martedì, dicembre 23, 2008








QUESTIONE MORALE E “DEBERLINGUERIZZAZIONE” DELLA SINISTRA

Il ciclone giudiziario che, dalla Campania all’Abruzzo, ha coinvolto alcune importanti amministrazioni di centro-sinistra ha contribuito ad alimentare ulteriormente la strisciante sensazione di sfiducia e disappunto che ha pervaso l’area democratica all’indomani della bruciante sconfitta elettorale del 14 aprile. Mentre Berlusconi si erge, tra lo sconcerto di buona parte dell’opinione pubblica internazionale, a paladino della concezione etica della politica , i principali leaders del PD agitano ancora una volta il fantoccio del “ma-anchismo”, nel disperato tentativo di promuovere il tanto auspicato rinnovamento della classe dirigente senza essere costretti a rinunciare al bacino di voti controllato, nelle varie realtà locali, dai tanti “capi – bastone” afferenti alle oligarchie post-democristiane e post-diessine.
Così, all’elettorato progressista non rimane che interrogarsi su quale perversa connessione di fattori dissolventi abbia potuto determinare la trasformazione del partito erede della migliore tradizione della sinistra italiana in una terra di conquista per un confuso manipolo di cacicchi assetati di potere, apparentemente più interessati ad assicurarsi lo stabile controllo di un feudo che a perseguire l’interesse generale.
La risposta a siffatto quesito può essere rinvenuta nell’infelice titolo di un pamphlet pubblicato alla fine degli anni’90, titolo che intendeva manifestare tutte le aspirazioni di cambiamento dei DS in marcia verso il Terzo Millennio: “dimenticare Berlinguer”. Che significato poteva riconnettersi a questa strana perifrasi? “Dimenticare Berlinguer” voleva dire superare l’idea di una sinistra capace di imporre il suo primato etico sui mostri prodotti dall’impero del CAF; voleva dire rinunciare al dogma dell’antiberlusconismo per favorire la stagione delle larghe intese e delle riforme condivise; voleva dire rimpiazzare il modello del partito “del popolo” con un modello di partito più capace di dialogare con i grandi centri del potere economico.
Insomma, in altre parole, dimenticare Berlinguer voleva dire dimenticare la sinistra; voleva dire immolare quel patrimonio di idee, valori e passioni che avevano attraversato il secolo breve sull’altare del pallidissimo (ed, al momento, ancora indefinibile) riformismo all’italiana.
Paradossalmente, questa fase di “deberlinguerizzazione” delle forze derivanti dallo scioglimento del PCI ha avuto inizio proprio nel momento in cui la stagione di Tangentopoli rilevava in tutta la sua evidenza la correttezza dei postulati su cui si fondava la “questione morale” posta dal Segretario nel 1981: i partiti di governo avevano infatti perso la loro tradizionale funzione di strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese, risultando ormai degradati al ruolo di supporto per quel sistema di corruzione istituzionalizzata destinato a crollare, pezzo dopo pezzo, sotto il maglio delle inchieste del pool di Mani Pulite. Il partito “anti-sistema” era ormai solo un ricordo: toccava agli eredi di Berlinguer proporsi agli occhi dei cittadini come credibile forza di governo, per assicurare il compimento di quell’opera di moralizzazione della res publica di cui il delfino di Togliatti aveva, per primo, avvertito la necessità.
Ma il gruppo di comando del PDS prima e dei DS poi ha perseguito una diversa strategia, ispirata più ad una logica di moderata conservazione che ad una radicale vocazione al cambiamento. In tal senso, non solo si è scelto di non combattere con la necessaria energia il fenomeno berlusconiano - sotto le cui insegne si era nel frattempo riunito un variegato sottobosco di fascisti in doppio petto, squadristi in camicia verde e naufraghi della Prima Repubblica, abilissimi nel trasformare agli occhi dell’opinione pubblica le inchieste dei magistrati di Milano in una sorta di intifada condotta da un commando di toghe militanti -, ma si è anche deciso di non promuovere la formazione di quella nuova classe dirigente capace di restituire una dimensione “etica” alla politica frantumata dagli scandali della Milano da bere, giungendo persino il vertice della Quercia ad attribuire ad alcuni reduci del craxismo un ruolo di primo piano nella costruzione del nuovo centro-sinistra.
La deberlinguerizzazione dei progressisti è per forza di cose culminata nella affrettata creazione del Partito Democratico, nel tentativo di celare sotto una formula politica accattivante e sotto le parole fluenti di un leader dalla faccia pulita la palese mancanza di un programma chiaro, di un forte substrato ideologico di riferimento, di canali di comunicazione con la società civile. Tuttavia – è lecito domandarsi - se un partito risulta privo di questa minima base ideologica e programmatica, allora di questo partito cosa rimane? Semplice: rimane il potere. Rimangono i cacicchi a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nella sua ultima intervista rilasciata al Corriere della Sera; rimane la vocazione di questi ultimi a consolidare la loro influenza nell’ambito di un partito che al momento è terra di nessuno; rimangono quei “capi-bastone” a cui solo ora Veltroni sembra intenzionato a dichiarare guerra.
Ma dinanzi ad un simile status quo, non si può non chiedere: che ne è del popolo della sinistra? Quale sorte attende i tre milioni e mezzo di elettori che, non più di un anno fa, affollavano i seggi delle primarie, attratti ancora una volta dalla falsa speranza di un rinnovamento possibile? Come si può restituire fiducia nella politica a quella fetta dell’area democratica abruzzese, che ha disertato in massa le urne dopo le vicende che hanno portato alle dimissioni della giunta guidata da Del Turco?
La risposta è una sola: nel rapportarsi alla questione morale interna al PD, Veltroni si ricordi della lezione di Berlinguer, della lezione che adesso impone a tutte le forze progressiste di opporsi con fermezza ad una proposta di riforma della giustizia volta unicamente a sottoporre la magistratura requirente al giogo della politica, e di favorire (attraverso la formulazione di liste non riservate ai politici di professione ma finalmente aperte ai migliori settori della società civile) quel ricambio generazionale ai vertici dei partiti di cui il Paese dimostra di avere disperatamente bisogno. Nella piena consapevolezza del fatto che “la deberlinguerizzazione” dei progressisti ha già prodotto troppi danni alla sinistra italiana.

Carlo Dore jr.

lunedì, dicembre 01, 2008


IL METODO DEMOCRATICO E LA “TEORIA DEL CALCIONE”

Le dimissioni del Presidente Soru costituiscono l’ennesima conferma della frattura che da mesi divide il centro-sinistra sardo, frattura venuta in essere a seguito della vittoria di Antonello Cabras alle primarie per la leadership del PD svoltesi nell’ottobre del 2007, ed ulteriormente alimentata dalla “guerra delle carte bollate” divampata dopo elezione di Francesca Barracciu alla segreteria regionale del nuovo soggetto politico.
Indipendentemente da ogni valutazione relativa al merito del provvedimento in ordine al quale si è consumato l’ultimo (e forse definitivo) strappo tra il Governatore e l’ala riformista della maggioranza di governo, una seria analisi dei fatti che stanno animando la fase conclusiva dell’attuale legislatura non può che muovere da due considerazioni fondamentali.
In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto da Paolo Maninchedda nel suo intervento sul “Giornale di Sardegna” dello scorso giovedì, le dimissioni del Presidente della Giunta non devono essere interpretate come la reazione incontrollata ed un po’ isterica di un monarca ormai senza corona, urtato nel suo smisurato ego dall’atteggiamento di quei sudditi che si sono, per una volta, rifiutati “di fare la Sua volontà”. Al contrario, queste dimissioni rappresentano un atto dovuto, alla luce delle regole che presiedono al funzionamento di una democrazia degna di tale nome: posto che l’Esecutivo risponde al Consiglio delle scelte che ispirano il suo operato, il Presidente della Giunta è tenuto a dimettersi se riscontra una rottura del vincolo fiduciario in relazione ad un profilo qualificante del suo programma come il governo del territorio.
In secondo luogo, si deve rilevare come una parte consistente dell’area democratica isolana sembra avere ormai sposato quella che potremmo definire “la teoria del calcione”: in base a questa corrente di pensiero, per la sinistra sarda sarebbe preferibile sopportare cinque (o dieci) lunghi anni di opposizione piuttosto che sostenere la corsa di Soru verso la riconferma a Villa Devoto. In altri termini, sarebbe auspicabile che l’elettorato tirasse il classico calcione a Mr. Tiscali ed alla sua vocazione di Uomo solo al comando, e pazienza se questa operazione finirà con lo spianare alla destra la strada verso il Governo della Regione. Le responsabilità della sconfitta non sarebbero imputabili a chi ha manifestato dissenso verso la politica dell’Esecutivo, ma a chi ha generato questo dissenso deludendo puntualmente tutte le aspettative maturate dopo la travolgente vittoria del 2004.
Premesso che, specie in questa particolare fase storica, tutte le opinioni meritano di essere esaminate con grande rispetto e senso dell’equilibrio, quella fetta di popolo progressista che ancora dispone della forza necessaria per non voltare le spalle alla politica ora ha il dovere di domandarsi: possiamo accettare una simile costruzione? Possiamo chiudere gli occhi e contribuire, seppure tramite una mera omissione, a riconsegnare la Sardegna nelle mani dei sodali del Caimano?
La risposta è: no, non possiamo. Lo impedisce la nostra storia, la storia delle tante battaglie combattute dalle forze della sinistra sarda (in cui rientra a pieno diritto anche quella componente del Partito Sardo d’Azione che tuttora rifiuta di recepire l’assunto in base al quale la differenza tra destra e sinistra sarebbe definitivamente venuta meno) a difesa dei valori della democrazia, del lavoro e della giustizia sociale. Lo impedisce ancor più il nostro presente, un presente in cui siamo chiamati a mobilitarci contro la destra delle leggi ad personam e del razzismo strisciante, della demolizione dell’istruzione pubblica e dello smantellamento di ogni forma di welfare state.
Tutto ciò premesso, la crisi del centro-sinistra in Sardegna non può essere risolta con la costante delegittimazione del Governatore in carica, con la guerra delle carte bollate o con la teoria del calcione: questa crisi si risolve, più semplicemente, operando con metodo democratico. Al termine di un’esperienza di governo caratterizzata da ombre e luci, Soru si propone per il secondo mandato, sulla base di un progetto politico non condiviso da parte della sua attuale maggioranza. Bene: le varie anime del fronte anti-soriano riflettano sull’opportunità di avanzare una candidatura credibile, capace come tale di declinare una proposta alternativa rispetto a quella prospettata da Mr. Tiscali.
Se questa alternativa esiste, ben vengano le primarie di coalizione, se aperte ai soli tesserati dei partiti di riferimento e soprattutto se regolate in modo tale da risultare impermeabili alle eventuali azioni di disturbo di qualche manipolo di berluscones in libera uscita. Ma se questa alternativa non è al momento configurabile, allora la leadership di Soru deve essere riconosciuta come l’unica strada percorribile per affrontare una tornata elettorale che i democratici potrebbero paradossalmente vincere, una volta superate divisioni e lotte intestine.
Dinanzi ad un simile status quo, anche i principali oppositori del Presidente sarebbero chiamati a favorire quel “ritorno alla politica” di cui la Sardegna avverte disperatamente bisogno, concorrendo all’elaborazione di un programma di governo in grado di ricompattare l’elettorato progressista sulle grandi questioni di rilevanza regionale, e contribuendo soprattutto alla formazione di liste finalmente aperte ai principali settori della società civile, presupposto indispensabile per avviare un effettivo rinnovamento di quella classe dirigente che da troppo tempo regge le sorti dell’Isola. Nella piena consapevolezza del fatto che il metodo democratico risulta, alla lunga, poco compatibile con la “teoria del calcione”.

