sabato, febbraio 23, 2008


IL PD, LA GIUSTIZIA E LE “NORME ANTI-CASTA”

In un bell’articolo recentemente apparso sulle colonne de “L’Unità”, Giancarlo Caselli ha elaborato una serie di spunti di riflessione in ordine all’impostazione che dovrebbe caratterizzare le linee guida del programma del Partito Democratico in tema di giustizia e legalità.
Rilevando come le ultime proposte di riforma del sistema giudiziario sono state ispirate esclusivamente dalla necessità di superare l’eterno conflitto tra politica e magistratura - conflitto alimentato dalla ben nota tendenza di alcuni capi-bastone delle aule parlamentari ad abusare delle prerogative riconnesse alla loro carica per difendersi “dai” processi intentati nei loro confronti - , il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino ha individuato in alcune infelici scelte legislative, nell’irrazionale gestione delle esigue risorse disponibili, nelle carenze degli organici e nell’eccessiva farraginosità della disciplina che governa tanto il processo civile quanto il processo penale le principali cause della manifesta inadeguatezza del suddetto sistema a rispondere alle istanze dei cittadini.
Alle osservazioni del Capo della Procura torinese ha prontamente risposto Walter Veltroni, il quale – assicurando che la materia della giustizia sarà al centro del programma del nuovo soggetto politico – ha precisato come l’approvazione di un rigoroso Codice Etico interno consentirà al PD di presentarsi agli elettori come una forza in grado di superare quella perversa rete di privilegi e clientele che della famosa Casta costituisce la principale ragion d’essere.
In questo senso, è stato espressamente richiamato l’art. 5 comma 2 del medesimo Codice Etico, norma la quale di fatto preclude la candidatura nelle liste del Partito Democratico di soggetti sottoposti a procedimento penale per reati connessi al fenomeno mafioso o per delitti di particolare pericolosità sociale, condannati in via non definitiva per fatti di corruzione o concussione, condannati con sentenza passata in giudicato per altre fattispecie criminose contraddistinte da un non ben precisato “carattere di particolare gravità”.
Ora, se da un lato non si può negare che l’introduzione di un simile principio costituisce un notevole contributo alla riaffermazione di una concezione “etica” della politica (come tale, ispirata ai valori dell’onestà, della trasparenza e del rigore morale), non si può d’altro lato non rilevare come la disposizione sopra richiamata presenta, nel suo ambito applicativo, una preoccupante serie di zone d’ombra.
Essa infatti non solo permette che nelle liste del nuovo partito trovino spazio soggetti condannati in primo grado o in grado di appello per delitti particolarmente riprovevoli contro il patrimonio, l’economia o la pubblica amministrazione (si pensi, solo per fare qualche esempio, al reato di abuso d’ufficio, alle ipotesi di truffa o alle tante fattispecie connesse alla c.d. criminalità economica, come l’aggiottaggio o l’insider trading), ma non impedisce nemmeno la candidatura dei tanti politici indagati – o addirittura rinviati a giudizio – con riferimento alle numerose inchieste per fatti di corruzione che quotidianamente riempiono le pagine dei giornali dedicate alla cronaca giudiziaria.
Premesso inoltre che al momento non è possibile individuare le ipotesi delittuose che verranno considerate gravi a tal punto da impedire ad un soggetto condannato in via definitiva di sottoporsi al giudizio degli elettori, i limiti previsti all’applicabilità di questa “norma anti-casta” verranno desumibilmente giustificati attraverso il ricorso a logiche di tipo garantista che impongono di non comprimere eccessivamente lo spazio di partecipazione alla vita politica in particolare per quei cittadini la cui reità non è stata accertata attraverso una sentenza avente l’efficacia del giudicato.
Tuttavia, nella prospettiva di assicurare un equilibrato contemperamento di siffatte logiche garantiste con la già richiamata necessità di riaffermare una concezione etica della politica, riteniamo che la statuizione di una regola diversa – volta ad impedire la ricomprensione nelle liste del nuovo soggetto politico di tutti coloro i quali risultano, a seguito di un decreto del PM o di un provvedimento del GUP assunto sulla base delle risultanze delle indagini preliminari, rinviati a giudizio per reati punibili con l’applicazione di una pena superiore ai due anni di reclusione – avrebbe determinato il radicale superamento delle ragioni di perplessità appena segnalate.
In questo senso, riprendendo le argomentazioni di Caselli, è facile ipotizzare che se tutti i partiti afferenti all’area progressista si attenessero a tale rigoroso principio nella scelta dei candidati per le prossime consultazioni elettorali, la buona politica, per una volta, riaffermerebbe il suo primato su quell’insieme di immunità e guarentigie da cui il ben noto fenomeno dell’antipolitica di fatto trae vita.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

