lunedì, dicembre 10, 2007


LA “NUOVA STAGIONE” DELLE RIFORME E LE PROSPETTIVE DI REVISIONE DELLA COSTITUZIONE


L’insediamento di Walter Veltroni alla guida del Partito Democratico ha rappresentato il momento iniziale di una “nuova stagione” di dialogo tra maggioranza ed opposizione sui grandi temi delle riforme costituzionali e della legge elettorale. Ricorrendo alla stipulazione di un’intesa simile all’ormai famoso “patto della crostata” a cui fece seguito l’istituzione della c.d. “bicamerale – D’Alema” del 1998, i punti centrali della bozza elaborata dal Sindaco di Roma e dal Caimano in persona possono essere individuati nel superamento del bicameralismo perfetto, nell’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di nomina e revoca dei Ministri, nell’introduzione del meccanismo della sfiducia costruttiva, nell’introduzione di un sistema elettorale di tipo proporzionale caratterizzato da una (più o meno) elevata soglia di sbarramento.
Premesso che nessuna delle misure citate risulta di per sé incompatibile con i principi che devono governare il funzionamento di una democrazia moderna, la strategia impostata dal neo-segretario del PD impone la formulazione di due interrogativi fondamentali: esistono, in questa particolare fase della storia italiana, le condizioni politiche per la conclusione di un nuovo patto costituente? E soprattutto, le riforme di cui il Paese ha bisogno dipendono davvero da una modifica dell’attuale impianto costituzionale?
Identificandosi nella Costituzione la fonte preposta a governare il funzionamento delle istituzioni democratiche, a delineare gli equilibri tra i vari poteri dello Stato ed a disciplinare il rapporto tra libertà del cittadino e autorità statuale, l’approvazione di una Carta Fondamentale è sempre preceduta da un patto attraverso cui le varie forze politiche operanti in un determinato momento storico manifestano la loro adesione ad un sistema di principi e valori condivisi.
Posto che, nel lontano 1948, l’esistenza di tale substrato ideologico e culturale era assicurato dall’adesione dei partecipanti all’Assemblea Costituente ai valori della Resistenza e della lotta partigiana, un simile substrato di principi condivisi non contraddistingue, a nostro avviso, la stagione politica attuale. L’esperienza della legislatura appena conclusa conferma infatti come i democratici dell’Unione sono quotidianamente costretti a rapportarsi ad una destra caratterizzata dalla presenza di alcune componenti che solo negli ultimi anni hanno deciso di accogliere in toto i presupposti del vigente patto costituzionale e dall’azione di un leader il quale ha più volte manifestato la tendenza a preferire il decisionismo dell’uomo solo al comando alle dinamiche proprie della dialettica democratica.
Peraltro - risultando obiettivamente poco riguardoso ogni paragone tra i vari Berlusconi, Schiffani, Pili e Bondi e uomini del calibro di De Gasperi, Dossetti, e La Pira - , appare evidente come, al momento, non sia possibile rinvenire nella mediocrità del panorama politico generale quelle menti illuminate in grado di incidere con l’adeguata sensibilità sugli assetti istituzionali che caratterizzano la Seconda Repubblica.
Tutto ciò chiarito, venendo al secondo degli interrogativi inizialmente prospettati, non può sfuggire come questa rinnovata intesa raggiunta tra i poli curiosamente coincide con il sostanziale accantonamento di alcuni importanti disegni di legge, la cui approvazione appariva come un momento centrale per l’attuazione del programma elettorale della coalizione di governo.
E così, mentre la proposta elaborata da Furio Colombo per regolamentare in maniera definitiva la materia del conflitto di interessi è stata bollata dagli stessi dirigenti del Pd come un inutile tentativo di “demonizzazione dell’avversario”, il ddl Gentiloni relativo al riordino del sistema radio-televisivo sembra irreversibilmente incagliato nelle more delle procedure parlamentari.
Se si considera inoltre che le “leggi-vergogna” continuano a dispiegare i loro nefasti effetti in seno all’ordinamento e che – indipendentemente da ogni prospettiva di revisione costituzionale– l’approvazione di una singola norma sarebbe sufficiente per determinare la riviviscenza della legge elettorale in vigore prima dell’imposizione del porcellum, Veltroni dovrebbe prendere coscienza di una semplice realtà di fatto: la vocazione riformista di un partito si manifesta attraverso la sua capacità di elaborare una strategia ispirata non già alla semplice conservazione di fragili equilibri e di eterne rendite di posizione, ma alla necessità di affrontare con serietà e decisione le grandi sfide che il Governo del Paese ogni giorno propone.
Individuandosi nella normale attività legislativa della maggioranza parlamentare lo strumento utile per l’attuazione di siffatta strategia, appare evidente come l’avvento della “nuova stagione” di riforme invocata dal Sindaco di Roma prescinde del tutto da ogni modifica di quell’impianto costituzionale di cui gli elettori hanno, attraverso il referendum del giugno 2006, confermato l’assoluta attualità.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

mercoledì, novembre 28, 2007


UNITA’ A SINISTRA: DIVAGAZIONI SUL TEMA.

L’imminente convocazione degli “Stati generali della sinistra italiana” impone una approfondita riflessione sui presupposti, gli obiettivi e le finalità che devono caratterizzare la fase costituente del soggetto politico in cui sono destinate a confluire le principali forze progressiste del Paese.
Posto che questa riflessione prende inevitabilmente mosse dalle ben note vicende che hanno caratterizzato la nascita del PD e la formazione dei gruppi dirigenti del partito derivante dalla fusione delle componenti maggioritarie di DS e Margherita, occorre preliminarmente riconoscere a Veltroni il merito di essere riuscito a mobilitare oltre tre milioni di militanti a sostegno di un progetto allo stato indecifrabile, trasformando le primarie dello scorso 14 ottobre in un reale momento di partecipazione democratica. Tuttavia, l’indubbia intelligenza e le notevoli doti di comunicatore proprie del Sindaco di Roma non possono scalfire l’attualità del teorema proposto da Emanuele Macaluso nel suo (bellissimo) “Al Capolinea”: all’inizio di questa tribolata “nuova stagione”, il Partito Democratico può essere descritto solo attraverso negazioni.
Le incertezze dimostrate in ordine ai temi dei diritti civili, delle unioni di fatto e della laicità dello Stato (incertezze derivanti dalla necessità di garantire un minimo di equilibrio tra le posizioni “liberal” di Colombo e Morando e l’integralismo manicheo di Paola Binetti) dimostrano infatti che il PD non potrà essere un partito laico. Peraltro, l’incapacità di favorire la formazione di una nuova classe dirigente, in grado di avanzare proposte incisive sulle grandi questioni di rilevanza nazionale conferma che il PD non sarà un partito riformista. In altre parole, riprendendo i concetti recentemente espressi da Marco Follini nell’intervista in cui descriveva il nuovo soggetto politico attraverso la comparazione con la componente morotea della Democrazia Cristiana, è possibile concludere che il Partito Democratico non è e non sarà un partito di sinistra.
L’accettazione di una simile premessa impone alla componente diessina che ha scelto di non aderire alla svolta del Mandela Forum di offrire un punto di riferimento a quell’ampia fetta di popolo progressista che, pur avendo accettato la transizione dal marxismo alla socialdemocrazia, non intende rinunciare alla propria identità di sinistra.
Proprio la necessità di evitare che questa vasta area di consenso venga fatalmente assorbita dalla strategia veltroniana del partito-gazebo impone però che il progetto della “cosa rossa” non si esaurisca nella creazione di un semplice movimento di lotta, ostaggio dello sterile estremismo di quelle componenti dell’ala radicale de “l’Unione” le quali si sono dimostrate disposte –pur di assecondare alcune rivendicazioni settoriali- a sottrarre al sindacato la sua funzione di rappresentanza delle istanze dei lavoratori in seno alle Istituzioni.
Se si considera che gli assetti economici del XXI secolo hanno portato ad una sostanziale trasformazione delle rivendicazioni del c.d. “movimento operaio”, si comprende come il soggetto politico destinato a collocarsi a sinistra del PD deve presentarsi ai cittadini come una moderna forza di governo, in grado rendersi portatrice di quei valori di pace, uguaglianza e giustizia sociale su cui attualmente si fonda il socialismo europeo, perfetta congiunzione tra la questione morale di Berlinguer e Allende e la vocazione realmente riformista che caratterizza l’azione di Zapatero.
Di fronte alla deriva moderata conseguente alla nascita del PD, la sopravvivenza della sinistra italiana dipende proprio dalla sua capacità di proporre una concreta alternativa, ispirata non già a pulsioni nostalgiche ma ad un concreato progetto di rinnovamento della politica. E’ in questa esigenza di rinnovamento che si traduce quel “bisogno di sinistra” a cui gli Stati Generali del prossimo 8 dicembre dovrebbero essere funzionali: questa speranza non deve rimanere ancora una volta delusa.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

venerdì, novembre 16, 2007


COSSIGA, MORO E IL “ROMANZO DELLE STRAGI”


