sabato, maggio 31, 2008


FASCISTI DA MARTE

Se Karl Marx avesse la possibilità di esprimere un giudizio sull’attuale situazione politica in Italia, non esiterebbe a rilevare che un fantasma si aggira da quasi vent’anni per il nostro Paese: è il fantasma del Revisionismo, un fantasma capace di obliterare nel nuovo calderone della “pacificazione nazionale”alcune delle più significative pagine della Storia del ‘900, di trasformare su due piedi i martiri in carnefici, i dittatori in politici illuminati, gli squadristi delle Brigate Nere in onesti difensori di una “rispettabile, anche se non condivisibile” corrente di pensiero.
Tuttavia, se inizialmente le apparizioni di questo strano fantasma si erano esaurite nelle tristi cerimonie di commemorazione dei “ragazzi di Salò” e nelle infondate teorie di qualche giornalista riscopertosi paladino del “sangue dei vinti”, il ritorno delle destre al potere sembra avere disvelato il vero volto dello spettro tanto a lungo alimentato dai nostalgici del Ventennio fascista.
Ora, dinanzi alla parata di saluti romani e croci celtiche che ha accompagnato la marcia di Alemanno verso il Campidoglio, dinanzi alla proposta avanzata dallo stesso ex leader della Destra Sociale di intitolare una strada della Capitale a Giorgio Almirante (storico fondatore del MSI nonché Capo di Gabinetto del Ministro Mezzasoma durante la Repubblica Sociale), dinanzi al rigurgito di puro estremismo che sembra animare le nuove ronde dei cultori della “sicurezza fatta in casa”, una domanda sorge spontanea: possibile che, dalla Garbatella all’Arena di Verona, la “marea nera” a cui faceva riferimento D’Alema in una delle sue ultime interviste stia lentamente – e nell’indifferenza generale – sommergendo l’Italia? Possibile che lo sparuto drappello di camice nere guidato alla conquista del Pianeta Rosso dal mitico gerarca Barbagli (personaggio cult delle trasmissioni di Corrado Guzzanti) abbia deciso di fare ritorno da Marte per riconquistare un posto al sole di Roma?
La più convincente risposta a tale interrogativo è stata fornita da Giorgio Bocca attraverso le pagine de “l’Unità”: i fascisti non sono semplicemente sbarcati da Marte, i fascisti, secondo il partigiano-scrittore, “si sono riciclati, hanno il potere, sono tornati in forze, e, come hanno detto, non si sentono più figli di un Dio minore”. Non deve quindi stupire più di tanto il tentativo di Alemanno di intitolare una via della Città Eterna ad un sostenitore delle leggi razziali, né possono provocare particolare meraviglia le affermazioni di un vecchio imprenditore dal passato discutibile che quotidianamente dichiara la sua “genetica appartenenza” alla cultura del Ventennio.
No, a destare sincero sconcerto è la rinuncia da parte della sinistra ad esercitare il proprio tradizionale ruolo di garante dei valori dell’antifascismo consacrati nella Carta Fondamentale, rinuncia confermata tanto dalle ben note frasi di Violante sui “caduti della RSI” quanto dalle incertezze dimostrate dai compilatori del manifesto del Partito Democratico nell’individuare la base storica fondante del nuovo soggetto politico nella Resistenza e nella lotta partigiana. In questo senso, le riflessioni di Giorgio Bocca suonano davvero come una condanna inappellabile: “la sinistra? Perché, c’è ancora la sinistra? Ho l’impressione che pur di campare la sinistra, o quel che rimane, sia disposta a tutto. Bisogna mangiare nella greppia del potere per tirare avanti”.
Sinistra, antifascismo, lotta partigiana: sono i valori a cui tre generazioni di progressisti italiani hanno ispirato la loro formazione ideologica, e sono i valori che oggi rischiano di essere sacrificati sull’altare della mediaticissima “politica deideologizzata” dei loft e degli uomini soli al comando, dei “mi consenta” urlati a reti unificate”, delle “pacificazioni nazionali” create attraverso il classico colpo di spugna.
Ma davvero ha ragione Bocca? Davvero la cancellazione della sinistra conseguente alla creazione del PD ha segnato la fine della nostra storia? Davvero la stagione politica che attualmente attraversiamo conferma la sconfitta morale dei Gramsci, dei Pertini, dei Rosselli e dei Gobetti e di tutti quanti opposero la forza delle loro idee e della loro “sola e puerile voce “ all’imperversare delle squadre della morte? Davvero il fantasma del Revisionismo può alterare in via definitiva quello che è stato il reale corso degli eventi?
Forse. Ma forse no: il tracollo subito alle ultime elezioni dai teorici del “ma-anchismo” veltroniano e dal cartello dell’Arcobaleno non può avere determinato la sparizione di quella “sinistra diffusa” che da sempre rappresenta la parte più viva e vitale della società italiana. Spetta dunque a questa componente della società civile affermare l’attualità dei valori dell’antifascismo costituzionale in confronto di quanti intendono intitolare strade ai fautori del “mito della razza”; spetta a questa componente della società civile il compito di fermare la marea nera, ridestando il Paese intero dal “sonno della ragione” in cui sembra precipitato la notte del 14 aprile; spetta a questa componente della società civile difendere dalle tenebre imposte dal fantasma del Revisionismo quella sorta di ideale monumento alla libertà che, ricorrendo alle parole di Pietro Calamandrei, “si chiama, ora e sempre, Resistenza”.