sabato, febbraio 09, 2008


LA QUARESIMA DEI PROGRESSISTI: TRA RIFORMISMO NEOCENTRISTA E SOVVERSIVISMO DA SALOTTO

La scelta di Veltroni di affrontare la prossima competizione elettorale procedendo alla formazione di autonome liste del PD, affrancate come tali da ogni vincolo di coalizione con le altre forze che sostenevano l’ultimo governo – Prodi, ha avuto un effetto dirompente su uno scenario politico già di per sé particolarmente fluido. Mentre Berlusconi si affanna ad imbarcare nel nuovo Partito delle Libertà tanto le pecorelle smarrite della vecchia CdL (ritornate mestamente all’ovile di Arcore dopo i ruggiti dello scorso autunno) quanto gli sciacalli fuoriusciti dall’Ulivo, le forze della c.d. “sinistra radicale” sembrano avere passivamente avallato l’auto-imposizione di Bertinotti come prossimo candidato-premier.
Tuttavia, se la determinazione del Sindaco di Roma di sancire il superamento del centro-sinistra appare una mossa (potenzialmente suicida, ma) tutto sommato coerente con le logiche di un partito nato con l’obiettivo di sfondare al centro, la candidatura del Presidente della Camera pone un serio problema di rappresentatività per quella fetta di elettorato progressista la quale, avendo avversato il progetto del PD proprio per non recidere i legami con in socialismo europeo, non è comunque disposta a rinnegare la Bolognina con diciotto anni di ritardo.
In questo senso, dopo il congresso del Mandela Forum, la minoranza diessina che faceva capo a Fabio Mussi si trovava di fronte a tre diverse opzioni: partecipare in chiave critica alla fase costituente del nuovo soggetto politico; confluire in massa nelle altre forze collocate nell’ala radicale de “L’Unione”; avviare una fase nuova diretta a favorire la creazione di una sinistra “moderna e plurale”, capace di declinare i temi della giustizia, del lavoro, dei diritti civili, della laicità e della questione morale dalla prospettiva di una credibile realtà di governo.
Sinistra Democratica nasceva proprio con questo obiettivo: garantire, anche in Italia, la presenza di una forza del socialismo europeo analoga alla SPD tedesca o al Partido Socialista Obrero Español; di una forza in grado di governare i grandi cambiamenti che animano la società moderna e di non rassegnarsi al semplice ruolo di partito d’opposizione. Premesso che l’alleanza con il PD costituiva un logico presupposto di siffatto progetto, l’obiettivo appena menzionato è stato alla lunga perso di vista nel processo costituente della Cosa Rossa, fatalmente fagocitato dallo sterile massimalismo di Rifondazione Comunista, la quale appare tuttora troppo interessata a non perdere la sua storica dimensione di movimento di lotta (appena imborghesito dalle cravatte in cachemire del suo leader) per rimettersi in discussione nell’ambito di una più ampia realtà del “socialismo del XXI secolo”.
Proprio lo smarrimento del suddetto obiettivo sta alla base dello scarso supporto fornito ai sindacati nella fase successiva alla ratifica del protocollo di intesa relativo alla lotta al precariato, delle troppe incertezze con riguardo alle posizioni da assumere in ordine al delicatissimo tema della laicità dello Stato, dell’incapacità di procedere ad una rigorosa difesa dell’autonomia della Magistratura dopo le deliranti accuse del Ministro di Ceppaloni.
Tutto ciò premesso, all’indomani della crisi di governo, di fronte al riformismo neocentrista di Veltroni ed al sovversivismo da salotto di Bertinotti, i progressisti italiani si trovano privi di un punto di riferimento in grado di rappresentare le istanze che provengono da ampi settori della società civile, mentre la prospettiva del “voto utile” (del consenso accordato al partito più forte allo scopo di arginare la marcia del Caimano verso Palazzo Chigi) inizia ad apparire come l’unica strada percorribile per i tanti esponenti della minoranza diessina che credevano nella possibilità di realizzare una concreta alternativa al Partito Democratico.
Insomma, siamo davvero alla quaresima della sinistra: che almeno “qualcuno, in resurrezione, piano e in silenzio, torni a pensare”.

Carlo Dore jr.