Carlo Dore jr.

sabato, novembre 15, 2008


LA NOTTE DELLA REPUBBLICA

Mentre scriviamo queste righe, l’eco delle polemiche che hanno fatto seguito alla sentenza del Tribunale di Genova relativa al massacro verificatosi nella scuola Diaz in occasione del G8 del 2001 continua a propagarsi tra telegiornali e spazi di approfondimento. Dopo undici ore di camera di consiglio, il collegio presieduto da Gabrio Barone ha deciso: l’irruzione nella sede del Genova Social Forum non può essere ricostruita come una sorta di operazione repressiva programmata dagli alti quadri della catena di comando delle forze dell’ordine; la “macelleria messicana” a cui più volte ha fatto riferimento Michelangiolo Fournier fu il semplice effetto delle intemperanze di un isolato manipolo di agenti dal sangue caldo e dalla mano pesante.
Si levano alte le trombe e i tromboni della destra berlusconiana, di colpo riscopertasi paladina dell’indipendenza della magistratura; trasudano rabbia ed indignazione le tante persone comuni che attendevano, da oltre sette anni, giustizia per una delle pagine più nere della recente storia italiana.
Superando l’emozione del momento, per chi si è sempre schierato a difesa dell’autonomia dell’ordine giudiziario sarebbe un errore descrivere la pronuncia del Tribunale genovese come una “sentenza politicizzata”, o come una decisione figlia del clima di aggressione a cui le Toghe da anni sono sottoposte. Al di là delle circostanze contingenti, rimane infatti fermo il principio secondi cui le sentenze – tutte le sentenze – devono essere rispettate, senza che le possibili valutazioni in ordine al contenuto delle stesse tendano a mettere in discussione l’imparzialità, l’integrità e la buona fede dei giudici che tali sentenze hanno emesso.
No, la nostra riflessione vuole spingersi oltre, per abbracciare un profilo più ampio, e forse più inquietante, che accomuna tutti i grandi misteri d’Italia, tutti i fantasmi che si aggirano, sinistri e minacciosi, tra le tenebre della notte della Repubblica. Ogni volta che un magistrato coraggioso, un poliziotto dalla mente lucida o un cronista d’assalto giunge ad un passo da una verità sconvolgente, ad un passo dallo squarciare la cortina di oblio che avvolge i principali misteri italiani, ecco che si verifica un fatto che impedisce di gettare un salutare fascio di luce su questi angoli bui, ecco che la notte della Repubblica inghiotte con le sue tenebre ogni speranza di verità. E’ accaduto per la strage di Bologna; è accaduto per Ustica; accadrà anche per i fatti del G8.
Cosa resta oggi di quelle folli giornate del luglio 2001, quando il movimento di Seattle mise in crisi i grandi della politica, opponendo il grido “un altro mondo è possibile” alle pulsioni autoritarie di un Governo appena insediato e desideroso di accreditarsi agli occhi del pianeta come modello di ordine ed efficientismo aziendalista? Non resta niente: restano solo i ricordi di chi visse quelle giornate in prima persona, e di chi, con riferimento a quegli eventi, si limitò ad esercitare il ruolo di testimone indiretto, ipnotizzato dalle immagini e dalle notizie sparate come proiettili arroventati da tutte le TV.
Rimangono allucinanti sequenze di fotogrammi impazziti: il sangue per le strade, le mani alziate, il rumore metallico delle radio, il fumo dei lacrimogeni, le urla dei feriti, l’ululato delle sirene, la consueta girandola di dichiarazioni, accuse, appelli, smentite e contro - smentite. Rimane il resoconto del bellissimo ed appassionato intervento di Massimo D’Alema, il solo tra i leaders dell’opposizione capace di rilevare come certe “violenze da stato cileno” non erano compatibili con i principi costituzionali su cui si fonda una democrazia evoluta.
Rimane la speranza - coltivata a lungo da gran parte degli elettori dell’area democratica e vanificata dalla manifesta incapacità della precedente maggioranza di centro-sinistra di tenere fede agli impegni assunti in campagna elettorale – dell’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta in grado di accertare se i vari protagonisti di quei tre giorni di ordinaria follia potessero o meno essere individuati come le semplici pedine al servizio di un progetto politico più generale.
Ma ora, dopo più di sette anni, anche questa sequenza di fotogrammi impazziti sembra giunta ai titoli di coda. Anche sui fatti di Genova cala il buio: resta solo un grido di indignazione destinato a perdersi nel silenzio.
Il silenzio assordante della notte della Repubblica.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

mercoledì, ottobre 22, 2008


RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E RIFORMA DEI GIUDICI:
IL PARADOSSO DI UNA MAGISTRATURA A “SOVRANITA’ LIMITATA”

In una serie di interventi pubblicati sull’ultimo numero di Micromega, alcuni tra i più noti magistrati italiani – da Felice Lima a Antonio Ingroia, da Piercamillo D’Avigo a Bruno Tinti, da Giancarlo Caselli all’ex PM Gherardo Colombo – si interrogano sulle prospettive della “controriforma” della Giustizia al momento all’esame del Governo.
Mentre il Presidente del Consiglio imperversa tra le principali discoteche di Milano, proponendo ai risparmiatori allarmati dall’improvvisa crisi dei mercati di investire i loro risparmi nelle azioni delle società del gruppo Mediaset (alla faccia di chi non ritiene più attuale la questione del conflitto di interessi), la strategia elaborata dal Guardasigilli Alfano con il placet dell’onnipresente avv. Ghedini per ridisegnare una volta per sempre il nostro sistema giudiziario sembra muoversi lungo tre direttrici fondamentali: superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, con conseguente attribuzione al Parlamento del potere di indicare i reati da perseguire prioritariamente; separazione delle carriere di giudici e PM – degradati al ruolo di “avvocati dell’accusa” -; revisione delle prerogative del CSM, reso più contiguo rispetto al sistema politico.
Di fronte ad un simile status quo, ogni giurista democratico dovrebbe porsi due interrogativi fondamentali: quali sono le principali carenze della giustizia italiana? E soprattutto, le misure proposte dal Ministro della Giustizia e dall’avvocato del premier contribuiranno ad individuare una soluzione ragionevole a tali problemi?
Muovendo dal primo degli interrogativi appena formulati, anche i non addetti ai lavori non faticherebbero più di tanto ad individuare i profili di criticità del nostro sistema giudiziario: la giustizia italiana funziona male perché i processi sono lenti (e sono lenti perché i reati da perseguire sono troppi, e la disciplina processuale si presenta talvolta come complessa e farraginosa), perché i magistrati sono pochi e spesso gravati da eccessivi carichi di lavoro, perché le strutture sono obsolete e spesso inadeguate.
La Giustizia italiana funziona male perché, come correttamente osservava Bruno Tinti, dovrebbe essere sottoposta ad una serie di profonde riforme strutturali, molte delle quali per giunta praticabili “a costo zero”: se infatti mancano le risorse per assumere nuovi magistrati, nuovi cancellieri e nuovi ufficiali giudiziari, perché non provvedere a trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati “bagatellari”, al fine di dare un minimo di respiro ad un sistema prossimo al collasso? Perché non provvedere a razionalizzare gli assetti degli uffici giudiziari, in modo da garantire un più equilibrato sfruttamento delle risorse disponibili? E perché, al limite, non ripensare il sistema delle impugnazioni, così da destinare ad altre funzioni i magistrati che attualmente operano come PM e giudici di appello?
Venendo quindi al secondo quesito oggetto di queste nostre riflessioni, nel momento in cui ci si domanda se le misure elaborate dal Governo possano contribuire ad eliminare le ataviche carenze del nostro sistema giudiziario, la risposta non può che essere di segno negativo. Scandita dagli stesso ritmi che caratterizzano l’incedere del Presidente – ballerino tra le discoteche di corso Como, la strategia di Ghedini e Alfano tende non “a riformare la giustizia”, ma a “riformare i giudici”, a paralizzare cioè l’azione delle presunte “toghe politicizzate” attraverso una definitiva “politicizzazione della Magistratura” in senso conforme alla volontà del potere politico. Insomma, la sensazione è che i luogotenenti di Berlusconi intendano superare il modello della Magistratura intesa come ordine indipendente ed autonomo rispetto ad ogni altro potere dello Stato per proporre un diverso modello di Giustizia, basato sul paradosso di una Magistratura “a sovranità limitata”.
Tuttavia, dinanzi all’ennesima offensiva scagliata dal potere politico in confronto del potere giudiziario, un’altra domanda sorge spontanea: cosa accadrebbe se, in una qualsiasi altra democrazia occidentale, il premier in carica imponesse l’approvazione di una legge che di fatto paralizza tutti i processi in cui egli risulta essere al momento imputato, processi peraltro relativi a fatti del tutto privi di connessione con la sua attività politica?
E quale scenario si profilerebbe se, in un paese come l’Inghilterra o gli Stati Uniti, il Ministro della Giustizia paventasse la possibilità di attribuire al Parlamento ed al Governo il potere di indicare ai magistrati i reati da perseguire e quelli da lasciare impuniti, di dirigere l’azione dei Pubblici Ministeri e di erogare sanzioni disciplinari nei confronti degli stessi appartenenti all’ordine giudiziario? Anche la risposta sorge spontanea: opinione pubblica in rivolta, cittadini in piazza per invocare le dimissioni dell’intero Esecutivo, partiti di opposizione pronti a dare battagliain tutte le sedi istituzionali.
Ciò malgrado, la strategia finora seguita dal Partito Democratico in materia di giustizia risulta quantomeno contraddittoria. Alla rigorosa intransigenza propria di alcuni progressisti autentici come Gerardo d’Ambrosio o Furio Colombo, si contrappongono le posizioni dialoganti dei vari Enzo Bianco, Anna Finocchiaro ed Enrico Morando, i quali - nel ribadire che la principale forza di opposizione non deve assumere la funzione di “paladino dei giudici”, per evitare che Berlusconi appaia ancora come l’innovatore agli occhi dei cittadini – hanno addirittura auspicato che “sia il PD a proporre che il Parlamento, una volta l’anno, fissi degli indirizzi, indichi una lista di reati socialmente più pericolosi che devono avere la priorità”, considerato anche come sia ormai fuori luogo ogni discussione sull’opportunità di procedere alla separazione delle carriere di giudici e PM e come la “degenerazione correntizia” all’interno del CSM renda comunque necessaria una modifica del funzionamento dell’organo di autogoverno delle toghe.
Ma a questo punto, è necessario comprendere se il PD intende mantenere il ruolo – storicamente assunto dalle principali forze della sinistra italiana – di difensore della legalità costituzionale messa in pericolo dalla deriva autoritaria imposta dallo strapotere berlusconiano, o se invece intende proseguire nella linea morbida dell’opposizione riformista, lasciando a Di Pietro il monopolio assoluto della materia della giustizia e della questione morale. Forse, qualche risposta in questo senso potrà pervenire dalla manifestazione in programma a Roma il 25 ottobre: tastando gli umori dell’elettorato democratico, sarà infatti possibile intuire se il principale partito di opposizione riuscirà ancora a mobilitarsi a difesa dei valori consacrati nella Carta Fondamentale, o se invece finirà con l’abbandonare una volta per sempre i magistrati al loro destino, rassegnandosi ad accettare il paradosso di una Giustizia a sovranità limitata.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

