domenica, ottobre 28, 2007



QUALI PROSPETTIVE PER SINISTRA DEMOCRATICA IN SARDEGNA?
(contributo destinato al sito www.manifestosardo.org )

L’imponente mobilitazione di popolo avvenuta in occasione delle primarie del Partito Democratico e l’altrettanto straordinaria partecipazione di iscritti e militanti delle varie forze della sinistra italiana alla manifestazione contro il precariato che ha avuto luogo lo scorso 20 ottobre impongono una riflessione sulle prospettive e gli obiettivi alla cui attuazione deve essere ispirata la fase costituente di Sinistra Democratica, tanto a livello nazionale quanto a livello locale.
Le due situazioni a cui ho fatto riferimento si prestano infatti, a mio sommesso avviso, ad una lettura unitaria: i tre milioni di persone che hanno preso parte alle elezioni per la formazione delle assemblee costituenti del PD si sono (in massima parte) rese espressione di quella fortissima esigenza di rinnovamento che attraversa il Paese in questa delicata fase storica. Esiste infatti la necessità di affermare una nuova concezione della politica, meno soffocata dalle trame delle segreterie e più aperta alle istanze che quotidianamente promanano dai principali settori della società civile.
Per contro - indipendentemente dalle legittime riserve di quanti hanno ritenuto inopportuno il ricorso allo strumento della piazza per invocare una svolta in senso progressista nell’azione dell’Esecutivo -, la manifestazione del 20 ottobre ha messo in rilevo ancora una volta come all’appena descritta esigenza di cambiamento della politica si sovrapponga un ineludibile “bisogno di sinistra”. Quel bisogno di sinistra che dovrebbe spingere le componenti più radicali dell’attuale maggioranza di governo ad abbandonare una volta per sempre la loro restrittiva dimensione di “partito di lotta” per contribuire (favorendo un confronto serrato all’interno della base sui grandi temi del lavoro, della giustizia, della questione morale, degli equilibri internazionali) alla creazione di un’unica forza progressista moderna e plurale, in grado di rendersi espressione dei principi su cui si fonda il socialismo del XXI secolo.
Modernità e partecipazione, rinnovamento e identità: Sinistra Democratica è il punto di partenza di siffatto percorso unitario, il naturale punto di riferimento per quanti non si riconoscono nelle logiche che hanno finora caratterizzato la formazione del Partito Democratrico.
Le oscure vicende che in Sardegna hanno fatto da sfondo all’ascesa di Antonello Cabras alla segreteria del nuovo partito confermano infatti come gli eterni gruppi di potere su cui il senatore diessino ha potuto contare nella corsa contro Soru risultino per forza di cose incompatibili con qualsiasi strategia di riforma della politica: il rigido verticismo, le lotte intestine tra i vari capi-bastone, i tatticismi e i giochi di potere che hanno causato l’emorragia di consensi subita dai DS sardi negli ultimi dieci anni rimarranno una costante strutturale del nuovo soggetto politico, un triste connotato della nuova stagione veltroniana.
Tuttavia, ora che Calvisi, Cabras, Cherchi e Milia hanno deciso di ammainare definitivamente la bandiera rossa per ritrovarsi sotto le indefinibili insegne del PD, i militanti diessini che nell’isola hanno dato vita a Sinistra Democratica si trovano già dinanzi ad una svolta cruciale. Possono rassegnarsi alla prospettiva di dare vita ad una sorta di “Quercia formato bonsai”, all’ennesimo piccolo partito creato per assecondare le ambizioni di alcuni noti professionisti delle aule consiliari e le velleità di carriera di qualche giovane boy scout maldestramente riciclatosi nel ruolo di generale senza truppe. Oppure, possono impegnarsi nell’opera di “rottura e aggregazione” necessaria per favorire, anche a livello locale, l’attuazione di quel processo di unificazione delle varie realtà progressiste di cui Mussi e Salvi da tempo avvertono la necessità.
Il cambiamento della politica dipende in gran parte dall’unità della sinistra: questa speranza non può rimanere ancora una volta delusa.