“Io so”, scriveva Pasolini in uno dei suoi ultimi articoli sul Corriere della Sera. “So i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato protezione politica a vecchi generali, a giovani neofascisti, anzi neonazisti, e infine criminali comuni”. Pasolini sapeva: conosceva i nomi degli autori di quella sorta di colossale Romanzo delle Stragi che è stata la storia italiana del secondo dopoguerra.
Pasolini sapeva, ma certi fatti agli occhi dell’opinione pubblica sono destinati a rimanere misteri. Ci sono misteri che feriscono, come quello della bomba di piazza Fontana; misteri che addolorano, come il deragliamento del Treno del Sole; misteri che provocano indignazione, come il malore attivo dell’anarchico Pinelli; misteri che fanno piangere, come l’attentato di Ustica; misteri che fanno discutere e che fanno pensare, come quello del sequestro di Aldo Moro.
Proprio al sequestro – Moro, alla pagina più nera del Romanzo delle Stragi è dedicata l’ultima intervista che Francesco Cossiga ha rilasciato al quotidiano di via Solferino. L’ennesima verità dell’ex picconatore ha suscitato lo sconcerto di tutti i più importanti storici contemporanei: sarebbe stato il PCI a condannare il leader democristiano, e non quella perversa connessione tra logge coperte, servizi deviati e funzionari compiacenti a cui la stampa di sinistra è solita alludere.
Ma, lasciando per un attimo da parte l’interminabile sequenza di richiami a spie venute dal freddo, sedute spiritiche, compagni che sbagliano e poliziotti in carriera, le parole del Presidente Emerito non contribuiscono a risolvere il vero enigma che questa vicenda ancora propone: quale interesse poteva spingere la spina dorsale dei comunisti italiani, del partito di Guido Rossa e Pio LaTorre a scarificare il principale sostenitore della strategia del compromesso storico all’interno del conclave di Piazza del Gesù? E quali poteri forti potevano invece trarre vantaggio dal fallimento di siffatta strategia?
La soluzione di questi interrogativi può essere ricercata proprio nella situazione politica italiana ed internazionale che si delinea all’inizio degli anni’70: il terremoto della contestazione sessantottina aveva messo in discussione le credenze, gli equilibri ed i dogmi ai quali la società italiana si era aggrappata fin dalla conclusione del conflitto mondiale; mentre un parte della tradizionale borghesia, scossa dalla tragedia del Vietnam, iniziava a guardare con diffidenza alla separazione del Mondo in blocchi, i fatti di Ungheria e le immagini della Primavera di Praga costituivano il momento iniziale del processo di disgregazione del mito della Grande Madre Russia.
Insomma, tanto i militanti della sinistra riformista quanto i primi eredi del marxismo cercavano ad ovest del muro di Berlino la loro nuova grande frontiera, invocavano un progetto capace di trasformare il PCI da eterna forza di opposizione in credibile realtà di governo. Consapevole del fatto che la via italiana al socialismo non poteva che basarsi sul dialogo tra “le masse operaie” e le “masse cattoliche”, Berlinguer seppe dare vita a questo progetto, proponendo un modello di partito ispirato ai principi dell’eurocimunismo e, come tale, affrancato dal gioco del Cremlino.
Individuando in Moro quella sponda in seno alla DC che pochi anni prima Salvador Allende aveva invano cercato nei cattolici di Aylwin, la strategia del compromesso storico favorì l’insediamento dei comunisti italiani al governo delle principali città italiane: la transizione era quasi compiuta, il mito del blocco moderato da contrapporre al pericolo rosso sembrava tramontare per sempre.
Ma nel bel mezzo della Guerra Fredda, l’idea di un Paese collocato al centro del Mediterraneo che si reggeva su un’intesa politica incompatibile con la dialettica armata tra “atlantismo” e “sovietismo” non incontrava, nel gelo di Mosca come al sole della California, il gradimento dei Signori del Pianeta. La reazione che i potentati ultraconservatori opposero al progetto di Moro e Berlinguer può essere riassunta in tre parole, che ancora oggi non hanno perso il loro suono sinistro ed inquietante: strategia della tensione.
E così, mentre una loggia nera, molto segreta e molto potente, costituiva una sorta di Stato nello Stato reclutando ministri, militari, giornalisti ed imprenditori affamati di successo, le bombe nelle piazze, le stragi del terrorismo neofascista, i proiettili delle BR appaiono ai nostri occhi non come la conseguenza dell’imperversare di qualche cellula impazzita, ma come le fasi di un progetto eversivo, volto a pregiudicare il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche.
Il sequestro - Moro costituisce il momento conclusivo di questa triste stagione, il degno finale del Romanzo delle Stragi. La morte del Presidente della DC non si esaurisce infatti in un semplice e brutale atto criminoso: via Cateani rappresenta in verità la fine di un progetto politico, la restaurazione di quel sistema imperfetto che vedeva il PCI confinato all’opposizione dal blocco moderato a cui si è in precedenza fatto cenno, e che poi troverà la sua fine nel ciclone di Mani Pulite. Ma se è vero che il delitto – Moro è in realtà un delitto “contro” il compromesso storico, l’ultimo teorema di Cossiga non può che risultare del tutto privo di fondamento.
Tuttavia, questa ennesima, incontrollabile sequenza di dati, riferimenti e aneddoti non riesce ad offuscare il significato delle parole di Pasolini. Forse era proprio in quel manipolo di Capitani Coraggiosi a cui per anni fu riconosciuto il merito di avere salvato l’Italia dall’incubo dei caroselli cosacchi in Piazza San Pietro che il poeta delle “ceneri di Gramsci” avrebbe suggerito di ricercare gli artefici della strategia della tensione, i veri autori del nostro Romanzo delle Stragi.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

martedì, novembre 06, 2007


QUELL’ISOLA A GRENADA…


La festa organizzata da alcuni militanti dell’UDC per celebrare la rinnovata armonia che sembra al momento regnare tra le varie componenti della CDL ha costituito l’occasione che Berlusconi attendeva per scatenare una nuova invettiva contro il Governo – Prodi e la maggioranza che lo sostiene.
Dopo avere intonato, anche senza l’accompagnamento del fido Apicella, la consueta ed abusata litania sui brogli elettorali, sulle grandi opere sabotate dalla furia bolscevica, sul vantaggio abissale assicurato al su partito dall’ennesimo sondaggio americano, il demiurgo di Arcore è giunto ad identificare nell’Esecutivo in carica il vero responsabile del massacro di Tor di Quinto, descritto come la logica conseguenza delle fallimentari politiche sull’immigrazione impostate dall’Unione in questa prima fase della legislatura.
Di fronte all’entusiasmo della platea scudocrociata, il Caimano ha persino ammesso, tra la commozione generale, di essersi trovato, a causa della rivoluzione comunista verificatasi in quel di Grenada, nell’impossibilità di concludere l’acquisto dell’isoletta caraibica in cui intendeva ritirarsi a vita privata dopo la debacle elettorale subita per mano dei feroci companeros italiani.
E così, mentre l’ex premier medita sull’opportunità di affidare a statisti del livello di Mauro Pili o Vittoria Brambilla il compito di elaborare nuove strategia sul problema della sicurezza dei cittadini, Gianfranco Fini assiste indifferente all’azione delle squadre di fascisti in doppio petto che, negli ultimi giorni, hanno imperversato per Roma, dando vita ad una sorta di furiosa caccia all’immigrato.
Tuttavia, fermo restando che il tentativo diretto a trasformare un tragico fatto di cronaca nera in strumento di lotta politica costituisce un’operazione degna non di una evoluta democrazia europea ma della più feroce repubblica delle banane, è quantomeno lecito chiedersi come quelle stesse forze politiche le quali , nel corso degli ultimi cinque anni, hanno dimezzato i termini di prescrizione anche con riferimento a reati di particolare pericolosità sociale, hanno svolto un ruolo determinante nell’approvazione della legge sull’indulto, hanno di fatto legalizzato la criminalità economica possano credibilmente proporsi come garanti della pax sociale.
Premesso che, nel corso della seconda repubblica, la scena politica italiana ha costituito terra di conquista per cortigiani del potere, imprenditori senza scrupoli, nani, ballerine e “facce di bronzo” di varia provenienza ed estrazione, l’ultima performance verbale del Caimano deve costituire un utile spunto di riflessione per quei fautori della nuova stagione veltroniana che, solo lo scorso aprile, ne applaudivano a scena aperta l’ingresso all’ultimo congresso dei DS. Nel confronto tra le due metà del Paese, tra il popolo del Palavobis e i “Dell’Utri boys”, tra i ragazzi di Locri e le ronde di Borghezio, i militanti delle varie forze che afferiscono a “l’Unione” devono comprendere che questa destra arrogante e forcaiola, affarista ed amorale rappresenta non un leale interlocutore con cui instaurare un proficuo confronto sulle grandi questioni di rilevanza nazionale, ma un avversario da sconfiggere sul piano della serietà dell’azione di governo, dei contenuti e delle scelte operative.
Al limite, sarebbe auspicabile che i partiti della c.d. sinistra radicale intercedessero presso il governo di Grenada per facilitare una riapertura delle negoziazioni dirette all’alienazione dell’isoletta a cui si è in precedenza fatto riferimento: persino gli infallibili sondaggisti americani sono concordi nel ritenere che, se l’ala più estrema dell’attuale maggioranza di governo consentisse a Berlusconi, Fini, Pili e Brambilla di trasferire una volta per sempre su una spiaggia dei Carabi la loro corte di nani, ballerine e squadristi in doppio petto, mezza Italia almeno si colorerebbe di rosso.

Carlo Dore jr.

domenica, ottobre 28, 2007



QUALI PROSPETTIVE PER SINISTRA DEMOCRATICA IN SARDEGNA?
(contributo destinato al sito www.manifestosardo.org )

L’imponente mobilitazione di popolo avvenuta in occasione delle primarie del Partito Democratico e l’altrettanto straordinaria partecipazione di iscritti e militanti delle varie forze della sinistra italiana alla manifestazione contro il precariato che ha avuto luogo lo scorso 20 ottobre impongono una riflessione sulle prospettive e gli obiettivi alla cui attuazione deve essere ispirata la fase costituente di Sinistra Democratica, tanto a livello nazionale quanto a livello locale.
Le due situazioni a cui ho fatto riferimento si prestano infatti, a mio sommesso avviso, ad una lettura unitaria: i tre milioni di persone che hanno preso parte alle elezioni per la formazione delle assemblee costituenti del PD si sono (in massima parte) rese espressione di quella fortissima esigenza di rinnovamento che attraversa il Paese in questa delicata fase storica. Esiste infatti la necessità di affermare una nuova concezione della politica, meno soffocata dalle trame delle segreterie e più aperta alle istanze che quotidianamente promanano dai principali settori della società civile.
Per contro - indipendentemente dalle legittime riserve di quanti hanno ritenuto inopportuno il ricorso allo strumento della piazza per invocare una svolta in senso progressista nell’azione dell’Esecutivo -, la manifestazione del 20 ottobre ha messo in rilevo ancora una volta come all’appena descritta esigenza di cambiamento della politica si sovrapponga un ineludibile “bisogno di sinistra”. Quel bisogno di sinistra che dovrebbe spingere le componenti più radicali dell’attuale maggioranza di governo ad abbandonare una volta per sempre la loro restrittiva dimensione di “partito di lotta” per contribuire (favorendo un confronto serrato all’interno della base sui grandi temi del lavoro, della giustizia, della questione morale, degli equilibri internazionali) alla creazione di un’unica forza progressista moderna e plurale, in grado di rendersi espressione dei principi su cui si fonda il socialismo del XXI secolo.
Modernità e partecipazione, rinnovamento e identità: Sinistra Democratica è il punto di partenza di siffatto percorso unitario, il naturale punto di riferimento per quanti non si riconoscono nelle logiche che hanno finora caratterizzato la formazione del Partito Democratrico.
Le oscure vicende che in Sardegna hanno fatto da sfondo all’ascesa di Antonello Cabras alla segreteria del nuovo partito confermano infatti come gli eterni gruppi di potere su cui il senatore diessino ha potuto contare nella corsa contro Soru risultino per forza di cose incompatibili con qualsiasi strategia di riforma della politica: il rigido verticismo, le lotte intestine tra i vari capi-bastone, i tatticismi e i giochi di potere che hanno causato l’emorragia di consensi subita dai DS sardi negli ultimi dieci anni rimarranno una costante strutturale del nuovo soggetto politico, un triste connotato della nuova stagione veltroniana.
Tuttavia, ora che Calvisi, Cabras, Cherchi e Milia hanno deciso di ammainare definitivamente la bandiera rossa per ritrovarsi sotto le indefinibili insegne del PD, i militanti diessini che nell’isola hanno dato vita a Sinistra Democratica si trovano già dinanzi ad una svolta cruciale. Possono rassegnarsi alla prospettiva di dare vita ad una sorta di “Quercia formato bonsai”, all’ennesimo piccolo partito creato per assecondare le ambizioni di alcuni noti professionisti delle aule consiliari e le velleità di carriera di qualche giovane boy scout maldestramente riciclatosi nel ruolo di generale senza truppe. Oppure, possono impegnarsi nell’opera di “rottura e aggregazione” necessaria per favorire, anche a livello locale, l’attuazione di quel processo di unificazione delle varie realtà progressiste di cui Mussi e Salvi da tempo avvertono la necessità.
Il cambiamento della politica dipende in gran parte dall’unità della sinistra: questa speranza non può rimanere ancora una volta delusa.