Carlo Dore jr.

martedì, maggio 20, 2008


LA “RIVOLUZIONE PROMESSA” ED IL “DITTATORE BUONO”
(Sulle prospettive di riforma della Costituzione)

Il tema delle riforme costituzionali su cui attualmente si registra la prospettiva di una serie di “larghe intese” tra maggioranza e opposizione si basa, in questa particolare fase storica, sull’ideale contrapposizione tra due concetti fondamentali: quello di “rivoluzione promessa” e quello di “dittatore buono”.
Pietro Calamandrei affermava infatti che l’entrata in vigore Costituzione del 1948 costituiva non già il momento conclusivo di una stagione riformatrice ormai prossima al tramonto, ma il momento iniziale di una vera e propria “rivoluzione” diretta a creare un modello di società più giusto dopo la barbarie del fascismo.
In questo senso, la “carica rivoluzionaria” propria della nostra Carta Fondamentale (derivante dall’incontro tra la cultura cattolica e la cultura socialista) sarebbe contenuta nel disposto dell’art. 3: premesso infatti che il primo comma della norma in esame precisa che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge (recependo il Costituente l’assunto in base al quale non c’è libertà senza eguaglianza, e non c’è democrazia senza eguaglianza e libertà), il secondo comma della stessa norma rileva come la Repubblica non deve soltanto ergersi a mero garante dei diritti individuali, ma deve anche rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese.
La carica rivoluzionaria propria di siffatta disposizione costituisce la ragione giustificativa dell’estrema attualità dei principi costituzionali, attualità confermata dal fatto che, sessant’anni dopo l’entrata in vigore della Carta, l’interprete può rinvenire nell’ambito di alcuni dei principi in essa contenuti (si pensi all’ art. 21, relativo alla libertà di espressione; all’art. all’art. 41, laddove si precisa che l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con la libertà, la sicurezza e la dignità umana; agli artt. 101 e 104, i quali configurano la Magistratura come un ordine autonomo rispetto al potere politico) la soluzione dei più stringenti problemi che oggigiorno attanagliano il nostro Paese.
Tuttavia, malgrado l’assoluta vitalità che contraddistingue la nostra Carta Fondamentale, nelle ultime quattro legislature sono state avanzate ben tre proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, laddove sono contenuti i principi che delineano la forma di governo e che disciplinano i rapporti tra i poteri dello Stato. Le motivazioni su cui si basavano questi progetti di riforma venivano costantemente individuate nella necessità di eliminare gli eccessivi bizantinismi che appesantiscono il procedimento legislativo, nella necessità di garantire maggiore stabilità all’Esecutivo; nella necessità di rafforzare i poteri del premier, introducendo di fatto nel sistema una sorta di “dittatore buono” capace, grazie al consenso del corpo elettorale, di risolvere con rapidità ed efficacia i tanti problemi del Paese.
Ciò malgrado, a quanti hanno avuto modo di esaminare - come studiosi o come semplici militanti - i principali avvenimenti che hanno scandito gli ultimi quindici anni della storia italiana non può essere sfuggito il tentativo di imputare a pretese carenze del sistema istituzionale una serie di situazioni di crisi derivanti da deformazioni esclusivamente interne al sistema politico, in quanto riconducibili alla tendenza di alcuni partiti a rompere o a mettere in discussione il programma elettorale in ragione di mere strategie di potere.