Carlo Dore jr.

giovedì, ottobre 18, 2007


CRONACHE MARZIANE


Nelle intenzioni dei promotori, il Partito Democratico dovrebbe costituire uno straordinario fattore di rinnovamento nel panorama politico italiano ed europeo, uno strumento in grado di favorire l’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale del paese. In questo messaggio hanno dimostrato di credere i tre milioni di simpatizzanti che, riaffermando ancora una volta i valori della buona politica in confronto delle vuote elucubrazioni dei cantori dell’antipolitica, hanno affollato i seggi delle primarie per conferire ai dirigenti della varie forze del centro-sinistra l’ennesima (e forse immeritata) delega in bianco.
Tuttavia, le tristi vicende che hanno caratterizzato l’ascesa di Antonello Cabras alla segreteria regionale del nuovo soggetto politico non risultano propriamente compatibili con questa prospettiva di cambiamento. Ora, mentre il conclave degli oligarchi di DS e Margherita è riunito in quel di via Emilia per celebrare l’incoronazione del nuovo deus ex machina della politica locale, per gli oppositori storici del progetto volto alla creazione del PD non rimane che lo spazio per alcune considerazioni al veleno.
Presentatosi agli elettori come il campione dell’antipolitica benedetto dai vecchi gauleiter della Casta nostrana, Mr. Tiscali ha per tre anni gestito la Regione come un semplice ramo della sua diversificata impresa, assecondato in questo senso dal totale immobilismo dei principali partiti della coalizione, incapaci di opporre una reazione allo strapotere del Presidente anche di fronte all’ingiustificata ed ingiustificabile rimozione di un assessore del calibro di Tonino Dessì, esponente storico della Quercia sarda ed autentico ispiratore delle linee principali del programma di Sardegna Insieme.
Insomma, le ambizioni dell’Uomo solo al Comando hanno a lungo coinciso con le trame dei baroni delle segreterie, impegnatisi nella creazione del Partito Democratico proprio per conservare intatta la rete di privilegi, clientele e sfere di influenza che del loro potere costituisce il sostrato fondamentale.
Tuttavia, fedele al principio secondo cui il monarca assoluto non riconosce alcuna autorità superiore, Soru ha osato spezzare gli equilibri individuati da Rutelli e Fassino attraverso la predeterminazione dei segretari regionali del nuovo soggetto politico, imponendo la propria candidatura per la guida dell’Ulivo sardo in violazione delle direttive che provenivano da Piazza Santi Apostoli.
Confidando nella semplice forza del consenso e dei numeri che dal consenso derivano, il Governatore ha preso atto con indifferenza della discesa in campo di Antonello Cabras, animale politico di lungo corso capace di dominare con facilità le dinamiche che governano la vita dei Palazzi del potere. Colpito a morte a causa di questo errore strategico, ha finito per forza di cose con l’essere stritolato dal perverso sodalizio tra le eterne nomenclature dei campioni del nuovo riformismo e le truppe cammellate della destra post-fascista, recatesi in massa alle urne nella speranza di contribuire all’apertura di una crisi di governo impensabile solo lo scorso aprile.
Così, mentre la quiete plumbea della ragion di Stato sembra prevalere sulle polemiche relative alle irregolarità del voto (risultando ora la sopravvivenza della Giunta appesa al filo rosso della conferma da parte del corpo elettorale dell’impresentabile legge statutaria), di fronte alle cronache marziane delle gesta di un gruppo dirigente che si dimostra disposto a barattare la stabilità dell’Esecutivo con la conservazione di un posto di potere –, i militanti del centro-sinistra sono tenuti ad interrogarsi una volta per tutte sull’idoneità di tale gruppo dirigente a rendersi interprete della straordinaria istanza di buona politica proposta dalla parte sana del popolo delle primarie.
Un leader che fonda la propria autorevolezza sulle logiche trasversali degli accordi clandestini raggiunti con gli esponenti delle stesse forze politiche che lo scorso sabato hanno invaso Roma con croci celtiche e saluti romani non può infatti considerarsi compatibile con quella prospettiva di cambiamento della res publica alla cui attuazione dovrebbe (nelle intenzioni promotori) essere funzionale il Partito Democratico.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