Carlo Dore jr.

giovedì, ottobre 18, 2007


CRONACHE MARZIANE


Nelle intenzioni dei promotori, il Partito Democratico dovrebbe costituire uno straordinario fattore di rinnovamento nel panorama politico italiano ed europeo, uno strumento in grado di favorire l’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale del paese. In questo messaggio hanno dimostrato di credere i tre milioni di simpatizzanti che, riaffermando ancora una volta i valori della buona politica in confronto delle vuote elucubrazioni dei cantori dell’antipolitica, hanno affollato i seggi delle primarie per conferire ai dirigenti della varie forze del centro-sinistra l’ennesima (e forse immeritata) delega in bianco.
Tuttavia, le tristi vicende che hanno caratterizzato l’ascesa di Antonello Cabras alla segreteria regionale del nuovo soggetto politico non risultano propriamente compatibili con questa prospettiva di cambiamento. Ora, mentre il conclave degli oligarchi di DS e Margherita è riunito in quel di via Emilia per celebrare l’incoronazione del nuovo deus ex machina della politica locale, per gli oppositori storici del progetto volto alla creazione del PD non rimane che lo spazio per alcune considerazioni al veleno.
Presentatosi agli elettori come il campione dell’antipolitica benedetto dai vecchi gauleiter della Casta nostrana, Mr. Tiscali ha per tre anni gestito la Regione come un semplice ramo della sua diversificata impresa, assecondato in questo senso dal totale immobilismo dei principali partiti della coalizione, incapaci di opporre una reazione allo strapotere del Presidente anche di fronte all’ingiustificata ed ingiustificabile rimozione di un assessore del calibro di Tonino Dessì, esponente storico della Quercia sarda ed autentico ispiratore delle linee principali del programma di Sardegna Insieme.
Insomma, le ambizioni dell’Uomo solo al Comando hanno a lungo coinciso con le trame dei baroni delle segreterie, impegnatisi nella creazione del Partito Democratico proprio per conservare intatta la rete di privilegi, clientele e sfere di influenza che del loro potere costituisce il sostrato fondamentale.
Tuttavia, fedele al principio secondo cui il monarca assoluto non riconosce alcuna autorità superiore, Soru ha osato spezzare gli equilibri individuati da Rutelli e Fassino attraverso la predeterminazione dei segretari regionali del nuovo soggetto politico, imponendo la propria candidatura per la guida dell’Ulivo sardo in violazione delle direttive che provenivano da Piazza Santi Apostoli.
Confidando nella semplice forza del consenso e dei numeri che dal consenso derivano, il Governatore ha preso atto con indifferenza della discesa in campo di Antonello Cabras, animale politico di lungo corso capace di dominare con facilità le dinamiche che governano la vita dei Palazzi del potere. Colpito a morte a causa di questo errore strategico, ha finito per forza di cose con l’essere stritolato dal perverso sodalizio tra le eterne nomenclature dei campioni del nuovo riformismo e le truppe cammellate della destra post-fascista, recatesi in massa alle urne nella speranza di contribuire all’apertura di una crisi di governo impensabile solo lo scorso aprile.
Così, mentre la quiete plumbea della ragion di Stato sembra prevalere sulle polemiche relative alle irregolarità del voto (risultando ora la sopravvivenza della Giunta appesa al filo rosso della conferma da parte del corpo elettorale dell’impresentabile legge statutaria), di fronte alle cronache marziane delle gesta di un gruppo dirigente che si dimostra disposto a barattare la stabilità dell’Esecutivo con la conservazione di un posto di potere –, i militanti del centro-sinistra sono tenuti ad interrogarsi una volta per tutte sull’idoneità di tale gruppo dirigente a rendersi interprete della straordinaria istanza di buona politica proposta dalla parte sana del popolo delle primarie.
Un leader che fonda la propria autorevolezza sulle logiche trasversali degli accordi clandestini raggiunti con gli esponenti delle stesse forze politiche che lo scorso sabato hanno invaso Roma con croci celtiche e saluti romani non può infatti considerarsi compatibile con quella prospettiva di cambiamento della res publica alla cui attuazione dovrebbe (nelle intenzioni promotori) essere funzionale il Partito Democratico.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

sabato, ottobre 13, 2007


PARTITO DEMOCRATICO: UNA (BRUTTA) STORIA ITALIANA

In un articolo recentemente apparso su “L’Unità”, Maurizio Chierici ha proposto una sorta di ardita comparazione tra la situazione politica dell’Italia di oggi e la letale rete di ipocrisie, settarismo e giochi di potere che, nel non lontano 1973, contribuì a far scivolare il Cile verso la dittatura di Pinochet. La morale di questo appassionante scritto può essere così sintetizzata: al pari dei massimalisti Carlos Altamirano, coloro i quali dichiarano di volere “tutto e subito”- invocando l’attuazione di scelte coraggiose peraltro in linea con quanto previsto nel programma elettorale dell’Unione – finiranno non solo col paralizzare la lenta azione riformatrice impostata dal Governo-Prodi nella prima fase della legislatura in corso, ma anche col favorire il definitivo consolidamento del potere nelle mani di quel manipolo di squadristi in doppio petto che tuttora rappresenta lo zoccolo duro della destra post-fascista.
Il ragionamento di Chierici può, a mio sommesso avviso, costituire lo spunto per procedere alla formulazione di alcune riflessioni di ordine generale nel giorno in cui sono convocate le primarie per la Costituente del nuovo Partito Democratico, più volte descritto come la definitiva affermazione dell’antipolitica sui grandi ideali che hanno infiammato il ‘900.
Se infatti da un lato risulta del tutto condivisibile l’assunto in base al quale il radicalismo fine a se stesso (che inopinatamente spinge due importanti componenti della maggioranza parlamentare ad agitare lo spettro della piazza in confronto dell’Esecutivo, al fine di rimettere in discussione un protocollo sul welfare approvato dai lavoratori quasi all’unanimità) risulta per forza di cose incompatibile con qualsiasi progetto di rinnovamento, appare d’altro lato incontestabile l’affermazione secondo cui le scelte finora assunte dai dirigenti dei principali partiti del centro-sinistra non possono considerarsi ispirate al perseguimento di quella netta prospettiva di discontinuità invocata a tutta forza tanto dai ragazzi di Locri quanto dai metalmeccanici di Mirafiori.
In questo senso - ricordando le meravigliose esperienze del Palavobis, della mobilitazione movimentista e del “resistere, resistere, resistere!” urlato da Borrelli in faccia al Caimano in persona – il popolo progressista attendeva dall’Ulivo, in ordine alle materie della giustizia e della libertà di informazione, quella svolta radicale promessa da Prodi durante la campagna elettorale. Senza far ricorso alla logica del “tutto e subito”, gli elettori si trovavano nella condizione di poter ragionevolmente pretendere che l’abrogazione delle leggi-vergogna, l’istituzione di una commissione di inchiesta per accertare la verità sui fatti da “macelleria messicana” verificatisi a Genova nel 2001, l’elaborazione di una riforma dell’ordinamento giudiziario idonea ad assicurare la piena indipendenza dei magistrati impegnati in inchieste politicamente scottanti, l’immediata reintegrazione dei giornalisti epurati attraverso l’Editto di Sofia rappresentassero le priorità assolute nell’agenda del nuovo Governo.
Ciò malgrado, questa speranza non è stata assecondata a livello di scelte operative: come è noto, all’approvazione della scellerata legge sull’indulto non ha fatto seguito l’espunzione dal sistema delle leggi ad personam, ma l’entrata in vigore di una riforma del pianeta giustizia che - subordinando al suo trasferimento ad altra regione il passaggio di un magistrato dalla funzione giudicante a quella requirente– di fatto reintroduce nell’ordinamento quel sistema di separazione delle carriere di cui gli avvocati Ghedini e Pecorella avevano più volte affermato la necessità.
Per contro, mentre il disegno di legge che dovrebbe disciplinare il conflitto di interessi rimane insabbiato nelle more della procedura parlamentare, alcuni importanti membri dell’Esecutivo non hanno esitato a bollare come esempio di “tv-spazzatura” la trasmissione condotta da Michele Santoro, tradizionale icona del giornalismo di sinistra e, come tale, principale vittima della censura berlusconiana.
Tuttavia, dimostrandosi indifferenti tanto al malcontento che attraversa la Locride quanto al preoccupante favore con cui l’opinione pubblica accoglie le cieche invettive di un ex cabarettista riciclatosi come fustigatore dei costumi, i dirigenti di DS e Margherita non hanno ritenuto opportuno porre i temi appena richiamati al centro del dibattito relativo alla costituzione del nuovo soggetto politico, di fatto esauritosi in uno sterile confronto sulla determinazione delle candidature e sulla spartizione delle varie sfere di influenza.
Ma un partito che nasce dall’alto, ingessato da un sistema di liste bloccate utile a garantire ai vari capi-bastone il pieno controllo del processo costituente, non può – proprio in quanto privo di un programma elaborato accogliendo le indicazioni che quotidianamente provengono dalla base - in alcun modo favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.
Di fronte all’inconsistenza della politica deideologizzata di Veltroni e Letta, alle ambizioni di Soru ed ai tatticismi di Antonello Cabras, coloro i quali invocano la puntuale attuazione del programma elettorale non possono essere semplicemente liquidati come gli estremi depositari del massimalismo di Altamirano, come gli ultimi irriducibili gruppettari impegnati nell’eterna ricerca di un altro ‘68.
Gli esponenti dell’ampia fetta di elettorato progressista che, rifiutando di conformarsi alle direttive provenienti da quella ristretta cerchia di oligarchi responsabile di avere favorito l’ascesa del Caimano a Palazzo Chigi, hanno scelto di non aderire al nuovo soggetto politico rappresentano in verità la parte migliore del popolo della sinistra. Essi continuano a pretendere dalle istituzioni quelle risposte concrete ai reali problemi della società italiana che i campioni del nuovo riformismo, oggi impegnati nella fase costituente del Partito Democratico, si sono finora rifiutati di affrontare.