giovedì, ottobre 09, 2008


“MIRACOLO A SANT’ANNA”:
VINCITORI E VINTI SECONDO SPIKE LEE

Il film di Spike Lee dedicato alla strage compiuta dai nazisti a Sant’Anna di Stazzema, attualmente in proiezione nelle sale di tutta Europa, è stato oggetto di molteplici rilievi critici da parte di alcuni autorevoli storici ed opinionisti, rilievi critici resi ancor più penetranti dal rifiuto – sbrigativo ed un po’ sprezzante – del regista di Atlanta di scusarsi con i rappresentanti delle associazioni dei partigiani per la sua personale rivisitazione di una delle pagine più nere dell’occupazione nazifascista in Italia.
Premesso che, come correttamente è stato osservato, la principale funzione di un film è “raccontare una storia” e non “raccontare la Storia”, la sensazione che mi ha procurato la visione di “Miracolo a Sant’Anna” è quella di una pellicola di buona qualità, che cerca di proporre due messaggi diversi con esiti diametralmente opposti. Efficace e crudele nel rilevare la triste condizione in cui i soldati di colore versavano nell’America degli anni’40, l’ultima fatica di Spike Lee scade rapidamente di tono nel momento in cui cerca di “revisionare la Resistenza”, nel tentativo – in verità assai frequente nell’Italia del “nuovo che avanza” – di obliterare la linea di confine che separa vincitori e vinti della guerra di Liberazione.
Narrando di un partigiano traditore a cui viene di fatto imputata la responsabilità della strage di Sant’Anna, di un soldato tedesco che cerca di salvare due bambini dalle pallottole della Panzer Division, di un capitano delle SS che non si piega alla follia sanguinaria del Reich e di un bandito della montagna costretto ad ammettere che “davanti a Dio saremo tutti eguali, partigiani e fascisti”, l’acclamato regista de “La venticinquesima ora” prova a convincere lo spettatore che “il bene ed il male non stanno mai da una sola parte”, e che gli eccessi, i tradimenti, le vessazioni che ogni conflitto fatalmente genera finirono con l’intaccare anche l’anima di coloro i quali si sono accreditati come liberatori agli occhi della Storia. La Russa e Alemanno non possono che esultare: la prospettiva di un convinto sostenitore di Barack Obama che sembra attestarsi sulle posizioni di Giampaolo Pansa costituisce un’autentica benedizione per i tanti cantori del revisionismo presenti nelle fila della destra berlusconiana.
Forse Spike Lee avrebbe dovuto dedicare qualche ora alla lettura di “Tango e gli altri”, l’ultimo (bellissimo) romanzo di Francesco Guccini e Loriano Machiavelli, in cui anche il mitico maresciallo Santovito (personaggio amatissimo da tutti gli appassionati del noir italiano) si trova ad indagare sulla sommaria esecuzione di un partigiano, giustiziato dai suoi commilitoni in quanto ritenuto responsabile di una strage mai commessa. Avrebbe infatti rilevato come da quelle pagine traspare una morale diversa da quella che ispira il suo film: la morale secondo cui c’è ancora chi rifiuta che un’indagine su un crimine di guerra, su un singolo fatto di cronaca nera venga utilizzata per gettare fango sull’intera Resistenza. Insomma, per usare le parole dello stesso Guccini, la Resistenza non si tocca.
Ma allora basta la storia di un tradimento – in realtà mai avvenuto – a rimescolare le posizioni di vincitori e vinti? Bastano le immagini di un partigiano assassino divorato dal desiderio di vendetta e di un soldato della Panzer Division con la vocazione dell’eroe a rendere partigiani, fascisti e SS “tutti uguali dinanzi al giudizio di Dio”? No, non bastano. In questo convulso intersecarsi di storie, abbiamo rischiato di perdere di vista i protagonisti più importanti: abbiamo rischiato di perdere di vista i seicento morti di Sant’Anna di Stazzema, abbattuti a sangue freddo e poi divorati dai lanciafiamme dei militari del Reich, nella complice indifferenza di quegli stessi repubblichini che oggi qualche improvvido politico propone di commemorare.
Per avere lasciato i martiri di Sant’Anna sullo sfondo del suo tentativo di “raccontare una storia”, Spike Lee farebbe bene a chiedere scusa. E farebbe bene a chiedere scusa per avere ignorato la morale del romanzo di Guccini e Machiavelli: l’Italia non è ancora soltanto il Paese del revisionismo e delle croci celtiche, è anche il Paese di chi non accetta che singoli episodi (reali o fantasiosi che siano) vengano usati per mettere in discussione la Resistenza nel suo complesso. In questo Paese, c’è ancora chi sostiene che la Resistenza non si tocca.

Carlo Dore jr.

lunedì, settembre 22, 2008


IL LUNGO INVERNO DELLA SINISTRA ITALIANA:
CRISI “DEI” PARTITI O CRISI “NEI PARTITI”?


I due bellissimi articoli di Emanuele Macaluso e Marc Lazar, pubblicati rispettivamente su “La Stampa” e “La Repubblica”, hanno riproposto al centro del dibattito politico il tema della crisi della sinistra europea, crisi confermata – con specifico riferimento alla realtà italiana – tanto dalle vicende che hanno preceduto l’ascesa di Paolo Ferrero alla segreteria di Rifondazione Comunista quando, soprattutto, dalle tensioni che ormai da mesi lacerano il neonato PD.
Mentre i vertici nazionali del nuovo partito già si interrogano sulla capacità di Veltroni di ricostruire un centro-sinistra in grado di rappresentare una concreta alternativa di governo allo strapotere del Caimano, le varie realtà locali sono il teatro di un perenne scontro di potere tra presunti leaders dal discutibile peso politico, tutti impegnati in una continua ricerca di spazi e visibilità. E così, mentre non accenna a placarsi la polemica tra Sergio Chiamparino, Mercedes Bresso e i vertici dei democratici piemontesi, la grottesca contesa in atto in Sardegna tra i sostenitori di Renato Soru e gli eterni oppositori del Governatore uscente (contesa scandita dallo scizofrenico susseguirsi di assemblee ferragostane, mozioni di sfiducia, segretari reali e virtuali, carte bollate, teste nel frigo e – c’è da scommetterci – travasi di bile) sembra avere già condannato l’attuale coalizione di governo ad una rovinosa sconfitta in occasione delle Regionali del 2009.
Tuttavia, oltre a manifestare il proprio sdegno verso il presente status quo minacciando di disertare in massa le urne, l’elettorato progressista ha il dovere di interrogarsi su quali siano le cause di questa irreversibile situazione di crisi, di dedicarsi cioè alla ricerca dei fattori scatenanti che stanno alla base del lungo inverno della sinistra italiana. Preliminarmente, si potrebbe ipotizzare che le difficoltà evidenziate in questa particolare fase storica dalle forze riformiste in Italia sarebbe semplicemente un riflesso della congiuntura negativa cui risultano soggetti tutti i principali partiti che, direttamente o indirettamente, afferiscono all’area del socialismo europeo, i quali – con l’unica eccezione del PSOE – faticano a contenere l’onda moderata che attualmente attraversa il Vecchio Continente.
Tuttavia, la situazione italiana presenta, a mio sommesso avviso, almeno due ragioni di specificità rispetto alla crisi della Gauche descritta da Marc Lazar ed al “settembre nero” sui stanno andando incontro i laburisti di Gordon Brown. In primo luogo, mentre i socialisti francesi ed il Labour Party sono alle prese con un problema “politico” nel senso più alto del termine (si pensi al dibattito apertosi all’interno del PSF all’indomani della sconfitta elettorale del 2007 o alla emorragia di consensi subita dal Labour a causa delle scelte di politica estera assunte da Tony Blair nell’ultima fase del suo mandato), l’attività politica all’interno del PD sembra ormai esaurirsi in una mera questione di leadership, con Veltroni costretto a dare fondo alla sua nota capacità di comunicatore per compensare la congenita mancanza di programmi chiari e di proposte incisive sulle grandi questioni di rilevanza nazionale propria di un partito non in grado – in quanto privo di canali di comunicazione con la società civile – di recepire le istanze provenienti dalla parte migliore del suo elettorato.
In secondo luogo, se Zapatero, Segolene Royal e Gordon Brown sono chiamati a competere con avversari del peso politico di Rajoy, Sarkozy o David Cameron (e cioè con dei conservatori autentici, capaci di declinare una proposta di governo degna di tale nome), i democratici italiani devono confrontarsi più semplicemente con Berlusconi, con un leader di celluloide dallo svarione facile e dalle risorse economiche infinite, fermamente convinto di poter applicare al Paese le dinamiche sbrigative e grossolane proprie del capitalismo nato negli anni della “Milano da bere”.
E allora, riprendendo il quesito inizialmente prospettato, da dove nasce questa crisi? Quali fattori spingono il centro-sinistra verso le secche di una lunghissima stagione di opposizione, pure in un Paese caratterizzato da sempre crescenti sacche di povertà e da una pressoché totale mancanza di giustizia sociale? La risposta ad un simile interrogativo risulta drammatica nella sua semplicità: questa crisi nasce dalla tendenza a trasformare in crisi “dei” partiti – intesi come strutture di partecipazione dei cittadini alla vita politica della nazione – una crisi che viveva “nei” partiti, involgendone a tutti i livelli i principali gruppi di comando.
Allevata da Berlinguer per gestire la fase conclusiva della transizione dall’eurocomunismo al socialismo del XXI secolo, la classe dirigente composta dai vari D’Alema, Fassino, Veltroni e Mussi aveva sostanzialmente completato la sua missione con la stagione della trasformazione del PCI in PDS, con l’esperienza dell’Ulivo e con l’entusiasmante vittoria del 1996. Una volta insidiatasi al governo del Paese, la “giovane guardia” dei colonnelli berlingueriani era chiamata a realizzare un effettivo rinnovamento degli apparati del partito, favorendo – anche attraverso una maggiore apertura alla società civile – quel ricambio generazionale necessario per accreditare l’allora PDS come una forza in grado di rappresentare i progressisti italiani all’alba del 2000.
Ma sulle esigenze di rinnovamento ha alla lunga prevalso una logica fatalmente improntata all’autoconservazione: la logica diretta a cambiare il partito per non cambiare il gruppo dirigente, stabile nella sua composizione malgrado le sconfitte elettorali del 1999, del 2000 e del 2001. E’ questa logica di autoconservazione che ha ispirato il passaggio dal PDS ai DS, allorquando quello che era stato il partito di Berlinguer giunse ad aprire le sue porte ad un agguerrito drappello di reduci del craxismo, rimasti senza casa dopo il ciclone di Tangentopoli; e sempre alla luce di questa logica di autoconservazione va letta la creazione del PD, ultimo atto di una lunga fase di deberlinguerizzazione dei post-comunisti, rivelatisi persino disposti a sacrificare sull’altare della politica lieve, dei “ma anche”, della continua ricerca del dialogo con un interlocutore impresentabile quella “cultura della diversità” su cui si fondava la questione morale posta dall’indimenticabile segretario sassarese negli ultimi anni della sua vita.
Tutto ciò premesso, se da un lato la dissoluzione della Quercia ha privato il centro-sinistra dell’unica forza in grado di orientare in senso autenticamente riformista la strategia di una coalizione allo sbando e di assicurare un minimo di equilibrio tra le rivendicazioni avanzate dai vari esponenti delle comunità territoriali, d’altro lato tutti i rappresentanti della “giovane guardia” a cui si è in precedenza fatto cenno sono riusciti a riposizionarsi nell’ambito del nuovo soggetto politico, del quale mirano ad ottenere il controllo ora attraverso i consueti accordi maturati nel chiuso delle segereterie, ora attraverso quelle lotte intestine che, dal Piemonte alla Sardegna, stanno contribuendo a consolidare ulteriormente la già notevole base di consenso di cui Berlusconi dispone.
Ora - mentre i partiti della c.d. sinistra radicale si sono dimostrati più interessati a risolvere il problema della collocazione del mausoleo di Lenin che ad intercettare il voto di quei tanti elettori che volevano rimanere a sinistra senza rinnegare la svolta della Bolognina – la domanda è: quando il lungo inverno della sinistra italiana troverà finalmente il suo epilogo? Come si esce dalla crisi a cui fanno riferimento Macaluso e Lazar?
Anche in questo caso, la risposta è drammaticamente semplice: la sinistra italiana uscirà dalle secche dell’opposizione quando, magari a seguito dell’ennesima sconfitta elettorale, la crisi “dei” partiti verrà infine introiettata “nei” partiti, consentendo al corpo elettorale di individuare (attraverso primarie davvero aperte alla società civile) al di fuori delle eterne oligarchie la classe dirigente che dovrà prendere il posto della “giovane guardia”, e di portare così a termine quel ricambio generazionale di cui già alla fine degli anni ’90 si avvertiva la necessità.
Insomma, se la notte, forse, sta per finire, l’alba comunque tarda ad arrivare.