sabato, ottobre 13, 2007


PARTITO DEMOCRATICO: UNA (BRUTTA) STORIA ITALIANA

In un articolo recentemente apparso su “L’Unità”, Maurizio Chierici ha proposto una sorta di ardita comparazione tra la situazione politica dell’Italia di oggi e la letale rete di ipocrisie, settarismo e giochi di potere che, nel non lontano 1973, contribuì a far scivolare il Cile verso la dittatura di Pinochet. La morale di questo appassionante scritto può essere così sintetizzata: al pari dei massimalisti Carlos Altamirano, coloro i quali dichiarano di volere “tutto e subito”- invocando l’attuazione di scelte coraggiose peraltro in linea con quanto previsto nel programma elettorale dell’Unione – finiranno non solo col paralizzare la lenta azione riformatrice impostata dal Governo-Prodi nella prima fase della legislatura in corso, ma anche col favorire il definitivo consolidamento del potere nelle mani di quel manipolo di squadristi in doppio petto che tuttora rappresenta lo zoccolo duro della destra post-fascista.
Il ragionamento di Chierici può, a mio sommesso avviso, costituire lo spunto per procedere alla formulazione di alcune riflessioni di ordine generale nel giorno in cui sono convocate le primarie per la Costituente del nuovo Partito Democratico, più volte descritto come la definitiva affermazione dell’antipolitica sui grandi ideali che hanno infiammato il ‘900.
Se infatti da un lato risulta del tutto condivisibile l’assunto in base al quale il radicalismo fine a se stesso (che inopinatamente spinge due importanti componenti della maggioranza parlamentare ad agitare lo spettro della piazza in confronto dell’Esecutivo, al fine di rimettere in discussione un protocollo sul welfare approvato dai lavoratori quasi all’unanimità) risulta per forza di cose incompatibile con qualsiasi progetto di rinnovamento, appare d’altro lato incontestabile l’affermazione secondo cui le scelte finora assunte dai dirigenti dei principali partiti del centro-sinistra non possono considerarsi ispirate al perseguimento di quella netta prospettiva di discontinuità invocata a tutta forza tanto dai ragazzi di Locri quanto dai metalmeccanici di Mirafiori.
In questo senso - ricordando le meravigliose esperienze del Palavobis, della mobilitazione movimentista e del “resistere, resistere, resistere!” urlato da Borrelli in faccia al Caimano in persona – il popolo progressista attendeva dall’Ulivo, in ordine alle materie della giustizia e della libertà di informazione, quella svolta radicale promessa da Prodi durante la campagna elettorale. Senza far ricorso alla logica del “tutto e subito”, gli elettori si trovavano nella condizione di poter ragionevolmente pretendere che l’abrogazione delle leggi-vergogna, l’istituzione di una commissione di inchiesta per accertare la verità sui fatti da “macelleria messicana” verificatisi a Genova nel 2001, l’elaborazione di una riforma dell’ordinamento giudiziario idonea ad assicurare la piena indipendenza dei magistrati impegnati in inchieste politicamente scottanti, l’immediata reintegrazione dei giornalisti epurati attraverso l’Editto di Sofia rappresentassero le priorità assolute nell’agenda del nuovo Governo.
Ciò malgrado, questa speranza non è stata assecondata a livello di scelte operative: come è noto, all’approvazione della scellerata legge sull’indulto non ha fatto seguito l’espunzione dal sistema delle leggi ad personam, ma l’entrata in vigore di una riforma del pianeta giustizia che - subordinando al suo trasferimento ad altra regione il passaggio di un magistrato dalla funzione giudicante a quella requirente– di fatto reintroduce nell’ordinamento quel sistema di separazione delle carriere di cui gli avvocati Ghedini e Pecorella avevano più volte affermato la necessità.
Per contro, mentre il disegno di legge che dovrebbe disciplinare il conflitto di interessi rimane insabbiato nelle more della procedura parlamentare, alcuni importanti membri dell’Esecutivo non hanno esitato a bollare come esempio di “tv-spazzatura” la trasmissione condotta da Michele Santoro, tradizionale icona del giornalismo di sinistra e, come tale, principale vittima della censura berlusconiana.
Tuttavia, dimostrandosi indifferenti tanto al malcontento che attraversa la Locride quanto al preoccupante favore con cui l’opinione pubblica accoglie le cieche invettive di un ex cabarettista riciclatosi come fustigatore dei costumi, i dirigenti di DS e Margherita non hanno ritenuto opportuno porre i temi appena richiamati al centro del dibattito relativo alla costituzione del nuovo soggetto politico, di fatto esauritosi in uno sterile confronto sulla determinazione delle candidature e sulla spartizione delle varie sfere di influenza.
Ma un partito che nasce dall’alto, ingessato da un sistema di liste bloccate utile a garantire ai vari capi-bastone il pieno controllo del processo costituente, non può – proprio in quanto privo di un programma elaborato accogliendo le indicazioni che quotidianamente provengono dalla base - in alcun modo favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.
Di fronte all’inconsistenza della politica deideologizzata di Veltroni e Letta, alle ambizioni di Soru ed ai tatticismi di Antonello Cabras, coloro i quali invocano la puntuale attuazione del programma elettorale non possono essere semplicemente liquidati come gli estremi depositari del massimalismo di Altamirano, come gli ultimi irriducibili gruppettari impegnati nell’eterna ricerca di un altro ‘68.
Gli esponenti dell’ampia fetta di elettorato progressista che, rifiutando di conformarsi alle direttive provenienti da quella ristretta cerchia di oligarchi responsabile di avere favorito l’ascesa del Caimano a Palazzo Chigi, hanno scelto di non aderire al nuovo soggetto politico rappresentano in verità la parte migliore del popolo della sinistra. Essi continuano a pretendere dalle istituzioni quelle risposte concrete ai reali problemi della società italiana che i campioni del nuovo riformismo, oggi impegnati nella fase costituente del Partito Democratico, si sono finora rifiutati di affrontare.

Carlo Dore jr.