Carlo Dore jr.

sabato, settembre 29, 2007




MA IL REFERENDUM NON E’ UN REGICIDIO

Grande successo ha incontrato negli ultimi tempi il teorema in base al quale il referendum sulla legge statutaria costituirebbe, per la stabilità della Giunta – Soru, una tappa ancor più insidiosa delle primarie per la segreteria del Partito Democratico sardo, in cui il Governatore è impegnato in prima persona.
In pratica, i sostenitori delle ragioni del “no” vengono descritti come un gruppetto di congiurati che, forti della benedizione di Mauro Pili e di Antonello Cabras, si sarebbero dati appuntamento poco dopo le idi di ottobre per attuare il primo grande regicidio della storia dell’Autonomia, ponendo fine all’esperienza di governo di Mr. Tiscali.
Premesso che non intendiamo prendere posizione in ordine al dibattito relativo ai vari profili tecnico-giuridici che caratterizzano la suddetta legge (dibattito condotto sinora con intelligenza e lucidità da eminentissimi studiosi del diritto pubblico), riteniamo però di poter offrire una differente lettura dei fatti che scandiscono l’evolversi di questa delicata fase della politica sarda.
Contestando l’impianto di fondo della legge che definisce gli assetti fondamentali della forma di governo della Regione, quegli intellettuali di sinistra che sono confluiti nel movimento referendario non rappresentano né la classica “foglia di fico” necessaria ad occultare le ambizioni revansciste di alcuni tra i più impresentabili sodali del Cavaliere di Arcore (improvvisatisi paladini delle istituzioni democratiche dopo avere per anni difeso a spada cieca una situazione di conflitto di interessi non configurabile nemmeno presso la più feroce Repubblica delle banane), né il trampolino utile ad assecondare le trame dei tanti capi-bastone di DS e Margherita, mobilitati dai partiti di riferimento per frenare l’ascesa di Soru alla segreteria del PD.
Posto infatti che le critiche finora avanzate dai vari comitati per il “no” sono riferite ad un provvedimento che non promana esclusivamente dal Capo dell’Esecutivo (in quanto approvato da un’ampia maggioranza consiliare), non possiamo non rilevare come, se un disegno regicida esiste, questo matura al chiuso delle stanze dei bottoni del nuovo soggetto politico, dove le logiche spartitorie ed i giochi di potere non lasciano spazio alle parole vellutate cui Veltroni fa quotidianamente ricorso per descrivere il “suo” Partito Democratico.
Costituisce ormai una verità incontestabile l’affermazione secondo cui la ripartizione delle cariche all’interno del nascente PD coincide con la mera fase attuativa di una strategia (da completare mediante la convocazione di primarie facilmente controllabili grazie al perverso sistema delle liste bloccate) già elaborata prima della conclusione della stagione congressuale. L’obiettivo unico a cui tende questa complessa opera di ingegneria politica deve essere individuato nella conservazione delle storiche nomenclature, integrate per l’occasione da alcuni autorevoli esponenti dei vari settori della società civile, magnifiche icone di un progetto di rinnovamento destinato a rimanere pura astrazione.
Avendo in Sardegna la candidatura di Soru (ennesima scelta tanto legittima quanto improvvida da parte di un presidente - imprenditore dimostratosi troppo spesso indifferente alle dinamiche che il suo nuovo ruolo istituzionale gli impone di osservare) in parte sparigliato gli equilibri delineati attraverso siffatta strategia, l’intera casta dei Signori dei Partiti si è ricompattata per sostenere la discesa in campo di Antonello Cabras, suo malgrado cooptato per una corsa all’ultimo voto a cui avrebbe volentieri fatto a meno di partecipare.
Morale: siamo al regicidio. A meno che il successo del Governatore alle primarie del 14 ottobre non si traduca in un vero e proprio plebiscito a suo favore, egli si troverà a governare una struttura impazzita, risultando quotidianamente esposto alle manovre di disturbo che la minoranza interna porrà in essere al solo scopo di limitarne l’azione. Per contro, è abbastanza semplice prevedere le conseguenze derivanti dall’eventuale affermazione del Senatore ex socialista: di fatto sfiduciato dal principale partito della coalizione, il Presidente della Giunta non solo vedrebbe preclusa la possibilità di un secondo mandato, ma sarebbe costretto ad affrontare l’ultima fase della legislatura convivendo con lo spettro di una crisi di governo neanche ipotizzabile pochi mesi fa.
Ma se Soru deve cadere, stritolato da un gioco di potere al quale ha inopinatamente deciso di partecipare senza conoscere le regole utili a controllarlo, la responsabilità del fallimento della coalizione di centro-sinistra non potrà certo essere imputata a quanti si sono legittimamente opposti all’entrata in vigore di una legge di cui non condividevano l’impianto fondamentale. Qualunque situazione di delinei alla fine di ottobre, il referendum non può essere descritto come un regicidio.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

martedì, settembre 25, 2007


LEGGE ELETTORALE: VIVA IL MATTARELLUM!


Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è quasi completamente monopolizzata dalle vicende relative alla formazione delle liste per le primarie del Partito Democratico, il problema della riforma della legge elettorale risulta attualmente relegato ai margini del dibattito politico.
Eppure, l’individuazione di un sistema in grado di garantire rappresentatività e stabilità di governo costituisce non solo uno dei passaggi decisivi per verificare la compattezza dell’attuale maggioranza parlamentare, ma anche una delle scelte fondamentali per il futuro della nostra democrazia, al momento sottoposta al “fuoco incrociato” derivante dalla necessità di smantellare la “porcata” di Calderoli e di scongiurare contemporaneamente il successo del “referendum – truffa” promosso da Segni e Guzzetta. Tuttavia, la necessità di una simile riforma collide con le trasversali logiche di autoconservazione che animano le scelte delle varie componenti del sistema dei partiti, le quali mirano per forza di cose a conseguire il totale controllo della vita politica del Paese.
Senza scadere nel greve qualunquismo proprio dei sermoni di Beppe Grillo, rappresenta ormai una verità inconfutabile l’affermazione secondo cui la ratio della legge elettorale vigente deve essere esclusivamente individuata in un semplice gioco di potere: attraverso l’eliminazione dei collegi uninominali e l’introduzione di un sistema proporzionale corretto (in grado, come tale, di favorire l’azione dei partiti minori), la Casa delle Libertà intendeva sfruttare a proprio vantaggio la condizione di estrema frammentarietà che caratterizzava la composizione del centro-sinistra, volutamente configurato come una coalizione tanto ampia da “far coesistere Mastella e Bertinotti”.
Fermo restando che una modifica della legge elettorale posta in essere quattro mesi prima della conclusione della legislatura verrebbe descritta come una pratica di stampo golpista anche nella più arretrata repubblica delle banane, si deve tristemente rilevare come l’Unione abbia tutto sommato condiviso i principi ispiratori del perverso disegno di Calderoli. La presenza delle liste bloccate è stata infatti utile ad assicurare un seggio in Parlamento tanto agli storici “capi-bastone” di DS e Margherita (evidentemente terrorizzati dalla prospettiva di sottoporsi al giudizio diretto degli elettori) quanto ai più autorevoli esponenti di quell’ampia cerchia di giovani-vecchi, convinti di poter fondare unicamente sulla qualifica di delfini della Casta il loro cursus honorum.
Risultando la correttezza di questa mia ultima osservazione confermata in toto dall’applicazione dell’appena descritto sistema delle liste bloccate nelle primarie convocate per la formazione dell’assemblea costituente del PD, si è già avuto modo di precisare come il buon esito dell’ormai famoso referendum “Segni –Guzzetta” finirebbe paradossalmente con l’aggravare le storture del sistema attuale.
Se infatti da un lato il meccanismo elaborato dagli illuminati sostenitori del movimento referendario non determina la reintroduzione delle preferenze riferite al singolo candidato, d’altro lato - favorendo l’aggregazione delle varie forze politiche in grandi “macroliste”, di fatto qualificabili come meri cartelli elettorali - tale meccanismo priva l’elettore del (seppur minimo) potere di accordare il proprio voto al partito che meglio rappresenta i suoi orientamenti.
Posto quindi che deve essere identificata nel Parlamento la sede più adeguata per procedere all’elaborazione della nuova legge elettorale, professionisti della politica e studiosi del diritto costituzionale sono da tempo alla ricerca di una soluzione che risulti “il più possibile condivisa”, dando luogo alla sintesi delle posizioni espresse da maggioranza e opposizione.
Tuttavia, di fronte alle machiavelliche opere di ingegneria giuridica che talvolta vengono proposte all’attenzione dell’opinione pubblica, è stato correttamente rilevato come l’approvazione di un'unica disposizione ( riassumibile nel principio in base al quale “deve considerarsi abrogata la legge elettorale attuale, con conseguente riviviscenza della legge preesistente”) condurrebbe alla reintroduzione di quel sistema che, prima di essere superato dalla “porcata” di berlusconiana memoria, aveva per due legislature garantito la formazione di maggioranze teoricamente in grado di sostenere con incisività l’azione dell’Esecutivo.
Sospendendo per un istante le discussioni su proporzionale alla tedesca e doppio turno alla francese, è forse possibile individuare proprio nel vecchio Mattarellum quel criterio in grado di garantire stabilità e rappresentatività, di rendere effettiva la corrispondenza tra determinazione degli eletti e volontà degli elettori.