Carlo Dore jr.

domenica, agosto 31, 2008



RIFORMA DELLA GIUSTIZIA:
LA DERIVA AUTORITARIA E “SOSTIENE LATORRE”


In una lunga intervista rilasciata in esclusiva al direttore de “Il Giornale”, il Ministro della Giustizia Alfano ha indicato le linee – guida della proposta di riforma del sistema giudiziario destinata ad essere sottoposta all’esame del Consiglio dei Ministri entro la fine di settembre. Dichiarando di ispirare le proprie scelte alle idee di Giovanni Falcone, il Guardasigilli ha individuato una volta ancora nella separazione delle carriere dei magistrati, nella radicale ridefinizione dei criteri di composizione del CSM, nel superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale i passaggi fondamentali per restituire efficienza e credibilità ad una giustizia prossima al collasso.
Mentre l’ANM non ha esitato a denunciare il rischio di una deriva autoritaria volta a mettere la Magistratura sotto tutela, alcuni settori del principale partito di opposizione lasciano aperto più di uno spiraglio al dialogo con l’Esecutivo. In particolare, Nicola Latorre (che già aveva espresso il proprio gradimento con riguardo all’iniziativa diretta ad ottenere la nomina di Berlusconi alla carica di Senatore a vita, nell’ambito di una non ben precisata strategia di “pacificazione nazionale”) sostiene che le posizioni del sindacato delle Toghe esprimono «una preoccupazione corporativa a prescindere dal contesto e dalle ipotesi di riforma. Ci si muove sulla base di parti in commedia che abbiamo conosciuto in questi anni e che non hanno mai fatto fare un passo avanti alla discussione sui temi della giustizia».
Proprio le dichiarazioni del Senatore del PD rendono però necessaria la formulazione di alcuni interrogativi in ordine alla linea di azione che, sul delicatissimo tema della giustizia, l’area democratica deve contrapporre allo strapotere berlusconiano. Posto che – sostiene Latorre - «le riforme non le faranno né gli avvocati né i magistrati. Entrambi saranno ascoltati ma sarà il Parlamento ad agire» e che – sostiene sempre Latorre - , ferma restando la centralità della separazione dei poteri, «possiamo discutere di tutto, anche di obbligatorietà dell’azione penale», non possiamo non chiederci: le misure elaborate dal Guardasigilli potranno contribuire a risolvere gli eterni problemi della giustizia italiana? In altri termini: la seperazione delle carriere dei magistrati, la sostanziale sterilizzazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’incremento del numero dei componenti laici del CSM, la creazione di una sezione disciplinare “sganciata” dal CSM, e per finire la boutade del PM eletto direttamente dai cittadini (singolare disegno di politicizzazione della magistratura elaborato dai più irriducibili oppositori delle “toghe militanti”) potranno favorire la realizzazione di un sistema giudiziario più rapido ed efficiente, tale da garantire un effettivo punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza dei cittadini e la necessità di garantire i diritti dell’imputato?
Allo stato delle cose, la risposta a siffatti quesiti non può che tradursi in un secco niet. Come correttamente ha osservato Gerardo D’Ambrosio, se da un lato la separazione delle carriere è finalizzata soltanto a «scoraggiare i magistrati che indagano sui potenti» (imbrigliandoli nella tagliola costituita da un’azione disciplinare riconnessa ad un soggetto sottoposto al potere politico e da progressioni di carriera dipendenti da non ben precisate valutazioni di competenza), d’altro lato il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale di fatto attribuisce al Parlamento il potere di individuare quei reati “socialmente allarmanti” da perseguire in via prioritaria. E’ quindi facile ipotizzare come, mentre Procure e Tribunali rimarranno sommersi dai processi per reati contro la persona e contro il patrimonio (con buona pace di quanti reclamano a gran voce provvedimenti diretti a contrastare le lungaggini del sistema processuale), i fatti riconducibili alla c.d. “criminalità economica” saranno destinati a restare nella sostanza impuniti.
Premesso che le argomentazioni dirette ad attribuire a Giovanni Falcone la paternità morale della riforma che si esamina (lo stesso Pietro Grasso ha ribadito che mai Falcone avrebbe accettato l’idea di una magistratura asservita alla volontà dell’Esecutivo e della maggioranza che lo sostiene), la “bozza Alfano” non sembra prendere in considerazione quelle riforme strutturali - assunzione di nuovi magistrati; revisione e razionalizzazione degli assetti dei vari uffici giudiziari; eliminazione di un grado di giudizio nel processo penale; depenalizzazione di quei reati minori che potrebbero essere efficacemente sanzionati in termini di illecito amministrativo - di cui il nostro sistema giudiziario sembra avere davvero bisogno.
Spetterà quindi ai tanti esponenti dell’area democratica (da Furio Colombo a Gianrico Carofiglio; da Nando dalla Chiesa allo stesso Gerardo D’Ambrosio) che hanno individuato nella difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura l’argomento fondamentale del loro impegno politico il compito di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su queste effettive priorità, e di contrastare così la “deriva autoritaria” della giustizia che la riforma elaborata dall’Esecutivo rischia di innescare, superando una volta per sempre le illusorie prospettive di dialogo a cui la logica del “sostiene Latorre” sembra ancora fare riferimento.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

giovedì, agosto 21, 2008


L’INCUBO DI UNA GIUSTIZIA A DUE VELOCITA’

