioni a logge massoniche deviate.
Vittima predestinata di una legge elettorale elaborata al solo scopo di esaltare la funzione dei partiti minori, l’Unione si presenta allo stato attuale come una coalizione profondamente eterogenea, in cui i particolarismi mastelliani prevalgono sulle logiche di tipo unitario. Premesso che un simile stato di fatto non può essere superato attraverso il completamento del processo costitutivo del Partito Democratico (la cui formazione finirebbe paradossalmente con l’incrementare i consensi dei partiti afferenti alla c.d. sinistra radicale, finora resasi peraltro coerente portatrice di quelle istanze di giustizia sociale già manifestate durante la campagna elettorale), Prodi ha dovuto in questi mesi fungere da paziente mediatore tra le diverse anime progressiste, assumendo decisioni che per forza di cose non sono mai risultate unanimemente condivise.
Tuttavia, spetta ora al Presidente del Consiglio il compito di imporre alla maggioranza che lo sostiene le priorità dell’azione di governo; e queste priorità devono essere individuate nella riforma del sistema elettorale e nell’approvazione di una legge in grado di regolamentare in maniera incisiva la materia del conflitto di interessi.
Premesso che le argomentazioni di quegli esponenti dell’Ulivo che, nell’ auspicare l’instaurazione di un “proficuo confronto con l’opposizione”, individuano nello stesso Berlusconi l’uomo in grado di favorire “il dialogo tra i poli” possono essere liquidate come meri colpi di calore causati dallo splendido sole di Mergellina, costituisce infatti una verità incontrovertibile l’affermazione secondo cui il Caimano rappresenta l’anomalia che preclude il corretto funzionamento della nostra democrazia.
In una fase in cui ogni intervento dello Stato in settori strategici dell’economia viene immediatamente bollata come manifestazione di dirigismo, non si deve dimenticare come i cinque anni di governo della Casa delle Libertà sono stati caratterizzati dal costante asservimento del potere politico alle esigenze di un gruppo imprenditoriale privato, messo nelle condizioni di risolvere, a seguito della ormai famosa “discesa in campo” del suo dominus, la pesantissima situazione debitoria in cui versava nel 1994.
Attraverso il voto del 10 aprile, gli elettori hanno conferito all’Unione un chiarissimo mandato diretto a risolvere siffatta anomalia. Attraversa la previsione della radicale ineleggibilità del Cavaliere, l’attuale maggioranza ha quindi la possibilità di eliminare dalla scena politica italiana l’assurda commistione tra interessi privati e potere pubblico che egli da dodici anni rappresenta, recuperando così agli occhi degli elettori quella credibilità in parte venuta meno in questi primi mesi di governo.

Carlo Dore jr.

domenica, settembre 10, 2006


WORLD TRADE CENTER
“…contro il terrorismo sempre, con Bush mai…”

Nella giornata di oggi, il Mondo intero si fermerà per ricordare le vittime degli attentati che, in quel pomeriggio di cinque anni fa, colpirono al cuore gli Stati Uniti d’America. Ogni singolo istante che scandì l’evolversi di quegli eventi è indelebilmente impresso nella memoria di tutti i nostri contemporanei, come i frammenti degli incubi più terribili, che ritornano alla mente dopo il risveglio malgrado gli sforzi compiuti per dimenticarli.
Ma quel giorno l’incubo non svanì con i primi raggi del sole, facendo prepotentemente irruzione nella realtà sotto forma di aerei impazziti scagliati con precisione distruttiva contro il World Trade Center, simbolo per antonomasia della più importante potenza occidentale. E mentre le edizioni straordinarie dei telegiornali trasmettevano in diretta le raccapriccianti immagini delle persone che cercavano invano salvezza lanciandosi nel vuoto prima del crollo delle due Torri, allo sgomento e alla costernazione cagionata da quegli eventi si affiancavano i timori per gli scenari di politica internazionale celati sotto le macerie di Ground Zero.
Tuttavia, i suddetti scenari avevano iniziato a delinearsi dal momento in cui quello che Michael Moore coraggiosamente definì (secondo una traduzione a dir poco libera) “l’imbelle delfino di un Presidente guerrafondaio” completò la sua ascesa alla Casa Bianca. Ideatore di una strategia di potere diretta a collocare sotto il diretto controllo statunitense una serie di “Stati canaglia” , Gorge W. Bush ha utilizzato l’argomento della lotta al terrorismo per riaffermare una concezione degli equilibri mondiali sostanzialmente coincidente con quella che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda. Seminando il panico in una popolazione ferita, egli di fatto ha invocato uno sorta di scontro tra civiltà, attribuendo all’Occidente il compito di imporre il vangelo della democrazia ai fanatici infedeli.
Anche grazie ad una congiuntura politica favorevole che rendeva la comunità internazionale quasi integralmente asservita ai voleri di Washington, il petroliere texano ha così scagliato un offensiva militare senza precedenti nei confronti di alcuni dei paesi oggetto della suddetta strategia, quali l’Afghanistan e l’Iraq. Tutti coloro i quali tentavano di opporsi ad un simile status quo, rilevando come i valori democratici non possono essere imposti ad un popolo attraverso l’uso delle bombe, venivano puntualmente additati come disfattisti e come fiancheggiatori di Al Quaeda, e di conseguenza travolti dalla cieca ostinazione con cui i governi di Spagna, Inghilterra ed Italia sostenevano la nuova crociata americana.
Ma l’infelice esito del conflitto iracheno ha fatto esplodere in tutta la sua evidenza la macroscopica contraddizione che stava alla base del disegno strategico perseguito dalla White House: la guerra (intesa come fenomeno convenzionale di contrapposizione militare tra Stati) non può costituire lo strumento utile per fronteggiare un nemico senza nome né volto, e capace per giunta di colpire il suo avversario all’improvviso in contesti del tutto estranei al terreno di scontro.
E così, mentre Bin Laden rimane un fantasma inafferrabile ed Al Quaeda dimostra quotidianamente la sua immutata pericolosità, le guerre di Bush continuano a mietere vittime tra civili inermi e militari il più delle volte spinti a partecipare a pericolose operazioni non da elevati ideali patriottici ma dalla semplice e comprensibile prospettiva di alleviare il disagio che caratterizza la loro condizione nel paese d’origine.
Di fronte al crescente numero di morti cagionati dai conflitti attualmente in atto, agli orrori verificatisi nelle segrete di Abu Grahib e nel campo di prigionia di Guantanamo, ai proclami razzisti scagliati a reti unificate da uno scalcinato tribuno sciaguratamente investito di un incarico ministeriale, alle sporche logiche a cui troppo spesso la politica si adegua, sorge spontanea l’osservazione secondo cui, a cinque anni di distanza da quel maledetto 11 settembre, questa dimensione dell’Occidente democratico non rende onore ai caduti delle Torri Gemelle.
La loro memoria trova la giusta celebrazione in una realtà ben diversa: nella realtà del popolo della pace, disposto a riversarsi nelle strade e nelle piazze per dimostrare, attraverso un gesto semplice come l’esposizione di una bandiera arcobaleno, la propria contrarietà ad una politica radicalmente inidonea ad assicurare la diffusione della democrazia. La riaffermazione del valore della pace in confronto di tutte le strategie di potere basate su autentiche guerre di aggressione costituisce infatti il modo più efficace per ricordare quanti persero la vita in nome della libertà.

Carlo Dore jr.