Carlo Dore jr.

venerdì, settembre 14, 2007





NE’ COL PRINCIPLE, NE’ CON GLI OLIGARCHI

Scaduto il termine per la presentazione delle liste, il brutto film sulla non certo epica sfida per la leadership del Partito Democratico Sardo sembra finalmente giunto ai titoli di coda. Alea iacta est: dopo avere a lungo meditato sull’opportunità di attraversare il Flumendosa, Antonello Cabras ha scelto di sfidare Soru in una corsa all’ultimo voto che non presenta prospettive di vittoria ma solo differenti margini di sconfitta.
Se infatti da un lato il successo di Mr. Tiscali consoliderebbe irreversibilmente il primato del Presidente sulle varie forze della coalizione (precludendo alla maggioranza l’esercizio di qualsiasi potere di controllo sull’attività della Giunta), d’altro lato un’affermazione del Senatore diessino costituirebbe il momento iniziale di una nefasta fase di restaurazione volta a rimettere il controllo della politica isolana nelle mani di quella stagionata cerchia di Signori dei Partiti, già indirettamente responsabili dell’ascesa dell’improponibile Mauro Pili al piano nobile di Villa Devoto.
E così, mentre i principali esponenti del nuovo soggetto politico sono impegnati nella laboriosa opera di spartizione delle segreterie regionali e provinciali, spetta a quella sinistra “populista ed antistorica” – la quale ha scelto di non aderire al progetto del PD proprio per non essere a costretta a schierarsi “né col Principe, né con gli Oligarchi”- il compito di rendersi espressione della strisciante condizione di disagio in cui versa quell’ampia fetta di elettorato progressista che attendeva dall’Unione (in ordine ai grandi temi della giustizia, del lavoro, della sicurezza e della solidarietà sociale) una netta inversione di tendenza rispetto alle determinazioni assunte dal Caimano durante i suoi cinque anni di regno.
Ebbene, la strategia finora imposta al Governo dalla componente “riformista” della maggioranza non risulta integralmente funzionale a siffatta esigenza di cambiamento. Con particolare riguardo alla materia della giustizia - imponendo l’attribuzione del ministero di via Arenula ad un politico di lungo corso allevato in base ai principi della rigorosa e democristianissima dottrina del compromesso trasversale- , gli integralisti di centro che attualmente prospettano “alleanze di nuovo conio” per imprimere un’ulteriore svolta moderata alla politica della coalizione hanno inferto un colpo mortale alle speranze di quanti, tra il 2002 e il 2005, si sono mobilitati a difesa delle prerogative costituzionali della Magistratura alla cui stabilità Berlusconi attentava attraverso la predisposizione del ben noto sistema delle leggi ad personam .
Sulla base di una simile premessa, l’elaborazione di una serie di misure dirette a combattere la criminalità ed a garantire la sicurezza dei cittadini rappresenta una sorta di monumentale inno al paradosso, se valutata alla luce della precedente approvazione della legge sull’indulto e della mancata abrogazione della ormai famosa “legge Cirielli”, la quale, riducendo drasticamente i termini di prescrizione anche con riferimento a reati di particolare gravità, ha di fatto determinato la caducazione di una serie di processi da tempo istruiti.
Di fronte alla disaffezione manifestata dai cittadini nei confronti della politica intesa come arbitrario esercizio del potere, le sterili manifestazioni di estremismo che talvolta caratterizzano le scelte di Rifondazione Comunista non costituiscono tuttavia il percorso utile per avviare quella stagione di “deberlusconizzazione” del sistema – Italia invocata da Diliberto alla vigilia delle ultime elezioni. Prendendo atto una volta per sempre della inidoneità dei Fassino, dei D’Alema, dei Latorre e dei Cabras a portare avanti un autentico processo di rinnovamento, occorre invece che il popolo progressista favorisca la creazione di una nuova classe dirigente, in grado di farsi interprete delle istanze che la società civile quotidianamente propone.
In questo senso, figure del calibro di Nicola Tranfaglia e Margherita Hack, Marco Travaglio e Giancarlo Caselli, Paul Ginsborg e Furio Colombo potrebbero davvero costituire la migliore espressione di quella sinistra che, dimostrandosi tanto sensibile ai veri problemi del Paese quanto indifferente ai tatticismi che contraddistinguono l’azione dei Signori dei Partiti, ha scelto di opporsi sia ai Principi che agli Oligarchi.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

venerdì, agosto 31, 2007



CRONACHE DAL TITANIC

Il dibattito relativo alla leadership del Partito Democratico della Sardegna costituisce la migliore conferma dei timori di quanti, in seno ai DS, hanno condotto l’ultima campagna congressuale sostenendo che il progetto volto alla creazione del nuovo soggetto politico, lungi dal rispondere alle esigenze di rinnovamento continuamente richiamate dai sostenitori di Piero Fassino, fosse in realtà animato da mere logiche di potere.
E così, mentre Renato Soru si candida ad assumere il ruolo di dominus indiscusso del centro-sinistra sardo, i Signori dei Partiti temono che l’apertura di un confronto aperto con il governatore possa minare la stabilità di quella rete di privilegi, clientele e rendite di posizione che della famosa Casta rappresenta il fondamento.
In verità, la prospettiva di trasformare il dibattito in questione in una sorta di referendum sull’operato del Presidente della Giunta costituisce, a nostro avviso, un’operazione riduttiva e fuorviante: riduttiva, in considerazione del fatto che il suddetto confronto rischia alla lunga di risolversi in una sterile elencazione dei pregi e dei difetti che caratterizzano la figura di Mr. Tiscali; fuorviante, in quanto una riflessione così impostata sostanzialmente oblitera quello che è il grande equivoco che i progressisti sono tenuti a superare per proposi definitivamente quale credibile forza di governo.
Sostenuta da una notevole base di consenso, la candidatura di Soru asseconda le legittime aspettative di quell’ampia fetta di elettorato “deideologizzato” il quale (forse indifferente ai rischi che per la democrazia comporta l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani dell’Uomo solo al comando) dimostra di preferire l’efficiente decisionismo del presidente-imprenditore alle grandi passioni ed ai logoranti tormenti intellettuali che costituiscono l’essenza della militanza tradizionale.
Tuttavia, se non è possibile imputare a Soru il semplice fatto di “essere Soru” (precludendogli la partecipazione ad una competizione elettorale che egli è destinato a vincere quasi senza colpo ferile), deve viceversa essere evidenziata l’incapacità dei partiti dell’Unione di contrapporre un’alternativa efficace allo strapotere del Presidente, incapacità figlia illegittima di quel grande equivoco a cui in precedenza abbiamo fatto riferimento.
La capacità di rinnovarsi, infatti, costituisce il presupposto indefettibile di una politica che voglia rendere palese la propria “diversità”. La sinistra storicamente ha sempre manifestato una simile propensione al rinnovamento, consentendo la crescita dei suoi giovani quadri, ma una simile propensione deve, orma da troppo tempo, considerarsi esaurita.
Lo spirito di autoconservazione ha prevalso inesorabilmente sulla indispensabile tensione al rinnovamento della classe dirigente: “il sonno della ragione genera mostri”, insomma, e il sempre più dilagante sentimento nefasto dell’antipolitica rappresenta appunto il “mostro” generato da tale sonno.
Così ragionando, risulta difficilmente confutabile l’assunto in base al quale il PCI, malgrado l’eccessiva rigidità che contraddistingueva le strutture del suo apparato, si è sempre dimostrato in grado di catalizzare l’attenzione dei militanti sui grandi temi che animavano lo scontro politico (si pensi all’eccezionale mobilitazione in ordine alle battaglie sul divorzio o sull’aborto) anche grazie al contributo fornito da dirigenti capaci di impartire alle successive generazioni di iscritti una formazione politica degna di tale nome.
Per contro, i DS hanno in pochi anni dilapidato un simile patrimonio organizzativo ed ideologico, vittime di una inesauribile emorragia di consensi derivante dalle scelte assunte da un gruppo di vertice troppo assorbito da brutali giochi di potere per affrontare con la dovuta incisività i drammatici problemi di un Paese allo sbando.
I risultati di un simile status quo possono essere individuati proprio nei consensi ottenuti dagli imprenditori “prestati” alla politica, nell’astensionismo crescente, nel generale appiattimento che contraddistingue le attività delle sezioni, nella sconcertante passività con cui la platea dei tesserati ha avallato il processo distruttivo che di fatto priva la sinistra italiana di un partito di riferimento.
Per uscire dalle sabbie mobili in cui lo scontro tra l’antipolitica di Soru e la “politica politicante” di Antonello Cabras rischia di trascinare i progressisti sardi, occorre che i militanti delle forze nate dallo scioglimento della Quercia spezzino una volta per sempre l’intramontabile oligarchia dei professionisti della politica, per individuare (anche sulla base della straordinaria esperienza movimentista venuta in essere tra il 2002 e il 2004) proprio nel mondo delle associazioni, della cultura, dell’università e delle libere professioni i componenti della classe dirigente chiamata a guidare l’Unione ai prossimi appuntamenti elettorali.
L’Uomo solo al comando, i Signori dei partiti ed i delfini della Casta sono infatti gli orchestrali che dettano i tempi delle ultime danze sul Titanic, gli autori della triste colonna sonora che accompagna la deriva del centro-sinistra verso gli iceberg predisposti da Berlusconi per incantare gli illustri ospiti di Villa Certosa: è necessario che i membri dell’equipaggio si approprino del timone per neutralizzare il rischio di un ennesimo naufragio.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr

domenica, agosto 19, 2007




“COSA ROSSA”: QUALI PROSPETTIVE?


Le polemiche scaturite a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Gavino Angius a “L’Unità” (polemiche rese ancor più roventi dalla dura replica proposta da Rina Gagliardi attraverso le colonne di “Liberazione”) impongono una riflessione in ordine alle prospettive ed alle modalità di realizzazione della c.d. “Cosa rossa”, la forza unitaria dei progressisti italiani destinata a collocarsi “a sinistra” del nascente Partito Democratico.
Le argomentazioni del Senatore di SD si basano infatti su una premessa difficilmente confutabile, anche in considerazione dei recenti outing di due integralisti di centro come Follini e Rutelli: il Partito Democratico non potrà mai essere qualificato come un partito di sinistra, ma come una realtà “di centro che guarda a sinistra”, in grado – grazie anche all’impatto mediatico derivante dalla presenza di un leader del calibro di Veltroni – di garantire ai gruppi dirigenti delle principali forze dell’Unione la conservazione di quel sistema di privilegi e clientele su cui si fonda la famosa “casta” che governa la politica italiana.
Così ragionando, Angius rileva come lo scioglimento dei DS ha per forza di cose determinato l’apertura di un”pazzesco spazio vuoto” a sinistra del nuovo soggetto politico, spazio vuoto che deve essere occupato da una forza capace di raccogliere le istanze di tutti quegli elettori che non si rassegnano a morire democristiani. E’ quindi necessario individuare il percorso più indicato per evitare che questo patrimonio di idee e valori vada a disperdersi nella molteplicità di partiti e movimenti che da sempre caratterizzano il sistema – Italia; si deve, in altre parole, proporre in tempi brevi un progetto credibile volto alla creazione di un’alternativa “di sinistra” al PD.
Tuttavia, premesso che – anche alla luce delle posizioni assunte con riguardo alle delicatissime materie della riforma del sistema previdenziale e della lotta al precariato - deve considerarsi priva di fondamento l’insinuazione, formulata dallo stesso ex capogruppo dei senatori diessini, in base alla quale Sinistra Democratica sarebbe ormai appiattita sulle posizioni di Rifondazione, la proposta di Angius diretta alla formazione di una costituente socialista aperta ai Radicali e ai vari reduci del craxismo appare tanto riduttiva quanto poco funzionale alla realizzazione del sopra descritto progetto di rinnovamento.
Ben più ambiziosa risulta invece la prospettiva, già tratteggiata da Mussi e Diliberto, di una casa comune dei progressisti italiani in grado di raccogliere sotto un’unica bandiera, attraverso un procedimento simile a quello che in Germania ha portato alla costituzione della nuova formazione politica guidata da Oskar Lafontaine, tutte le forze di sinistra che non si riconoscono nel Partito Democratico.
Ma affinché questa prospettiva si traduca in un obiettivo concretamente raggiungibile, affinché la tanto vagheggiata “Cosa Rossa” non si risolva in un miraggio destinato a svanire con l’arrivo dell’autunno caldo, è necessario che tutti i soggetti coinvolti in un simile processo unificante abbandonino posizioni preconcette e rendite di posizione per impegnarsi nella ricerca di effettivi punti di convergenza sui grandi temi del lavoro, della politica economica, della pace, della giustizia e della solidarietà sociale.
Occorre, in particolare, che Rifondazione Comunista compia un ulteriore salto di qualità democratica, superando una volta per sempre i caratteri propri del partito di lotta per elevarsi stabilmente alla condizione di matura forza di governo capace di individuare nelle istituzioni e non nella piazza la sede naturale per far valere le (in massima parte, condivisibili) rivendicazioni del proprio elettorato.
Se il partito guidato da Giordano e Bertinotti si dimostrerà in grado di compiere questo passaggio (acquistando la consapevolezza del fatto che il socialismo europeo non costituisce un nemico da abbattere, ma il naturale momento di evoluzione della strategia berlingueriana della “via europea al socialismo”), la “Cosa rossa”, di fatto qualificabile come la proposta italiana per il socialismo del nuovo secolo, può davvero rappresentare quell’alternativa “di sinistra” al PD di cui lo stesso Angius avverte la necessità.