Nel momento in cui, a seguito dell’approvazione del c.d. Lodo Alfano da parte delle Camere, l’Esecutivo ha ritirato l’emendamento che disponeva la sospensione per un anno dei processi relativi a reati “non socialmente allarmanti”, alcuni autorevoli commentatori hanno tirato il più classico sospiro di sollievo, rassegnandosi ad accettare quello che appariva come il male minore: in altri termini, meglio assistere allo scientifico sabotaggio di tre procedimenti che dover sopportare la vanificazione di migliaia di processi prossimi alla decisione in primo grado; meglio digerire una previsione che assicura al Premier una forma di immunità inconcepibile presso qualsiasi altra democrazia occidentale che essere costretti a fare i conti con una Giustizia a due velocità, basata sull’arbitraria distinzione tra “reati di serie A” e “reati di serie B”.
Tuttavia, il sollievo di questi illuminati sostenitori della “logica del meno peggio” era destinato a durare quanto il leggendario sogno di una notte di mezza estate: poco prima della sospensione dei lavori parlamentari, sfruttando il colpevole silenzio di gran parte dell’opinione pubblica, un nutrito drappello di Senatori di maggioranza ed opposizione hanno presentato un atto di sindacato ispettivo (n. 1-00019) volto ad «impegnare il Governo ad attuare, con il più ampio dibattito parlamentare, una riforma davvero radicale del sistema giustizia».
Premesso infatti che «lo stato della Giustizia in Italia ha raggiunto livelli di inefficienza assolutamente intollerabili» e che tale stato di emergenza ha «ormai determinato una sfiducia generalizzata dei cittadini nel sistema - giustizia», i firmatari dell’atto in questione propongono – oltre alla separazione delle carriere di giudici e PM, alla revisione delle prerogative del CSM e alla «reintroduzione di severi vagli della professionalità dei magistrati» - «l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, con la previsione di un procedimento per la fissazione dei criteri per l’uso dei mezzi di indagine e per l’esercizio dell’azione penale» nonché la creazione «di un soggetto istituzionale politicamente responsabile…per la loro effettiva ed uniforme interpretazione a livello operativo».
Al di là dei bizantinismi che ne caratterizzano la formulazione, il ragionamento dei firmatari del suddetto atto di sindacato ispettivo può essere così sintetizzato: posto che il nostro sistema giudiziario procede a rilento a causa dell’eccessivo numero di procedimenti in corso, proviamo ad eliminare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (di cui all’art. 112 Cost., norma la quale impone al PM, di fronte ad una determinata ipotesi di reato, di valutare se esistono elementi sufficienti per sottoporre a processo la persona a cui quel reato è contestato e di procedere, nel caso, con la richiesta di rinvio a giudizio), e limitiamoci a perseguire solo alcuni delitti: diminuendo il carico di lavoro di Procure e Tribunali, forse si può sperare in una giustizia più rapida ed efficiente. Insomma: altro che sospiro di sollievo, altro che male minore. L’attuazione di un simile disegno rappresenterebbe l’incubo perfetto di ogni giurista democratico: non a caso, l’incubo di un’arbitraria Giustizia a due velocità.
Sorvolando per un attimo sugli aspetti paradossali che contraddistinguono la proposta in commento (non oso immaginare cosa accadrebbe se, per liberare le corsie, qualcuno ipotizzasse di limitare l’assistenza ospedaliera solamente ai pazienti affetti da determinate patologie, abbandonando gli altri malati al loro destino), il contenuto dell’atto parlamentare che si esamina presenta un inquietante cono d’ombra: se viene meno l’obbligatorietà dell’azione penale, a chi spetterà il potere di determinare i reati da perseguire? In altre parole, chi dovrà governare le due velocità della nostra Giustizia?
Come faceva notare Bruno Tinti in un bell’articolo pubblicato su “L’Unità” lo scorso martedì, le soluzioni a tale interrogativo sono fondamentalmente due: o si demanda un simile potere ai vertici delle Procure - con buona pace del principio di legalità, che riserva al legislatore il compito di individuare i fatti configurabili in termini di reato -, o si riconnette una simile prerogativa ad un soggetto espressione del potere politico, e segnatamente a quel “soggetto istituzionale politicamente responsabile” a cui fanno riferimento i firmatari dell’atto di sindacato ispettivo n. 1-00019. Ma appare chiaro anche ai non addetti ai lavori come una simile costruzione finirebbe con il determinare l’assoluto primato della politica sull’ordine giudiziario (vincolando di fatto la Magistratura requirente alle contingenti volontà della maggioranza parlamentare) , con conseguente superamento di quelle guarentigie di indipendenza ed autonomia della Magistratura su cui la separazione dei poteri delineata dalla Costituzione ineludibilmente si fonda.
Al momento, non è dato se la proposta oggetto di questa mia riflessione sia destinata ad avere un seguito o a rimanere nell’embrionale stadio di brutto sogno di mezza estate, ma soprattutto non è dato sapere quale atteggiamento i parlamentari del PD decideranno di assumere dinanzi alla crociata d’autunno che Ghedini ed Alfano intendono lanciare contro quelle che Berlusconi si ostina a definire come “toghe militanti”.
Non sappiamo infatti se il principale partito di opposizione intenda mobilitarsi con forza a difesa della legalità costituzionale, magari facendo proprie le proposte di riforma individuate da Bruno Tinti nell’intervento di cui sopra (revisione degli assetti degli uffici giudiziari; eliminazione del giudizio di appello; depenalizzazione dei comportamenti punibili attraverso sanzioni amministrative; assunzione di nuovi magistrati e di nuovi ufficiali giudiziari), oppure se finirà col rassegnarsi passivamente a sopportare l’attuazione del modello di Giustizia quotidianamente prospettato dai sodali del Cavaliere: a sopportare l’attuazione dell’incubo di una giustizia a due velocità.

Carlo Dore jr.

lunedì, luglio 28, 2008


IL "CANDIDATO RIFORMABILE" E L'ALTERNATIVA CHE NON ESISTE


Inizio questa mia riflessione da dove Enrico Palmas e Andrea Raggio hanno concluso la loro, nel tentativo di fornire un ulteriore contributo al dibattito in corso sulle sorti del centro-sinistra sardo in generale e del PD in particolare. La mia analisi non può che trovare un evidente punto di contatto con le conclusioni a cui è pervenuto Palmas: nel corso dell’ultima tornata congressuale, insieme agli altri esponenti della mozione che faceva capo a Fabio Mussi, siamo andati di in sezione in sezione per illustrare ai militanti diessini come il progetto del Partito Democratico – lungi dal risultare funzionale ad una strategia di autentico rinnovamento della politica – costituiva in verità il semplice trampolino utile per rilanciare le ambizioni di potere di un gruppo dirigente in evidente crisi di consenso e di credibilità.
Ad un anno dalla conclusione del congresso che ha sancito la liquefazione della Quercia nell’indefinibile calderone del nuovo soggetto politico, siamo costretti a rilevare, con l’amarezza degli sconfitti, come i nostri timori fossero assolutamente fondati: tenuto in linea di galleggiamento dal “voto utile” di quell’ampia fetta di popolo della sinistra che si è rifiutata di salire sull’improponibile carrozzone della SA, il Partito Democratico si presenta in Sardegna come il triste palcoscenico di un’eterna disputa tra “soriani” ed “antisoriani” che rischia di trascinare l’intera area progressista nel baratro di una sconfitta annunciata.
La debacle riportata da quel che resta dell’Ulivo locale nelle ultime elezioni comunali non deve essere infatti interpretata come una bocciatura rivolta esclusivamente all’operato della Giunta regionale e del suo Presidente, come il classico niet opposto dagli elettori alla ri-candidatura di Soru per le elezioni del 2009. No, il voto di Assemini, Villacidro e Macomer costituisce una chiara stroncatura di un certo “modo” di fare politica: del decisionismo iperaziendalista del Governatore; delle logiche parentali impiegate nella determinazione delle candidature; della fastidiosa idea che il solito conclave di oligarchi - riunito ora a Tramatza, ora a Nuraghe Losa, ora ad Ala Birdi – possa continuare ad assumere ogni decisione in ordine al futuro dei democratici sardi.
Palmas ha ragione: occorrerebbe mettere in piedi una nuova forza di sinistra, socialista ed ecologista, capace di rinnovare la politica riproponendo con forza la “questione morale” prospettata da Berlinguer nel 1981, di rilanciare cioè l’idea del partito come strumento idoneo a favorire la partecipazione del cittadino alla vita politica e sociale del Paese. Palmas ha ragione, ma non c’è tempo per dare corso ad un simile progetto: ci sono le elezioni alle porte, elezioni che il centro-sinistra potrebbe paradossalmente vincere se non fosse dilaniato dalla sterile disputa tra i fedelissimi di Soru (al quale non può essere negato il diritto a proporsi per un secondo mandato) e gli eterni oppositori di Mr. Tiscali, che – sulla base di argomenti talvolta altamente condivisibili – minacciano persino di disertare le urne di fronte alla candidatura del Governatore uscente.
Così ragionando, l’unica soluzione utile per superare questa situazione di empasse poteva essere ravvisata nelle primarie: in primarie di coalizione, aperte ai soli tesserati, attraverso cui il modello di governo del Presidente potesse essere messo a confronto con le proposte avanzate dai sostenitori di eventuali candidature alternative. Tuttavia, proprio il fatto che gli stessi maggiorenti del PD – i quali avevano apertamente sponsorizzato l’ascesa di Antonello Cabras alla segreteria del partito nelle consultazioni dello scorso ottobre – abbiano deciso in tutta fretta di sostenere la linea dell’attuale Capo dell’Esecutivo dimostra chiaramente che, al momento, queste candidature alternative di fatto non esistono.
E allora che si fa? Si assiste indifferenti all’ennesimo successo del centro-destra, sposando il teorema manincheddiano secondo cui per i progressisti sardi è meglio rassegnarsi alla prospettiva di cinque lunghi anni di opposizione piuttosto che sostenere la riconferma dell’attuale Esecutivo? Davvero ha ragione Raggio quando osserva che la scelta tra Soru e Berlusconi equivale all’alternativa “tra la padella e la brace”?
A mio sommesso avviso, la risposta a questi interrogativi è di segno negativo: il solo fatto di essere espressione dell’area democratica rende infatti Soru un candidato per certi versi “riformabile”, un candidato cioè tenuto per forza di cose a confrontarsi con le istanze che provengono dalla componente migliore della sinistra locale, costituita da individui estranei ai giochi di potere, che ancora concepiscono la politica come impegno civile e come servizio diretto all’attuazione dell’interesse generale.Premesso che queste istanze verrebbero brutalmente mortificate dalla presenza di un sodale del Cavaliere alla guida della Regione, la candidatura di Mr. Tiscali non deve essere osteggiata “senza se e senza ma”: può viceversa essere sostenuta, specie in presenza di adeguate garanzie di rinnovamento, a cominciare dalla formazione delle liste e dalla scelta della squadra di governo.
In tal senso, una proposta diretta a limitare drasticamente le ricandidature dei consiglieri regionali uscenti per dare più spazio agli esponenti della società civile non solo incontrerebbe ampi consensi a livello di elettorato, ma consentirebbe ai partiti di “ritornare tra la gente” e di individuare, superando le logiche delle eterne oligarchie, nel mondo del lavoro, delle professioni, degli intellettuali quella nuova classe dirigente di cui si avverte disperatamente bisogno.Nella scelta tra “la padella e la brace”, tra la prospettiva di una riconferma del Governatore in carica e quella costituita dall’immagine di Mauro Pili che marcia impettito alla volta di Villa Devoto, magari salutato dal sorriso di cartapesta delle veline della compagnia del Bagaglino, l’alternativa in realtà non esiste: si scelga comunque il “candidato riformabile”; si scelga di battere comunque le destre; si sostenga l’area democratica per salvare quella minima speranza di rinnovamento che ancora è rimasta nel triste quadro della politica sarda.

Carlo Dore jr.