In questo senso, mentre la riforma proposta dalla bicamerale D’Alema intendeva superare la forma di governo parlamentare per introdurre una sorta di “semi - presidenzialismo all’italiana” (un modello cioè simile a quello francese, caratterizzato però da alcuni correttivi), il disegno elaborato nel 2005 dai c.d. “saggi di Lorenzago” mirava viceversa ad instaurare una sorta di dittatura del premier, dittatura basata sul totale svilimento delle prerogative del Presidente della Repubblica (ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni del Presidente del Consiglio), sul radicale asservimento del Parlamento alla volontà dell’Esecutivo (asservimento realizzato attraverso l’attribuzione al premier del potere di scioglimento delle camere, scioglimento previsto peraltro come automatica conseguenza dell’approvazione di una mozione di sfiducia), sulla sostanziale sottoposizione della Corte Costituzionale al controllo della maggioranza parlamentare. Insomma, se si considera che quella riforma era una sorta di inno al berlusconismo, si può affermare con ragionevole certezza che essa era finalizzata a consegnare ad un dittatore neanche tanto buono le chiavi del sistema - Italia.
Ora, quella che si è appena aperta è stata descritta come una legislatura costituente, come una legislatura in cui maggioranza ed opposizione dovrebbero cooperare per riscrivere insieme le regole del gioco. Tuttavia, in campagna elettorale Berlusconi sul punto è stato chiaro: il dialogo sulle riforme istituzionali deve ripartire dalla bozza di Lorenzago. Allo stato delle cose, sembra difficile che il Caimano cambi idea, e sembra ancor più difficile che questo PD possa incidere in maniera sensibile sulle scelte della maggioranza. Tuttavia, è nostro compito in questa sede porre una domanda: esistono le condizioni per cambiare la Costituzione? A nostro sommesso avviso, la risposta è no, ed è una risposta che si basa su molteplici argomentazioni.
Abbiamo infatti già avuto modo di sottolineare come la Carta del 1948 nasce dall’incontro tra cultura cattolica e cultura socialista, dalla sostanziale condivisione, da parte di tutte le principali forze presenti nell’Assemblea Costituente, dei valori e degli ideali che avevano animato la Resistenza e la lotta di Liberazione. Oggi quale sostrato di valori l’area democratica del Paese può condividere con “questa destra”? Con una destra di cui è autorevole esponente un intellettuale come Gianni Badget Bozzo, che non più di due giorni fa è arrivato a definire l’antifascismo come una forma di “fascismo rovesciato”; con una destra che ha eletto un Presidente della Camera dimostratosi incapace, nel suo discorso di insediamento, di pronunciare anche una sola volta la parola “antifascismo”; con una destra il cui asse portante è costituito da forze politiche direttamente discendenti da quella stessa realtà che i Costituenti avevano dovuto combattere prima di redigere l’attuale Carta Fondamentale?
Tutto ciò premesso, la situazione attuale appare molto più grave di quella profilatasi nel 2005, quando i cittadini si schierarono a difesa della Costituzione anche grazie alla presenza di un partito come i DS che, pur con tutte le sue contraddizioni ed i suoi limiti strutturali, era comunque capace di “fare opposizione” mobilitando i propri simpatizzanti a difesa dei valori di cui quel partito era sempre stato espressione. Oggi quel partito non c’è più, sostituito da una realtà indecifrabile sulla cui capacità di mobilitazione è lecito avanzare qualche dubbio.
E allora, nella speranza che un’eventuale riforma della Carta Fondamentale venga comunque sottoposta al giudizio degli elettori, spetterà alla sola società civile il ruolo di garante dell’integrità dell’attuale ordinamento costituzionale, minacciato dall’avvento del preteso dittatore buono. Nella consapevolezza del fatto che la Costituzione non ha ancora perso la propria attualità, e che la “rivoluzione promessa” teorizzata da Calamandrei deve essere ancora completata.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

venerdì, maggio 09, 2008






IL VOTO ROMANO E LA SARDEGNA: LA “MAREA NERA” NEL GOLFO DI CAGLIARI?