Carlo Dore jr.

lunedì, agosto 06, 2007




BERSANI, SORU E IL PARTITO DEMOCRATICO

E’ SOLO POTERE

Una volta esaurito l’entusiasmo derivante dalla “discesa in campo” di Veltroni, tra le varie anime del nascente Partito Democratico sono subito sorte le prime polemiche. Dopo l’esclusione di Furio Colombo dalla rosa dei candidati cha parteciperanno alle primarie per il ruolo di Segretario del nuovo soggetto politico (esclusione motivata sulla base di cavilli burocratici sicuramente poco compatibili con i principi fondanti di un partito che dovrebbe essere “aperto” e “leggero nella sua struttura”), in una lunga intervista a “L’Unità” il Ministro Bersani ha rilevato come la sinistra sia poco rappresentata all’interno del PD, la cui fase costituente risulta pesantemente condizionata – nella scelta del leader, nella composizione del comitato promotore, nella determinazione dei segretari regionali- da “logiche di tipo verticistico”.
Alle pungenti osservazioni del Ministro dello Sviluppo Economico hanno prontamente replicato Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini, individuando proprio nell’auto-candidatura di Soru alla guida del PD sardo la migliore conferma dell’assunto secondo cui il Partito Democratico viene in essere sfruttando “le energie provenienti dai migliori settori della società civile”.
In verità, proprio lo scontro in atto in Sardegna sulla leadership della nuova forza politica costituisce la migliore conferma della fondatezza dei timori di Bersani: premesso infatti che l’attuale Governatore ha ormai definitivamente dismesso i panni dell’imprenditore prestato alla politica per assumere a tempo pieno il ruolo del premier forte, le due principali componenti della maggioranza che lo sostiene tentano di contrapporsi allo strapotere del Presidente sollevando il tema dell’incompatibilità tra ruoli istituzionali ed incarichi politici.
In questo senso, la volontà delle segreterie di DS e Margherita di assicurarsi, anche nell’Isola, il controllo assoluto del Partito Democratico costituisce la ragione giustificativa delle potenziali candidature alla carica di segretario regionale di due politici di lungo corso come Antonello Cabras e Graziano Milia, autorevolissimi esponenti di quell’intramontabile gruppo di vertice che, da almeno quindici anni, governa le sorti della Quercia sarda.
Dall’analisi della situazione delineatasi in Sardegna è quindi possibile trarre un’unica conclusione, tristemente coerente con le preoccupazioni di Bersani : il progetto del PD risulta contaminato da logiche di stampo verticistico in considerazione del fatto che tale progetto non è volto a perseguire un obiettivo di “rinnovamento”, ma di mera “conservazione”. Attraverso il sistema delle “liste istituzionali”, delle candidature pilotate, dell’esclusione preventiva di tutti i candidati “scomodi” in quanto non allineati al Vangelo della non-ideologia e dei toni soft che caratterizzano il modello del partito-gazebo tratteggiato sia da Veltroni che da Letta, si vuole semplicemente garantire la sopravvivenza di quella classe dirigente che attualmente occupa la stanza dei bottoni all’interno dell’Unione.
Funzionale al rafforzamento di questa classe dirigente risulta peraltro il Manifesto dei coraggiosi firmato da Rutelli e Follini, i quali, ipotizzando un “centro-sinistra di nuovo conio” e come tale più sensibile agli orientamenti del Vaticano ed alle istanze provenienti dalla Confindustria, mirano ad emarginare quelle componenti della coalizione che (pur senza scadere nelle pulsioni neo-giacobine che talvolta animano le scelte di Rifondazione comunista) intendono semplicemente vincolare il Governo –sui temi della tutela del lavoro, della lotta al precariato e dei diritti civili- al rispetto delle previsioni contenute ne programma elettorale.
La tendenza al verticismo denunciata da Bersani assume quindi un significato paradossalmente ulteriore rispetto a quello che traspare dall’intervista che il Ministro ha rilasciato a “l’Unità”: la strategia diretta alla creazione di un partito non supportato da una forte ideologia di riferimento, da un programma chiaro, da scelte di campo nette e coraggiose non può che esaurirsi in una mera questione di potere.
Facendo riferimento alle parole usate da Sergio Romano in uno dei suoi ultimi articoli, le vicende che attualmente animano il dibattito politico in atto in Sardegna in ordine alla determinazione del Segretario regionale del nuovo soggetto politico dimostrano una volta di più come, al momento, il progetto del Partito Democratico “è solo potere”.

Carlo Dore jr.

giovedì, luglio 26, 2007


ATTUALITA’ DELLA QUESTIONE MORALE:
RITORNANO GLI ANNI DI FANGO?

In uno dei suoi ultimi libri dedicati alla storia d’Italia, Indro Montanelli descriveva la stagione di Tangentopoli come “l’epoca degli anni di fango”, come una fase storica dominata dal rovinoso tracollo di una sistema di potere che trovava nelle connessioni perverse tra politica, mondo economico e settori della criminalità più o meno organizzata il suo stesso asse portante.
Sotto i colpi del maglio purificatore delle indagini della procura di Milano caddero uno dopo l’altro tutti i partiti che avevano governato il dopoguerra, mentre i principali protagonisti dell’epopea del CAF sfilavano sul banco degli imputati nella disperata ricerca di risposte sensate da opporre alle incalzanti domande dell’allora PM Di Pietro.
Nella stagione degli anni di fango, le forze della sinistra venivano chiamate a guidare quel processo di moralizzazione della res publica di cui i cittadini auspicavano l’attuazione: agli occhi degli elettori, il neonato PDS assumeva infatti ancora i contorni propri del partito di Berlinguer.
Berlinguer credeva nella dimensione “etica” della politica, intesa come strumento di partecipazione e non come veicolo per assecondare bramosie di potere o velleità di prestigio e ricchezza; Berlinguer vedeva lontano, ed aveva per primo compreso il pericolo che l’avvento del craxismo rappresentava per il Paese; Berlinguer aveva sfidato il sistema del CAF, e la sua “questione morale” era stata frettolosamente bollata come l’ultima invettiva di un estremista fuori dal tempo.
Tangentopoli sconfessava in toto queste valutazioni: la questione morale non poteva più essere considerata priva di fondamento, i partiti risultavano davvero ridotti al ruolo di grigi apparati di un disegno corruttivo troppo radicato nella società per essere spazzato via senza un radicale mutamento a livello di classe dirigente. Dieci anni dopo la sua morte, Berlinguer aveva definitivamente vinto la sua personale partita con la Storia.
Ma la grande speranza di rinnovamento a cui in precedenza abbiamo fatto cenno è stata rapidamente frustrata dall’avvento di Berlusconi, e dall’incomprensibile pulsione delle forze del centro-sinistra ad adottare lo stesso modus operandi del Caimano nella speranza di conquistare il consenso degli elettori moderati. Questa irresistibile attrazione di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza di governo per i principi – cardine del berlusconismo non emerge solo dal progetto volto alla creazione del PD (più volte descritto come la riproduzione in chiave “riformista” di quel modello di partito commerciale di cui Forza Italia rappresenta la massima attuazione), ma anche dal contenuto delle intercettazioni oggetto dell’ordinanza formulata dal GIP di Milano Clementina Forleo.
Premesso infatti che, dal punto di vista giuridico, risulta del tutto immotivata l’indignazione “per l’ingiustificata fuga di notizie” manifestata dai politici indirettamente coinvolti nelle indagini sulle scalate bancarie (è infatti noto che il segreto istruttorio viene praticamente meno con riguardo ai provvedimenti che, una volta depositati in cancelleria, sono messi a disposizione degli altri soggetti del procedimento penale), dinanzi al “facci sognare!” con cui D’Alema dimostrava di approvare le operazioni programmate da Consorte o all’entusiasmo manifestato da Fassino per “essere diventato padrone di una banca”, lo spettro degli anni di fango, della triste stagione delle connivenze tra politici ed imprenditori inizia ad aggirarsi incessantemente tra le stanze del Botteghino.
Indipendentemente dalle conclusioni a cui i PM titolari delle suddette indagini potranno pervenire - nella speranza che la Casta delle aule parlamentari non si schieri a difesa dei suoi autorevoli esponenti impedendo ancora una volta alla Magistratura di esercitare appieno le sue funzioni- , i militanti dei DS hanno ora il dovere di interrogarsi sulla “legittimità politica” di quegli “atti di sana tifoseria” posti in essere dai massimi dirigenti del partito a sostegno della strategia finalizzata ad attribuire ad UNIPOL il controllo della Banca Nazionale del Lavoro, nella piena consapevolezza del fatto che ogni forma di connessione tra partiti ed imprenditori collide apertamente con i presupposti su cui si fondava la “questione morale” prospettata da Berlinguer nel lontano 1981. Se si afferma che proprio la questione morale mantiene ancora oggi determinati profili di attualità, è allora anche possibile sostenere che la stagione degli anni di fangonon può, al momento, considerarsi davvero esaurita.