Di seguito, vengono riportati gli interventi di Enrico Palmas e Andrea Raggio (già pubblicati dal sito http://www.democraziaoggi.it/ ) a cui si fa riferimento nel testo


Il PD? Un “ronzino” per Soru


25 Luglio 2008


Enrico Palmas


In questi tempi di forte disaffezione per ciò che la politica ci offre, non resta che compiere il quotidiano rito della consultazione dei siti locali sulla rete internet.Così, scorrendo tra i vari esempi di giornalismo telematico, troviamo l’editoriale del 23.7.2008 di Giorgio Melis, il Direttore di “Altravoce”, il quale ci garantisce quotidianamente una puntuale informazione sulle cose che accadono all’interno del Partito Democratico sardo, ancorché con lo sguardo rivolto al “versante Soru” di quest’ultimo.Apprendiamo, in questo modo, che alcune delle prese di posizione espresse dagli esponenti della fu “sinistra DS”, dopo essere state dileggiate e tacciate di “terrorismo politico” nel momento in cui furono espresse, entrano oggi nella coscienza e persino nel lessico dei Democratici (quantomeno di quelli sardi, giacché Veltroni appare una spanna più tosto…). Vanno in questa direzione, infatti, le affermazioni per le quali: «Tutti, anche i più ottimisti, avevano segnalato il rischio della nascita del Pd come “fusione fredda” tra Ds e Margherita, in Sardegna con l’integrazione di Progetto Sardegna. Infatti è stata una disgrazia, anche elettorale. In Sardegna era partita meglio. Subito delegittimata, sporcata, disonorata dalle primarie d’autunno: vinte da Udc, Forza Italia, An, Udeur (quando c’era) e Forza Paris. I partiti di destra - con molti loro dirigenti e tanti militanti precettati alla bisogna, “spintaneamente” e/o per accordi riservati tra vecchi compari di tutte le stagioni - avevano deciso che dovesse vincere Antonello Cabras contro Renato Soru».Alcune considerazioni sorgono spontanee. Innanzitutto, l’espressione “fusione a freddo” appartiene ad un lessico, che, come detto, è del tutto estraneo al PD. Purtuttavia, la cosa in qualche modo ci gratifica, posto che evidentemente non erano tutte balle quelle che andavamo raccontando ai militanti dei DS, nella scorsa tornata congressuale. Ma la cosa, com’è fin troppo chiaro, è di ben poco momento, dato che non credo che vi sia, oggi, alcuno, tra coloro i quali andavano raccontando le “balle” ai congressi di sezione, interessato ad avere ragione a posteriori.Ma anche le stesse, giuste, esigenze di rinnovamento («la foto di gruppo farebbe tanto effetto-Cremlino ai tempi di Breznev e in Sardegna richiamerebbe nostalgie degli anni 60-70-80-90» - anche se con alcuni riferimenti a persone che con il PD e con altri noti esponenti politici, nominati nell’editoriale, non hanno nulla a che spartire), vengono oggi fatte proprie e con sempre maggiore insistenza, da chi non le ha minimamente praticate in tutti questi anni. Ed i vertici del PD sono i principali responsabili. Farebbe sorridere che Cabras, Fadda, Sanna e quant’altri ci venissero a raccontare che occorre un rinnovamento… che, guardacaso, deve iniziare sempre a prescindere da loro. Farebbe sorridere solo se non fosse la cartina di tornasole della scomparsa dalla scena politica della sinistra (e, così proseguendo, dell’intero Centro Sinistra), di cui essa stessa è responsabile.In secondo luogo, i rischi di contaminazione delle primarie, da parte della destra erano fin troppo evidenti sin dal momento della loro indizione (… anche se l’UDEUR di Mastella – quando c’era – era alleato del Centro Sinistra, non lo si dimentichi). Basti considerare il solo fatto che un Partito che non ha tesserati, nella migliore delle ipotesi, deve accontentarsi di guardare negli occhi chi si reca a votare alle primarie, mentre, nella peggiore, proprio non è un Partito, con tutto ciò che ne consegue…Di più. Si può davvero affermare con certezza che il voto della destra alle primarie abbia avvantaggiato il Cardinale?Ad ogni buon conto, anche questa analisi è, per così dire, “dietrologica” e, dunque, lascia il tempo che trova.Ciò di cui è più serio ragionare adesso, è la ricostruzione credibile di un’ipotesi di alternativa di Centro Sinistra. Sgombrando, tuttavia, il campo da una serie di equivoci che non aiutano a comporre un ragionamento plausibile.In primo luogo, Cabras non è il male e comunque Soru non è la cura. Anzi, forse prescindere da entrambi, in quest’ottica, renderebbe più semplice la costruzione…Ancora, il PD non è autosufficiente (Veltroni ha fallito su tutti i fronti e bene avrebbe fatto a rassegnare le dimissioni), ha perso clamorosamente le elezioni e le perderà anche in Sardegna, trascinando nel suo disastro l’intero panorama delle forze di Centro Sinistra. La ricostruzione di una forza di Sinistra moderna, eurosocialista ed ambientalista, è indispensabile per restituire credibilità al sistema – politica e da essa non si può prescindere se si vuole lavorare alla ricostituzione di un Centro Sinistra vincente e convincente.Insomma, sembra di capire che chi ieri ha frettolosamente liquidato i DS per scommettere tutti i suoi risparmi su di un cavallo che già dalla partenza si è rivelato un ronzino, oggi stia cominciando a riflettere sulla circostanza che, forse, i DS con tutti i loro difetti, erano meglio di questa cosa informe ed inguardabile che infila in un unico calderone vecchi trombati, clerico-cattolici oltranzisti, servi, padroni, riciclati, ex comunisti pentiti, ex democristiani (non pentiti) e chi più ne ha più ne metta… e che forse il progetto dell’Unione di Centro Sinistra (e Sardista, da noi) fosse il progetto di governo più avanzato sino ad ora mai prospettato.Si boccheggia, insomma, per il caldo insopportabile e si sta affacciati alla finestra, in attesa che un refolo di maestrale si porti via la cappa di umidità che rende irrespirabile l’aria e con essa, per quanto possibile, l’inquinamento.


Regione: la maledizione dell’autoritarismo


24 Luglio 2008


Andrea Raggio


Quel che ho capito dell’intricata vicenda politica regionale è che Cabras si è dimesso perché al tentativo di arginare l’invadenza del Governatore e recuperare al PD qualche spazio di autonomia (anche da Roma?), è venuto meno il sostegno della maggioranza del partito. Non ho avuto l’impressione che puntasse alla non ricandidatura di Soru, operazione da molti auspicata ma di non facile realizzazione anche a causa della possibile ritorsione della componente soriana, semmai a un’investitura democratica – le primarie, appunto – per consentire sia di saggiare la volontà della base, sia di bilanciare la ricandidatura con la ripresa di ruolo del partito.La recente sentenza della Corte d’Appello sulla statutaria offriva l’occasione di riaprire il discorso sulla questione democratica in Sardegna. Cabras non l’ha colta, prigioniero ancora una volta della tattica del male minore. Soru ne ha approfittato per umiliare il Consiglio e stringere all’angolo il PD. Il risultato è che ora il male minore volge al peggio.C’è innegabilmente una precisa responsabilità di chi, inspiegabilmente, si è opposto alle primarie. Ma in questa esperienza c’è anche la conferma che il compromesso e la mediazione sono strumenti utili in politica purché non tocchino i principi, perché in questo caso diventano pericolosi. La democrazia è il principio cardine della vita pubblica, e la scelta di campo è sempre e soltanto tra democrazia e autoritarismo. Non valgono le mezze misure e le mediazioni, non esiste male minore ma solo male.L’autoritarismo, è innegabile, ha pesato sulla legislatura regionale come una maledizione. La combinazione tra presidenzialismo duro e politica debole ha prodotto una miscela deleteria che ha incattivito ogni passaggio della legislatura, logorato il rapporto tra gli organi della Regione e tra questa e i cittadini, alimentato le divisioni nella maggioranza e spalancato le porte del PD al dominio incontrastato del Governatore. A questo punto e nella prospettiva elettorale scegliere tra centrosinistra e centrodestra è come scegliere tra la padella e la brace. Il problema è scacciare la maledizione, liberare la prossima legislatura. Non servono gli scongiuri e gli esorcismi e non bastano le primarie. Occorre fare della questione democratica in Sardegna, e nel Paese, il tema prioritario dell’iniziativa politica. Il PD e le altre componenti del centrosinistra sardo ne hanno la volontà e la forza? Nonostante tutto, io sono convinto che un forte recupero democratico sia ancora possibile

mercoledì, luglio 23, 2008




LO “SCUDO SPAZIALE” DEL PREMIER “LEGIBUS SOLUTUS”


Nel presentare in Senato il disegno di legge che prevede la sospensione dei processi nei confronti delle c.d. alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica; Presidente del Consiglio; Presidenti dei due rami del Parlamento), il Guardasigilli Alfano ha descritto il “Lodo” che porta il suo nome come un provvedimento “sobrio e ben calibrato rispetto ai principi ed ai valori costituzionali coinvolti, nonché in linea con le norme di altri ordinamenti occidentali”. Esulta la maggioranza di governo, convinta di aver garantito “la serenità dell’azione dell’Esecutivo, superando una volta per sempre il conflitto tra politica e toghe militanti”, mentre l’ANM e l’opposizione sembrano ormai rassegnate a doversi confrontare con un premier che lo “scudo spaziale” predisposto dal Ministro della Giustiza rende di fatto legibus solutus, alla stregua del Leviatano di Thomas Hobbes.
Tuttavia, mentre i più eminenti costituzionalisti italiani rilevano come, al di là delle dichiarazioni di facciata, il ddl in questione introduce nell’ambito del nostro ordinamento un’immunità che di fatto non trova eguali nei sistemi legislativi degli altri paesi europei, ad un osservatore attento non può sfuggire come il c.d. “lodo Alfano”, lungi dal poter essere definito come un testo sobrio e ben equilibrato, risulta in realtà qualificabile come una proposta sostanzialmente irragionevole e formalmente incompatibile con alcuni principi fondanti della Costituzione, come l’ennesima disposizione tagliata a colpi di accetta da un legislatore sempre più propenso a sacrificare l’interesse generale di fronte alla necessità di tutelare le personali esigenze dell’Uomo solo al comando.
Premesso infatti che la radicale sterilizzazione dei processi in corso verso alcuni imputati eccellenti non garantisce in alcun modo il superamento dell’eterno conflitto tra potere legislativo e potere giudiziario che da quasi vent’anni lacera la politica italiana, per l’interprete chiamato a ricostruire la ratio del provvedimento in esame risulta impossibile individuare argomenti idonei a giustificare la sospensione di tutti i processi nei confronti delle già citate alte cariche dello Stato, ancorché riferiti a reati (quali ad esempio i delitti contro la persona o contro il patrimonio) del tutto privi di attinenza con l’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite ai soggetti che assumono la titolarità di tali cariche.
Ciò malgrado, ammettendo per un attimo (ma solo per un attimo) che si possa accogliere l’assunto in base al quale chi viene eletto dal popolo per assumere una carica pubblica non deve essere costretto ad affrontare l’ostacolo costituito da iniziative giudiziarie più o meno pretestuose, il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. imporrebbe allora di estendere la previsione di immunità oggetto del “Lodo Alfano” a tutti i soggetti chiamati a ricoprire una carica elettiva. Seguendo questa linea di ragionamento, dovrebbero pertanto essere considerati non processabili non solo i parlamentari, ma anche i Presidenti di Regione, i consiglieri regionali, i sindaci, i consiglieri comunali, e perfino i consiglieri di circoscrizione, con buona pace di quanto stabilito dagli artt. 111 (che del processo assicura la ragionevole durata) e 112 (relativo all’obbligatorietà dell’azione penale) della stessa Costituzione.
I profili di incostituzionalità che caratterizzano il testo di legge approvato ieri dal Senato potevano in teoria essere aggirati attraverso una modifica della Carta Fondamentale, eventualmente ripristinando (come proposto da alcuni studiosi) quel sistema di immunità previsto dall’art. 68 Cost. prima della riforma del 1993. Tuttavia, questa soluzione si presentava, per due ordini di ragioni, poco compatibile con gli obiettivi che l’attuale legislatore dimostra di perseguire: in primo luogo, i “tempi lunghi” richiesti per l’approvazione di una legge di revisione costituzionale avrebbero per forza di cose consentito che il processo al momento in corso nei confronti di una tra le alte cariche dello Stato giungesse a decisione; in secondo luogo, la maggioranza sarebbe stata costretta a rendere conto ai cittadini (eventualmente chiamati ad esprimersi attraverso un referendum confermativo) del ripristino di quello stesso apparato di guarentigie smantellato dal Parlamento non più di quindici anni fa, peraltro con il concorso determinante di alcune delle forze che oggi sostengono il Governo – Berlusconi.
Tutto ciò premesso, qualora il Capo dello Stato non decida di rinviare il ddl in esame alle Camere rifiutando la promulgazione, spetterà dunque alla Corte Costituzionale il compito di valutare se le ragioni di illegittimità in questa sede prospettate sono sufficienti per determinare una pronuncia di annullamento del “Lodo Alfano”. In ogni caso, il premier legibus solutus può tirare un sospiro di sollievo: sembra infatti che nemmeno l’intervento della Consulta su quest’ultima legge-vergogna potrà impedire che il c.d. “processo – Mills” vada ad arenarsi sulle secche della prescrizione: un altro processo destinato ad infrangersi contro lo “scudo spaziale” dell’unico Leviatano del mondo occidentale.