Quando su “L’Unione Sarda” del 27 aprile è apparsa l’intervista in cui Mauro Pili, descrivendo i caratteri propri del “Popolo Sardo delle Libertà”, lasciava trasparire il suo intendimento di correre di nuovo per la Presidenza della Giunta nelle elezioni del 2009, gli elettori del centro-sinistra isolano hanno tirato il più classico sospiro di sollievo. «Vuoi vedere», hanno probabilmente pensato gli ultimi eredi della tradizione di Berlinguer e Lussu, «che il Caimano, nel tentativo di favorire il ritorno del suo eterno delfino a Villa Devoto, riuscirà a rilanciare le ambizioni di vittoria di un Soru in piena crisi di consenso? Vuoi vedere che la “marea nera” che dal 13 aprile sommerge l’Italia è destinata, come nel 1994, a non attraversare il Tirreno? »
Tuttavia, quel sospiro di sollievo era destinato a trasformarsi nell’arco di una giornata in un lungo brivido di terrore, dinanzi al surreale spettacolo offerto da Gianni Alemanno che marciava impettito alla volta del Campidoglio, accompagnato dal boato di una folla plaudente dalla quale emergevano, sinistri ed inquietanti come gli ultimi strascichi di quegli incubi capaci di resistere al sopraggiungere dell’alba, i saluti romani e le croci celtiche.
Le prime analisi del voto capitolino hanno infatti evidenziato una semplice realtà: la sconfitta di Rutelli non deve essere semplicemente interpretata come un naturale strascico del plebiscito ottenuto da Berlusconi alle elezioni politiche, né può essere esclusivamente addebitata all’incapacità del candidato democratico di rilevare le contraddizioni ed i limiti che caratterizzavano i continui proclami da “sindaco-sceriffo” dell’ex leader della destra sociale. No, Rutelli ha perso perché la sua candidatura non ha incontrato il sostegno di un’ampia fetta di elettorato progressista, evidentemente delusa dalle precedenti esperienze di governo del vice-premier uscente; Rutelli ha perso perché non è stato in grado di intercettare i consensi di quella stessa fetta di elettorato che è viceversa risultata decisiva per favorire l’ascesa di Nicola Zingaretti alla Presidenza della Provincia di Roma.
Ora, le spaccature che hanno lacerato l’area democratica della Città Eterna sono drammaticamente simili a quelle che dilaniano il centro-sinistra sardo, da quattro anni alle prese con un estenuante dibattito interno tra i sostenitori di Renato Soru, che rivendicano il diritto del Governatore a proporsi per il secondo mandato, e gli eterni detrattori di Mr. Tiscali, i quali (sulla base di argomenti talvolta condivisibili) hanno ripetutamente negato la loro disponibilità a riconoscerne la leadership nella prossima legislatura. La logica conseguenza di questa irrisolvibile contrapposizione potrebbe tradursi in una realtà di gran lunga più paradossale di quella offerta dai network di Roma la notte del 28 aprile: la “marea nera” che invade il golfo di Cagliari, Mauro Pili che attraversa le strade del capoluogo per dirigersi verso la sede del governo regionale.
Di fronte ad un simile status quo, i progressisti sardi hanno quantomeno il dovere di porsi una domanda: come si ferma la marea nera? Come si esce dal vicolo cieco che conduce al baratro di un’ennesima sconfitta annunciata? La risposta è: non se ne esce, se non attraverso un estremo atto di coraggio da parte di tutti i partiti che al momento sostengono la Giunta. Prendendo atto della volontà del Governatore di proporsi ancora alla guida di quello che fu l’Ulivo in Sardegna, le principali forze dell’attuale maggioranza di governo sono chiamate ad abbandonare una volta per sempre le logiche di stampo verticista tradizionalmente impiegate per la determinazione delle candidature ed a misurare l’effettivo peso elettorale di Soru attraverso primarie di coalizione ispirate a regole serie e rigorose, caratterizzate in quanto tali dalla partecipazione di tutti gli esponenti della sinistra locale che si ritengono in grado di rappresentare un’alternativa di governo più credibile di quella offerta dal Presidente in carica.
Una volta scelto il candidato attraverso una procedura democratica analoga a quella che, nel 2005, lanciò Nichi Vendola alla Presidenza della Regione Puglia, questo candidato dovrà però contare sul convinto sostegno di tutti i cittadini afferenti all’area progressista, sostegno derivante dalla ovvia consapevolezza del fatto che qualunque laeder del centro-sinistra (si chiami Soru o Tore Cerchi, Guido Melis o Francesco Sanna) sarà in ogni caso quello che Lidia Ravera definirebbe “un candidato riformabile”, un candidato cioè sensibile (seppure in minima parte) a quell’insieme di critiche, indicazioni, suggerimenti e contestazioni che la società civile quotidianamente propone e che sarebbero fatalmente destinate a cadere nel vuoto con l’avvento delle destre al potere.
L’esperienza del voto romano costituisce forse l’ultimo campanello d’allarme che può indurre la sinistra sarda a superare le divisioni degli ultimi quattro anni attraverso un estremo sforzo unitario: lo sforzo unitario diretto ad impedire che la “marea nera” attraversi ancora una volta il Tirreno.

Carlo Dore jr.