Enrico Palmas

(Coordinatore provinciale SD Cagliari)

Carlo Dore jr.
(SD Cagliari)

venerdì, luglio 13, 2007


REFERENDUM: L’AUTOGOL DI VELTRONI

Dopo l’ormai celebre discorso attraverso cui Walter Veltroni ha ufficializzato la propria candidatura alla guida del Partito Democratico, il sindaco di Roma è stato individuato da un’ampia schiera di vecchi barricaderi delle aule parlamentari, ora riciclatisi nel ruolo di riformisti made in USA, come il campione della “buona politica” in grado di smantellare - grazie alla sua concezione “lieve” della dialettica democratica, imperniata sul confronto e non sullo scontro, sulle soluzioni concrete e non sui vuoti proclami ideologici – quella grigia “casta” di potere, privilegi e rendite di posizione attraverso cui l’antipolitica attualmente opprime la società italiana.
Tuttavia, la necessità di traghettare il centro-sinistra fuori dalle secche dell’antipolitica non ha impedito all’ex segretario del PDS di manifestare la propria adesione (rigorosamente virtuale e non effettiva) alla recente proposta di referendum abrogativo della legge elettorale che dei principi dell’antipolitica costituisce una perfetta attuazione.
Alcuni tra i più eminenti costituzionalisti italiani hanno infatti più volte rilevato come il “referendum truffa” sostenuto da Giovanni Guzzetta e dal sempreverde Mariotto Segni, lungi dall’essere finalizzato al perseguimento degli obiettivi della semplificazione della politica e della stabilità del sistema, risulta esclusivamente diretto a rafforzare (attraverso il consolidamento del sistema delle “liste bloccate” e l’attribuzione un elevato premio di maggioranza alla lista che riporta i maggiori consensi, indipendentemente dal numero effettivo di voti conseguiti dalla stessa) il controllo delle segreterie dei partiti più forti sulla vita della res publica, a stabilizzare quindi la già citata rete di clientele, connivenze e rendite di posizione che rappresenta il sostrato fondamentale della famosa “casta” descritta nel libro di Rizzo e Stella.
Premesso che costituisce una macroscopica contraddizione in termini l’assunto in base alla quale il buon esito della campagna referendaria imporrebbe alle Camere un’accelerazione in ordine all’approvazione della riforma della legge elettorale (in una democrazia evoluta non può infatti considerarsi necessario un referendum peggiorativo dell’ordinamento preesistente per indurre il Parlamento ad esercitare la funzione legislativa ad esso attribuita dalla Carta Costituzionale), la causa effettiva di questo primo, macroscopico autogol compiuto dal Sindaco di Roma deve essere ancora una volta ricercata in quell’insieme di contraddizioni e di equivoci su cui si basa la strategia diretta alla creazione del PD, più volte descritto come una forza politica realizzata non già per rispondere alle istanze quotidianamente proposte dal popolo progressista, ma per garantire la conservazione di quella stessa classe dirigente a cui va imputata la responsabilità dell’emorragia di consensi subita dai DS negli ultimi dieci anni.
Tutto ciò premesso, un leader che intende avviare un effettivo processo di cambiamento della politica non può delineare le linee programmatiche che devono caratterizzare la sua azione attraverso mere strategie di compromesso: forte di un consenso quasi unanime in seno alla maggioranza di Governo, Veltroni è tenuto ad impegnare i parlamentari dell’Unione nell’elaborazione di una riforma della legge elettorale in grado di garantire rappresentatività e governabilità, semplificazione e stabilità del sistema.
E in questo senso, la proposta (avanzata da determinati settori della sinistra c.d. “radicale”) diretta all’introduzione di un sistema proporzionale corretto, caratterizzato cioè dalle preferenze individuali in seno alla singola lista e da un’elevata soglia di sbarramento, può costituire una ragionevole base di discussione per avviare questa stagione di riforme, considerato che tale proposta non risulta essere in alcun modo influenzata da quelle logiche di tipo trasversale rispetto alle quali gli attuali sostenitori del movimento referendario hanno dimostrato più volte di non essere estranei.

Carlo Dore jr.

domenica, luglio 01, 2007

IL SOGNO DI WALTER

Il discorso con cui Walter Veltroni ha ufficializzato la propria candidatura alla guida del neonato Partito Democratico ha incontrato ampi consensi nell’ambito delle forze politiche che compongono l’attuale maggioranza di governo. Alle centinaia di persone che hanno affollato i saloni del Lingotto, il Sindaco di Roma ha rappresentato con indubbia efficacia i principi su cui si fonda il modello di “Italia che ha in mente”: definitivo superamento delle grandi contrapposizioni ideologiche; partiti “leggeri e più vicini alle esigenze del cittadino”; confronto politico da impostare esclusivamente sui problemi concreti, alla ricerca dell’ideale punto di equilibrio tra sicurezza e solidarietà, flessibilità e tutela del lavoro, modernizzazione e salvaguardia del patrimonio ambientale.
Dinanzi al sogno di Walter, esultano i sostenitori di Rutelli e Fassino, nella convinzione che l’idea veltroniana della “politica lieve” costituisca il percorso utile per creare quella forte base di consenso di cui al momento necessita il nuovo partito; ma applaude anche la c.d. “sinistra radicale”, che individua nell’ex segretario del PDS “l’uomo del dialogo” capace di traghettare senza scossoni la coalizione verso le elezioni del 2011.
Tuttavia - una volta superato il contagioso entusiasmo che deriva dalle parole di un leader il quale, con onestà e convinzione, si accinge ad affrontare una sfida importante ed impegnativa- , dalla relazione proposta al popolo del Lingotto emergono per forza di cose tutti i limiti che possono caratterizzare la posizione del segretario di un partito che (privo di solidi riferimenti culturali e di precisi obiettivi da perseguire) viene costruito esclusivamente sulla base di accordi, compromessi e giochi di potere.
Premesso infatti che i partiti vengono tradizionalmente decritti come gli strumenti utili a garantire la partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, costituisce una verità inconfutabile l’affermazione secondo cui un partito non può essere da un giorno all’altro inventato nel chiuso di una delle tante stanze dei bottoni: un partito viene creato per dare rilievo politico ai processi evolutivi di cui può costituire oggetto un patrimonio di idee già ben presente in seno alla società in cui il medesimo partito viene a collocarsi.
In questo senso, se la strategia berlingueriana del compromesso storico, il crollo del muro di Berlino e il conseguente approdo, da parte della principale forza della sinistra italiana, ai principi della moderna socialdemocrazia costituiscono le ragioni giustificative della trasformazione del PCI in PDS, nessuna evoluzione ideologica o culturale può essere oggi individuata a fondamento della creazione del PD.
Consapevole di questa realtà, Veltroni rilancia la sua idea del “partito-gazebo”, della forza politica contraddistinta da una struttura agile, idonea a renderla “vicina alle esigenze del cittadino” e lontana dalle obsolete ideologie che hanno attraversato il ‘900. Tuttavia, premesso che già in passato la filosofia del “I care” si rivelò nefasta per i DS - i quali assistettero impotenti al crollo di una roccaforte rossa come Bologna dinanzi all’incedere della marcia trionfale di Guazzaloca-, il sogno del Sindaco di Roma presenta almeno due potenziali contraddizioni: in primo luogo, si è più volte ribadito che il già descritto modello del “partito – gazebo” made in USA costituisce un’evidente anomalia rispetto agli equilibri che governano i sistemi politici del resto d’Europa, considerato che tutti progressisti del Vecchio Continente sono rappresentati, nell’ambito dei paesi di riferimento, da realtà partitiche irreversibilmente ancorate ai valori del socialismo europeo.
In secondo luogo, le peculiarità del sistema – Italia impongono alle forze del centro-sinistra di impostare proprio sul piano delle idee, dell’etica dei principi e dell’incisività delle scelte operative il confronto con quella variegata banda di fascisti in doppio petto, preti invasati e razzisti in camicia verde che risponde agli ordini del Caimano, nella consapevolezza che solo la luce della buona politica può trionfare sulle tenebre dell’antipolitica.
Andando quindi oltre le delicate formule della “politica lieve” e del partito-gazebo, Veltroni ha l’obbligo di coltivare un più realistico sogno: il sogno di ridare all’elettorato progressista entusiasmo e fiducia in quel patrimonio di idee e valori di cui da sempre la sinistra italiana è portatrice, nella consapevolezza del fatto che la forza delle idee costituisce l’essenza stessa della buona politica.
Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

lunedì, giugno 18, 2007


SINISTRA DEMOCRATICA SARDA: CAMBIARE LA POLITICA, UNIRE LA SINISTRA


L’assemblea regionale della Sinistra Democratica sarda, svoltasi ad Oristano lo scorso sabato, ha costituito un utile ma anche fortemente dialettico momento di confronto tra le varie anime della politica isolana che si riconoscono nel movimento fondato da Fabio Mussi e Gavino Angius.
In particolare, i contenuti emersi dal dibattito che ha fatto seguito alle relazioni introduttive costituiscono lo spunto per procedere ad alcune riflessioni in ordine ai caratteri che il movimento in questione deve assumere per perseguire con efficacia l’obiettivo di “cambiare la politica unendo la sinistra” individuato dai promotori nella manifestazione nazionale del 5 maggio.
In questo senso, è stata ribadita la necessità di configurare SD come “una realtà che parte dal basso”, come un soggetto politico il quale, attraverso il costante coinvolgimento di iscritti e simpatizzanti nella determinazione delle scelte strategiche fondamentali, possa costituire un punto di riferimento costante per quell’ampia fetta di elettorato progressista che, non riconoscendosi nel progetto del Partito Democratico, non accetta di sottostare alle bieche logiche di potere a cui di fatto l’azione dei partiti tradizionali risulta da anni ispirata. Mai come oggi è infatti necessario recuperare una dimensione “orizzontale” della politica che spezzi l’impianto verticistico che ha finora contraddistinto lo scenario pubblico in Italia e in Sardegna.
I militanti che si sono avvicinati ai DS negli ultimi anni successivi alla vittoria del 1996 hanno infatti avuto la netta impressione di rapportarsi ad una realtà sottoposta ad un lento processo di disgregazione, ad un partito privo di basi ideologiche chiare e per questo incapace di assumere (su temi cruciali quali quello del conflitto di interessi; della giustizia; del lavoro) le scelte radicali di cui il Paese invocava l’attuazione.
Sfruttando appieno i meccanismi di una legge elettorale creata allo specifico scopo di potenziare il ruolo delle segreterie, i vertici del Botteghino non hanno esitato a sacrificare figure politiche di altissimo profilo per sostenere candidati impresentabili, la cui unica ragione di merito poteva essere identificata nella contiguità rispetto a determinati centri di potere.
Le conseguenze di un simile status quo emergono in tutta la loro evidenza dalle vicende attualmente all’attenzione della cronaca: mentre i rapporti tra il quadro di comando della Quercia e ben noti settori del mondo economico assumono ogni giorno contorni più inquietanti, gli elettori del centro-sinistra manifestano il loro disagio attraverso l’astensionismo crescente e il brusco crollo di consensi registrato dall’Ulivo con riferimento ad aree territoriali tradizionalmente definite alla stregua di “roccaforti rosse”.
Premesso che la strategia diretta alla creazione del PD deve considerarsi in realtà finalizzata a celare sotto le bandiere dell’Ulivo e le note di Ivano Fossati quelle che sono le conseguenze nefaste della crisi di un’intera classe dirigente, Sinistra Democratica si trova nella paradossale condizione di dover ricercare proprio nelle radici di questa fase di trionfo dell’antipolitica le linee-guida in base alle quali impostare la sua iniziativa riformatrice.
Per cambiare la politica, per unire la sinistra, occorre infatti che il movimento creato da Mussi ed Angius, accantonate le logiche delle baronie, delle faide interne e delle rendite di posizione che hanno contraddistinto i primi anni di vita della Seconda Repubblica, risulti fedele alla concezione berlingueriana del partito inteso non già come strumento di potere (o come veicolo per il potere), ma come struttura idonea a favorire, coerentemente con quanto previsto dall’art. 3 della Costituzione, la partecipazione dei cittadini alla vita della res publica.
Da questo punto di vista, anche per un movimento che sta nascendo come Sinistra Democratica, è fondamentale inserire la piena trasparenza delle informazioni tra gli aderenti e i militanti, che hanno diritto di formarsi per tempo le opinioni, discuterne in appositi dibattiti aperti e partecipati che consentano di presentare proposte di lavoro, documenti (che non sono mai inopportuni), contributi alla discussione. Deve quindi considerarsi esaurita l’epoca delle assemblee convocate per fungere da mero organo di ratifica di decisioni già predeterminate nel chiuso delle stanze dei bottoni, delle riunioni controllate dai soliti, piccoli feudatari ormai a tal punto compenetrati nella loro (più o meno rilevante) funzione istituzionale per accettare, dopo decenni trascorsi a ricoprire ruoli di primo piano, la triste prospettiva di un’attività politica da svolgere lontano dai palazzi del potere.
Per non parlare della assoluta necessità del rispetto della piena parità di genere, da praticare tanto negli organismi dirigenti, quanto nelle candidature e nella vera e propria conduzione delle battaglie politiche. Solo così si possono scardinare le logiche che hanno condotto all’isterilimento della vita politica dei partiti italiani
Così ragionando, risulta inoltre evidente la necessità di superare - attraverso la previsione di rigorosi limiti al numero dei mandati e l’affermazione di una radicale incompatibilità tra l’assunzione di cariche pubbliche e lo svolgimento di funzioni di coordinamento nell’ambito dei partiti - quella condizione l’appiattimento dei gruppi dirigenti all’interno delle sedi istituzionali su cui si fonda l’esistenza della famosa “casta” a cui è dedicato il recente saggio di Sergio Rizzo e Giovanni Antonio Stella.
Se questi obiettivi verranno perseguiti con coerenza e generosità, il nuovo soggetto politico non risulterà qualificabile come l’ennesimo “partitino” creato per barattare un pugno di voti con posti di sottogoverno, ma come una vera forza innovatrice in grado di favorire, attraverso la riaffermazione di una visione etica della politica, quella fase di coesione tra le forze progressiste di cui da troppo tempo gli elettori invocano il completamento.
Carlo Dore jr.
Gianluca Scroccu
(Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo – Cagliari)