Carlo Dore jr.

mercoledì, luglio 09, 2008


PIAZZA NORMALE E OPPOSIZIONE ANORMALE


Le prevedibili polemiche che hanno fatto seguito alla manifestazione organizzata da Micromega e dal Movimento dei Girotondi per protestare contro le “leggi-canaglia” elaborate dal Governo - Berlusconi in questo primo scorcio di legislatura impongono una seria riflessione sul rapporto tra l’opposizione parlamentare e quella che viene tradizionalmente definita come “l’opposizione di piazza”, da considerare nella sua dimensione non contaminata dal qualunquismo fine a sé stesso di qualche comico riciclatosi nell’impegnativo ruolo di Savonarola del Terzo Millennio.
Scegliendo di non prendere parte “gratuitamente” a “manifestazioni organizzate da altri” (intendendo per “altri” anche intellettuali del calibro di Flores d’Arcais, Andrea Camilleri o Furio Colombo, i quali non hanno mai fatto mancare in questi anni il loro prezioso contributo di idee e proposte alla causa del centro-sinistra italiano), Veltroni ha confermato l’intendimento di “superare la stagione delle eterne contrapposizioni”, di proporre un modello di opposizione riformista che rifiuta il clima proprio di un’eterna emergenza democratica.
Tuttavia, l’appuntamento di Piazza Navona, debitamente emendato dalle incursioni di Beppe Grillo, ha messo in evidenza una realtà di cui la parte migliore del popolo progressista sembra avere ormai preso ampiamente coscienza: ad un’opposizione che vorrebbe essere “normale ed europea” si contrappone da quasi un ventennio una maggioranza guidata da un leader più adatto (parafrasando le parole di Marco Travaglio) allo Stato Libero di Bananas che ad una moderna democrazia occidentale. Esaltazione della Voce del Principe, Parlamento asservito alla volontà dell’Esecutivo, istituzioni di garanzia ridotte ad silenzio, compagnie di comici ingaggiate per allietare i vertici internazionali, magistrati definiti come “metastasi” del Paese, veline dal sorriso di cartapesta investite di incarichi ministeriali: quale “tela del dialogo” si può tessere in un simile status quo? Cosa c’è di “normale” nel regno del Caimano? La risposta è: nulla, nemmeno l’opposizione.
Dopo cinque durissimi anni di battaglie movimentiste incentrate proprio sui temi della giustizia e della legalità, all’indomani della vittoria del 2006 l’elettorato del centro-sinistra attendeva dall’Unione una svolta netta in ordine alle materie appena richiamate: una svolta che doveva passare attraverso l’adozione di tre provvedimenti fondamentali come l’abrogazione delle leggi ad personam, l’approvazione di una legge in grado di dirimere una volta per sempre ogni possibile ipotesi di conflitto di interessi, l’elaborazione di una disciplina idonea a regolamentare in maniera seria il mercato radio-televisivo. Ma le vicende che hanno condotto alla rapida conclusione della precedente legislatura non hanno assecondato queste concrete prospettive di cambiamento: è stato approvato l’indulto ma non sono state cancellate le leggi vergogna, e la discussione sul conflitto di interessi è stata ben presto sacrificata sull’altare delle sterili polemiche relative ai DICO ed al rifinanziamento della missione afgana.
Morale: Berlusconi è tornato a Palazzo Chigi, seguito da quell’eterna emergenza democratica che per forza di cose contraddistingue ogni esperienza di governo in cui l’interesse dell’Uomo solo al comando è destinato a prevalere sull’interesse generale. Berlusconi è tornato, ed il centro-sinstra non c’è più, rimpiazzato da un partito indecifrabile che – diviso tra loft, caminetti, correnti, fondazioni ed associazioni – risulta del tutto privo di canali di collegamento con la società civile, ed in particolare con quella fetta di elettorato progressista la quale, lungi dal recepire la logica del ma-anchismo, continua ad individuare nelle materie della giustizia e della questione morale il vero elemento di discontinuità rispetto al vangelo imposto dal demiurgo di Arcore.
Privata di un partito in grado di rappresentarne con incisività gli orientamenti, questa fascia di popolo della sinistra non può che rivolgersi alla Piazza per gridare la propria indignazione nel lungo inverno della politica italiana, indignazione che traspare dalle poesie incivili di Andrea Camilleri, dalle acute analisi di Marco Travaglio, dalle vibranti considerazioni di Furio Colombo e Paolo Flores d’Arcais. Ma a chi di politica vive e a chi alla politica non riesce a non appassionarsi resta pur sempre l’amarezza figlia di un’ultima considerazione al veleno: nel regno del Caimano, solamente la Piazza sembra essere rimasta normale.

Carlo Dore jr.

domenica, giugno 22, 2008


LA “VOCE DEL PRINCIPE” E LA CULTURA DELLA LEGITTIMITA’


L’ennesimo attacco scagliato da Berlusconi all’indirizzo delle “toghe politicizzate che tentano di sovvertire per via giudiziaria l’intangibile volontà popolare” ha paralizzato sul nascere quelle prospettive di dialogo tra magistratura e potere politico delineate dal Guardasigilli Alfano in occasione del suo intervento all’assemblea dell’ANM.
Tuttavia – lasciando per un attimo da parte le valutazioni di merito in ordine alla consueta raffica di invettive sui PM militanti, di minacce di rivelazioni clamorose e di giuramenti sulla testa dei cinque figli che tradizionalmente caratterizza le esibizioni verbali offerte dal Caimano alla sempre più incredula platea dei cronisti afferenti alle principali testate straniere – è sufficiente procedere all’esame del contenuto del nuovo pacchetto di misure ad personam all’esame del Parlamento per trovare un’ulteriore conferma del fatto che, nella concezione berlusconiana della dialettica democratica, la “voce del Principe” non può lasciare nessuno spazio alla cultura della legittimità.
Come è noto, a seguito dell’emanazione da parte dell’Esecutivo di un decreto-legge contenente una serie di misure urgenti in tema di sicurezza pubblica, il Senato - eseguendo direttamente le indicazioni impartite dallo stesso Premier attraverso l’ormai famosa lettera al Presidente Schiffani – ha approvato in sede di conversione un emendamento attraverso cui viene disposta la sospensione per un anno di tutti i processi, non ancora definiti in primo grado, che riguardano reati (come la corruzione, la violenza privata o l’associazione per delinquere) clamorosamente classificati “non socialmente allarmanti”.
Stando a quanto dichiarato da tutti gli esponenti della maggioranza di Governo, l’approvazione di siffatto emendamento prelude alla riproposizione del c.d. Lodo Maccanico - Schiffani (già annullato dalla Consulta nel 2004 in quanto contrastante con gli articoli 3 e 111 della Costituzione) attraverso cui si introduce una forma di immunità che assicura alle più alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica; Presidente del Consiglio; Presidenti delle Camere) la sospensione dei procedimenti penali in atto nei loro confronti per un periodo di tempo pari alla durata del loro mandato.
Risultando questo complesso impianto di ingegneria giuridica ovviamente perfetto per assicurare a Berlusconi l’immediata paralisi dei procedimenti nei quali egli è indagato o addirittura imputato (procedimenti in certi casi destinati ad essere comunque posti nel nulla grazie ai nuovi divieti di utilizzazione delle prove acquisite attraverso intercettazioni telefoniche), alcuni tra i più eminenti giuristi italiani non hanno esitato a rilevare come un simile disegno normativo appare caratterizzato molteplici di profili di illegittimità costituzionale.
Premesso infatti che l’approvazione del Lodo Schiffani determinerebbe l’introduzione nel nostro sistema costituzionale di una forma di immunità di gran lunga più stringente di quella prevista dall’ordinamento francese (laddove la sospensione dell’azione penale per il periodo di permanenza in carica è prevista solamente a favore del Presidente della Repubblica e non anche del Primo Ministro), l’emendamento “blocca-processi” non solo evidentemente contravviene a quanto stabilito dall’art. 111 Cost. che del processo assicura la ragionevole durata, ma si pone peraltro in netto contrasto con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 della Carta Fondamentale. Attraverso la norma appena richiamata, il Costituente da un lato sottrae al Pubblico Ministero ogni libera valutazione in ordine ai delitti da perseguire, ma d’altro lato sembra escludere che possa essere il legislatore ad indicare i delitti da perseguire prioritariamente, attraverso l’introduzione di una sorta di corsia preferenziale utile a distinguere i reati “di serie A” da quelli “di serie B”.
Inoltre, come correttamente ha osservato il costituzionalista Michele Ainis, se è vero che il Parlamento, in sede di conversione dei decreti governativi, può introdurre nella medesima legge di conversione delle disposizioni nuove rispetto a quelle contenute del decreto originario, esistono molti dubbi sulla possibilità di inserire nella legge in questione previsioni che non presentano alcun punto di contatto con la materia su cui verteva il decreto convertito.
Tutto ciò chiarito, spetterà al Presidente della Repubblica e soprattutto alla Corte Costituzionale il compito di rilevare e sanzionare le violazioni della Carta conseguenti all’approvazione delle misure appena richiamate. Tuttavia, nemmeno l’intervento della Consulta, per forza di cose successivo all’entrata in vigore delle norme indubbiate, potrà impedire che siffatte disposizioni producano il loro devastante effetto sul sistema della giustizia penale, imponendo che su numerosi processi prossimi alla definizione del giudizio di primo grado cali inesorabile la scure della prescrizione. Ma questa eventualità non è stata evidentemente presa in considerazione dai sostenitori del Caimano, una volta riconquistato il loro posto nei palazzi del potere: di fronte alla necessità di assecondare la voce del Principe, gli integralisti del berlusconismo non possono che sacrificare la cultura della legittimità.

Carlo Dore jr.

domenica, giugno 15, 2008


La duplice opposizione e la “Rana delle Favole”


Prendendo atto del rinnovato clima di confronto costruttivo e legittimazione reciproca creatosi tra le forze politiche di maggioranza e opposizione all’indomani delle elezioni del 14 aprile, i tanti elettori che – soprattutto in applicazione della c.d. “teoria del voto utile”a fermare comunque le destre – avevano accordato il loro consenso al PD non riuscivano a mascherare una sottile, fastidiosa sensazione di disagio.
Possibile –si sono più volte domandati gli irriducibili sostenitori dello sgangherato schieramento dei progressisti italiani – che i dirigenti del centro-sinistra, preposti in quanto tali a rappresentare quella parte di società civile da sempre schierata a protezione dell’autonomia della Magistratura e del corretto funzionamento delle Istituzioni democratiche, possano individuare in Berlusconi e nella sua corte di nani e ballerine il naturale interlocutore per il dialogo sulle riforme? Possibile che la nefasta esperienza della Bicamerale – D’Alema venga alla lunga derubricata come un insignificante errore di strategia? Possibile che il Caimano si sia di colpo trasformato in un illuminato premier liberale, presentandosi come una moderna versione di quelle rane delle favole capaci di assumere i connotati di meravigliose principesse dagli occhi azzurri grazie ad un semplice tocco di bacchetta magica? Fortunatamente, esiste un’ampia fetta di popolo della sinistra la quale, avendo rinunciato da tempo ad ogni possibile astrazione dalla fredda realtà contingente, ha ormai raggiunto la piena consapevolezza del fatto che, se è difficile che Veltroni si trasformi in Obama, è praticamente impossibile che Berlusconi si cali nel ruolo della simpatica rana delle favole.
E così, mentre i maggiorenti del PD risultavano impegnati nello stucchevole gioco del governo-ombra, quella sottile inquietudine che fino a ieri pervadeva i militanti dell’area democratica non poteva che lasciare il posto ad un naturalissimo sconcerto dinanzi alle anticipazioni giornalistiche relative ai primi provvedimenti che l’Esecutivo intende assumere in materia di intercettazioni e sicurezza.
Le conseguenze che potranno infatti derivare dall’approvazione di misure dirette a limitare l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche ai reati punibili con pena superiore ai dieci anni di reclusione e ad attribuire all’esercito mansioni inerenti all’ordine pubblico appaiono facilmente prevedibili. La presenza dei “pattuglioni” di militari per le strade di Roma (triste riedizione delle parate che avevano luogo nei viali di Santiago all’inizio degli anni ’70) farà da contraltare al totale svilimento delle funzioni della magistratura requirente, nel quadro di un progetto di politica criminale in cui le tanto invocate misure di protezione della sicurezza dei cittadini sono destinate ad esaurirsi nella semplice repressione di alcune situazioni collegate al dramma dell’immigrazione clandestina e nella corrispondente impossibilità di perseguire reati pur contraddistinti da un altissimo livello di pericolosità sociale come la corruzione, la truffa, la rapina o i delitti associativi non connessi al fenomeno mafioso.
Considerato inoltre che l’approvazione di una disposizione transitoria volta ad impedire l’utilizzo, nei procedimenti in corso, del materiale probatorio acquisito attraverso intercettazioni non compatibili con le nuove norme implicherebbe la brutale cancellazione di anni e anni di lavoro di indagine (oltre a garantire la sostanziale impunità al solito manipolo di indagati eccellenti), la previsione di sanzioni penali a carico dei giornalisti che rendono pubblico il contenuto di ogni forma di intercettazione non può che essere interpretata come una statuizione diretta non tanto a garantire la privacy del comune cittadino – le cui conversazioni non sono mai oggetto di interesse da parte dei mass media –, ma ad impedire di fatto la diffusione nell’opinione pubblica di notizie non compatibili con i messaggi che quotidianamente promanano dai centri di potere. In altre parole: al di là dei riferimenti al confronto ed alla legittimazione reciproca, al di là delle esortazioni a considerare conclusa la stagione dell’odio, il Caimano è sempre il Caimano, e non ha ancora smesso di mostrare la sua faccia feroce.
Di fronte ad un simile status quo, all’indignazione che trapela dalle reazioni dell’Associazione Nazionale Magistrati e della Federazione Nazionale della Stampa ed alla mancanza di determinazione che caratterizza le dichiarazioni dei vari esponenti del governo-ombra, il popolo progressista è atteso da cinque lunghissimi anni di duplice opposizione: opposizione al rigido modello di Stato azienda teorizzato da Berlusconi, sempre più incline a togliere rilevo ogni corrente di pensiero contrastante con la voce del Principe; opposizione ai fautori del ma-anchismo e della politica deideologizzata, presupposto indispensabile per la creazione di un centro-sinistra dotato di un gruppo dirigente finalmente capace di assecondare quel bisogno di giustizia e di legalità che emergeva tanto dalle manifestazioni del Palavobis quanto dalle iniziative dei ragazzi di Locri. E questa duplice fase di opposizione non può che prendere le mosse dall’accettazione di quella difficile realtà a cui si è in precedenza fatto cenno: se da un lato è vero che Veltroni è privo del substrato ideologico e della base di consenso che sta spingendo la corsa di Obama verso la Casa Bianca, è d’altro lato innegabile che sia l’esperienza della Bicamerale –D’Alema sia i primi provvedimenti del “Berlusconi quater” confermano come non sia possibile trovare Rane delle Favole nei giardini di Villa Certosa.

Carlo Dore jr.

sabato, maggio 31, 2008


FASCISTI DA MARTE

Se Karl Marx avesse la possibilità di esprimere un giudizio sull’attuale situazione politica in Italia, non esiterebbe a rilevare che un fantasma si aggira da quasi vent’anni per il nostro Paese: è il fantasma del Revisionismo, un fantasma capace di obliterare nel nuovo calderone della “pacificazione nazionale”alcune delle più significative pagine della Storia del ‘900, di trasformare su due piedi i martiri in carnefici, i dittatori in politici illuminati, gli squadristi delle Brigate Nere in onesti difensori di una “rispettabile, anche se non condivisibile” corrente di pensiero.
Tuttavia, se inizialmente le apparizioni di questo strano fantasma si erano esaurite nelle tristi cerimonie di commemorazione dei “ragazzi di Salò” e nelle infondate teorie di qualche giornalista riscopertosi paladino del “sangue dei vinti”, il ritorno delle destre al potere sembra avere disvelato il vero volto dello spettro tanto a lungo alimentato dai nostalgici del Ventennio fascista.
Ora, dinanzi alla parata di saluti romani e croci celtiche che ha accompagnato la marcia di Alemanno verso il Campidoglio, dinanzi alla proposta avanzata dallo stesso ex leader della Destra Sociale di intitolare una strada della Capitale a Giorgio Almirante (storico fondatore del MSI nonché Capo di Gabinetto del Ministro Mezzasoma durante la Repubblica Sociale), dinanzi al rigurgito di puro estremismo che sembra animare le nuove ronde dei cultori della “sicurezza fatta in casa”, una domanda sorge spontanea: possibile che, dalla Garbatella all’Arena di Verona, la “marea nera” a cui faceva riferimento D’Alema in una delle sue ultime interviste stia lentamente – e nell’indifferenza generale – sommergendo l’Italia? Possibile che lo sparuto drappello di camice nere guidato alla conquista del Pianeta Rosso dal mitico gerarca Barbagli (personaggio cult delle trasmissioni di Corrado Guzzanti) abbia deciso di fare ritorno da Marte per riconquistare un posto al sole di Roma?
La più convincente risposta a tale interrogativo è stata fornita da Giorgio Bocca attraverso le pagine de “l’Unità”: i fascisti non sono semplicemente sbarcati da Marte, i fascisti, secondo il partigiano-scrittore, “si sono riciclati, hanno il potere, sono tornati in forze, e, come hanno detto, non si sentono più figli di un Dio minore”. Non deve quindi stupire più di tanto il tentativo di Alemanno di intitolare una via della Città Eterna ad un sostenitore delle leggi razziali, né possono provocare particolare meraviglia le affermazioni di un vecchio imprenditore dal passato discutibile che quotidianamente dichiara la sua “genetica appartenenza” alla cultura del Ventennio.
No, a destare sincero sconcerto è la rinuncia da parte della sinistra ad esercitare il proprio tradizionale ruolo di garante dei valori dell’antifascismo consacrati nella Carta Fondamentale, rinuncia confermata tanto dalle ben note frasi di Violante sui “caduti della RSI” quanto dalle incertezze dimostrate dai compilatori del manifesto del Partito Democratico nell’individuare la base storica fondante del nuovo soggetto politico nella Resistenza e nella lotta partigiana. In questo senso, le riflessioni di Giorgio Bocca suonano davvero come una condanna inappellabile: “la sinistra? Perché, c’è ancora la sinistra? Ho l’impressione che pur di campare la sinistra, o quel che rimane, sia disposta a tutto. Bisogna mangiare nella greppia del potere per tirare avanti”.
Sinistra, antifascismo, lotta partigiana: sono i valori a cui tre generazioni di progressisti italiani hanno ispirato la loro formazione ideologica, e sono i valori che oggi rischiano di essere sacrificati sull’altare della mediaticissima “politica deideologizzata” dei loft e degli uomini soli al comando, dei “mi consenta” urlati a reti unificate”, delle “pacificazioni nazionali” create attraverso il classico colpo di spugna.
Ma davvero ha ragione Bocca? Davvero la cancellazione della sinistra conseguente alla creazione del PD ha segnato la fine della nostra storia? Davvero la stagione politica che attualmente attraversiamo conferma la sconfitta morale dei Gramsci, dei Pertini, dei Rosselli e dei Gobetti e di tutti quanti opposero la forza delle loro idee e della loro “sola e puerile voce “ all’imperversare delle squadre della morte? Davvero il fantasma del Revisionismo può alterare in via definitiva quello che è stato il reale corso degli eventi?
Forse. Ma forse no: il tracollo subito alle ultime elezioni dai teorici del “ma-anchismo” veltroniano e dal cartello dell’Arcobaleno non può avere determinato la sparizione di quella “sinistra diffusa” che da sempre rappresenta la parte più viva e vitale della società italiana. Spetta dunque a questa componente della società civile affermare l’attualità dei valori dell’antifascismo costituzionale in confronto di quanti intendono intitolare strade ai fautori del “mito della razza”; spetta a questa componente della società civile il compito di fermare la marea nera, ridestando il Paese intero dal “sonno della ragione” in cui sembra precipitato la notte del 14 aprile; spetta a questa componente della società civile difendere dalle tenebre imposte dal fantasma del Revisionismo quella sorta di ideale monumento alla libertà che, ricorrendo alle parole di Pietro Calamandrei, “si chiama, ora e sempre, Resistenza”.

Carlo Dore jr.