venerdì, giugno 08, 2007


L’ISOLA DELLA TORTUGA


Assistendo al dibattito relativo al caso “Visco – Speciale” svoltosi in Senato lo scorso mercoledì, ho avuto la triste sensazione di essere lo spettatore impotente di un monumentale elogio del paradosso.
Sotto certi aspetti paradossale è stata infatti la pur efficace ed incisiva relazione del ministro Padoa-Schioppa, posto che il Governo non ha chiarito la ratio della (allo stato ingiustificabile) decisione di destinare un militare evidentemente inaffidabile e poco rigoroso nell’adempimento dei suoi doveri come il gen. Speciale a ricoprire un prestigioso incarico in seno alla Corte dei Conti. Per altri versi, ancor più paradossale è parso il peana rivolto alla Guardia di Finanza da quegli stessi esponenti della Casa della Libertà che, tra tangenti e conti cifrati, prescrizioni e sconti di pena, indulti e scioperi fiscali hanno per cinque anni reso l’Italia assimilabile ad una sorta di moderna versione dell’Isola della Tortuga.
Tuttavia, deve per una volta essere riconosciuto a Piero Fassino il merito di avere rilevato come un vento torbido spira al momento in Italia, un vento alimentato dall’esistenza di una sorta di cospirazione posta in essere dagli ambienti più conservatori del Paese per attentare alla stabilità dell’Esecutivo in carica. Premesso che l’esistenza di un simile status quo richiama alla memoria i giorni tristi degli anni ’70, in cui una sorta di Stato nello Stato fece tremare le fondamenta stesse delle istituzioni democratiche, occorre a questo punto domandarsi: chi governa questo disegno eversivo? E soprattutto: quali condizioni oggettive hanno permesso a questa perversa ondata reazionaria di svilupparsi con tanta rapidità?
In ordine al primo degli interrogati proposti, sembra difficile contestare l’affermazione secondo cui Berlusconi, forte dell’incommensurabile potere mediatico di cui dispone, è riuscito nell’arco di un anno a mettersi a capo di un’autentica crociata antiprogressista, assecondando le pulsioni integraliste che attualmente pervadono settori centrali del mondo cattolico e favorendo le velleità di carriera proprie di un ristretto gruppo di gallonati (la valutazione del cui operato, è bene precisarlo, non intacca in alcun modo il rispetto e la riconoscenza che il Paese intero deve alle Forze Armate) .
La stucchevole passerella compiuta dal Caimano in occasioni del Familiy day, le clamorose rivelazioni offerte dal generale Speciale al quotidiano di casa Mediaset (già utilizzato in passato come strumento per clamorose campagne d’accusa in confronti di alcuni esponenti del centro-sinistra, rivelatesi peraltro alla lunga qualificabili più come numeri d’avanspettacolo che come inchieste giornalistiche degne di tale nome), il solenne: “Sempre agli ordini!” con cui il suddetto generale Speciale ha confermato la sua personale deferenza al Cavaliere di Arcore costituiscono solo alcuni degli elementi idonei a confermare la correttezza di questo assunto. Politici disinvolti, porporati sensibili al richiamo del potere, militari ambiziosi: ancora una volta la realtà italiana sembra superare la complessità della più fantasiosa spy story.
Tutto ciò chiarito, venendo ora al secondo del quesiti in precedenza formulati, non si comprende la ragione per cui l’Unione persista nell’errore di considerare alla stregua di un interlocutore credibile quell’oscuro imprenditore milanese che (a causa della già rilevata sovrapposizione tra potere politico, incidenza mediatica e disponibilità economiche) conferma ancora una volta di costituire un fattore destabilizzante per il corretto funzionamento delle regole democratiche.
In questo senso, l’approvazione di una legge che (precludendo l’assunzione di un ruolo politicamente sensibile a chiunque risulti essere, direttamente o indirettamente, nella condizione di esercitare un potere di controllo con riferimento ad una determinata attività economica) risolva in maniera radicale il problema del conflitto di interessi non deve essere interpretata come un atto di ritorsione verso un avversario politico scomodo, ma come una sfida di civiltà che un Paese moderno non può rifiutarsi di affrontare. Una democrazia degna di tale nome non può infatti correre il rischio di essere ancora assimilabile all’Isola della Tortuga.

Carlo Dore jr.

mercoledì, maggio 30, 2007


IL FATTORE – GENOVA
- o si cambia o si muore-


I commenti proposti da tutta l’opinione pubblica in ordine all’esito delle consultazioni amministrative del 28 e 29 maggio sono stati, per una volta, concordemente ispirati ad una logica di estremo equilibrio. Una volta concluse le operazioni di voto, i dati oggetto delle definitive proiezioni rendono indispensabili due considerazioni preliminari: malgrado l’emorragia di consensi sofferta al centro-nord, la coalizione che sostiene il Governo (grazie ai successi ottenuti a Genova, L’Aquila e Agrigento) ha vacillato senza crollare; la tanto temuta spallata con cui Berlusconi prometteva di rovesciare la leadership di Prodi alla lunga non c’è stata.
Tuttavia, all’interno dell’Unione i campanelli d’allarme sono tanti e non possono essere ignorati, anche in considerazione del fatto che i principali segnali del disagio in cui versa l’elettorato progressista trovano in una “roccaforte rossa” come Genova la loro principale cassa di risonanza.
Le dimensioni sostanzialmente modeste dell’affermazione riportata dal centro-sinistra nel capoluogo ligure, l’elevatissimo astensionismo, le durissime reprimende rivolte da Sergio Chiamparino e dalla stessa Marta Vincenzi in confronto dei partiti della coalizione costituiscono in questo senso segnali inequivocabili del malessere che serpeggia crescente all’interno del popolo della sinistra, della frattura sempre più ampia che divide la politica dalla società civile.
Premesso che i risultati ora in commento sembrano confermare (considerata la sonora stroncatura a cui le liste dell’Ulivo sono andate incontro in tutto il territorio nazionale) che il nascente PD deve essere qualificato non già alla stregua di un fattore di semplificazione ma semmai di complicazione della crisi politica in atto, spetta ora all’Esecutivo porre in essere quel tanto auspicato “cambio di passo”, presupposto indispensabile per riconquistare il consenso perduto a seguito dell’attuazione di una strategia complessiva di cui (dalle incertezze sui DICO all’approvazione dell’indulto; dalla decuplicazione del numero di ministri e sottosegretari all’immobilismo ostentato sui temi della giustizia e dell’etica pubblica) i cittadini faticano a comprendere presupposti e prospettive.
Così ragionando, le priorità che devono caratterizzare l’azione dell’Esecutivo in questa nuova fase sono le stesse che emergono dalla prima lettura del programma dell’Unione: in particolare, la rinnovata forza d’urto ostentata dal Caimano nel corso della campagna elettorale appena conclusa ha confermato una volta di più la necessità dell’approvazione di una legge che, risolvendo la questione del conflitto di interessi con l’incisività di cui clamorosamente difetta il c.d. disegno-Gentiloni, ponga fine una volta per tutte a quell’assurda commistione tra politica e potere economico che tuttora costituisce la principale anomalia del sistema – Italia.
Inoltre, il fattore - Genova è indicativo dell’esigenza di procedere ad una radicale opera di moralizzazione della res publica, esigenza resa ancor più stringente dai recenti studi condotti in ordine ai costi della politica e dalle percentuali relative alla massiccia presenza nelle istituzioni di soggetti indagati, rinviati a giudizio o addirittura condannati in via definitiva per reati infamanti (talvolta – è il caso dell’on. Previti – anche alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici).
Approvazione di una legge sul conflitto di interessi, abrogazione delle leggi-vergogna, riproposizione della questione morale: questi i primi punti da cui l’Unione deve partire per avviare quella reale fase di cambiamento, quella effettiva strategia di deberlusconizzazione del Paese di cui da troppo tempo l’elettorato progressista attende l’attuazione. Il fattore-Genova ha messo per l’ultima volta in rilievo la necessità di attuare questo cambiamento: riprendendo il monito paradossalmente pronunciato proprio da Piero Fassino prima del congresso del 2001, per il centro-sinistra al momento vale davvero la logica secondo cui “o si cambia, o si muore”.

Carlo Dore jr.