lunedì, dicembre 21, 2009


IL PD E L’EDITTO DI BONN: “PARTITO DA COMBATTIMENTO” O “FAIR PLAY IDIOTA”?

Se proviamo per un istante a cancellare i fotogrammi della deprecabile aggressione di cui il Presidente del Consiglio è stato vittima la scorsa domenica, emerge come le ultime immagini di Berlusconi offerta ai network di tutto il Mondo si riferiscono al discorso tenuto a Bonn in occasione della convention del PPE, quando il Premier – ricorrendo ad un linguaggio forse più adatto ad un caudillo sudamericano che ad un moderno conservatore europeo – ha proposto ai principali leader del Vecchio Continente la sua personalissima concezione di democrazia.
I passaggi fondamentali di questo ennesimo “editto” del Cavaliere possono essere così sintetizzati: il consenso popolare mi attribuisce il diritto di governare in base a quelli che sono i miei intendimenti; e se il “partito dei giudici” mi sbarra la strada sollevando fastidiose questioni di legittimità costituzionale, allora si cambi la Costituzione, si neutralizzino le toghe militanti, si “bonifichi” la Corte Costituzionale dalle preconcette posizioni di un manipolo di “giudici di sinistra”.
Dinanzi ad affermazioni di questo tenore, la reazione di tutti i partiti di opposizione avrebbe dovuto essere ispirata tanto alle parole di Carlo Azeglio Ciampi quanto agli avvenimenti che hanno scandito lo svolgimento del NO-B. DAY del 5 dicembre: piazze piene, indignazione crescente, elettori e militanti mobilitati per gridare a tutta forza che l’adagio: “L’etat c’est moi” non è compatibile con le dinamiche di una democrazia proiettata nel XXI secolo.
Invece, anche all’interno del PD, al modello del “partito da combattimento” tratteggiato da Bersani durante la campagna per le primarie – del partito cioè schierato in prima linea nelle battaglie sui grandi temi della legalità, del lavoro e della giustizia sociale – è stata ben presto contrapposta quella che Franco Cordero ha efficacemente definito come la strategia del “fair play idiota”: la strategia di quanti, invocando il superamento dell’antiberlusconismo e la necessità di rilanciare il dialogo sulle riforme, legittimano ancora una volta il Cavaliere come interlocutore credibile anziché denunciarne (sempre secondo l’autorevole giurista torinese) la dimensione di “affarista ignorante, caimano, criminofilo, guastatore dell’ordinamento, gaffeur sguaiato sulla pelle italiana”.
Sia l’esperienza della bicamerale del 1996 sia soprattutto quella della “nuova stagione” veltroniana del 2007 confermano però come il progetto volto a costringere Berlusconi a sedersi al tavolo delle regole per suggellare un nuovo patto costituente si traduce in un percorso tanto pericoloso nella sua attuazione, quanto irrealizzabile nel suo obiettivo finale.
Pericoloso, in ragione del fatto che le troppe incertezze manifestate dal PD su temi centrali come la giustizia e le riforme istituzionali - incertezze alimentate dalle improvvide sortite di alcuni parlamentari in cerca di visibilità – contribuiscono ad alimentare confusione nell’ambito di un elettorato che, in ragione dell’ascesa alla segreteria di un dirigente del calibro di Bersani, aveva appena ricominciato a credere nella possibilità di costruire una seria alternativa di governo per il Paese.
Irrealizzabile, se si considera che le riforme a cui mira il Cavaliere (dal legittimo impedimento al processo breve; dalla costituzionalizzazione del Lodo Alfano al ripristino delle immunità parlamentari; dalla separazione delle carriere di giudici e PM alla revisione dei criteri di composizione del CSM e della Consulta), lungi dal perseguire un interesse generale, mirano esclusivamente a superare gli equilibri delineati da una Costituzione talmente viva e vitale da rappresentare il principale ostacolo alla deriva egocratica che Berlusconi vorrebbe imporre all’Italia.
Partendo dunque dal presupposto che l’aggressione di domenica scorsa non può cancellare la gravità delle dichiarazione contenute nell’editto di Bonn, la correttezza della posizione di Corsero emerge in tutta la sua evidenza: non c’è spazio per il dialogo, serve un PD mobilitato a difesa dell’integrità dell’ordinamento e dei principi ispiratori della Carta Fondamentale. In altre parole, per contrastare un premier sempre più simile ad un caudillo sudamericano che ad un leader europeo, serve un “partito da combattimento”, capace infine di non ricadere nel letale tranello del “fair play idiota”.

Carlo Dore jr.

lunedì, dicembre 14, 2009


DIRITTO DI CRITICA, DELITTO DI AGGRESSIONE,
CULTURA DELLA LEGITTIMITA'
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Tra le tante reazioni che il mondo politico ha proposto a seguito della sconcertante aggressione subita dal Presidente del Consiglio al termine del comizio di domenica sera, le parole di alcuni esponenti del PDL – i quali hanno dichiarato che taluni Pubblici Ministeri “non sarebbero estranei al clima di odio che si è innescato nel Paese” – meritano una riflessione ulteriore.
Una volta ribadita la totale, assoluta estraneità alle logiche della normale dialettica democratica di qualunque atto diretto a confondere la protesta con la violenza, il diritto di critica con il delitto di aggressione, non si comprende come il legittimo esercizio delle prerogative che la Carta Fondamentale riconnette alla Magistratura – ed in particolare alla Magistratura requirente – possa alimentare quel diffuso “clima di odio” che costituirebbe il retroterra culturale dell'aggressione di cui il Premier è stato vittima.
Premesso infatti che l'art. 104 della Costituzione descrive la Magistratura alla stregua di un ordine autonomo ed indipendente rispetto ad ogni altro potere e che l'art. 101 precisa che i giudici sono soggetti “solamente alla legge” (e non alla contingente volontà di una determinata maggioranza politica), l'art. 112 della stessa Carta Fondamentale configura in capo al Pubblico Ministero l'obbligo di esercitare l'azione penale. Attraverso quest'ultima disposizione (da interpretarsi alla luce del principio dell'eguaglianza formale di cui all'art. 3 Cost.), il Legislatore Costituente richiede al Pubblico Ministero che riceve una notizia di reato di svolgere le relative indagini, indipendentemente dalle condizioni personali del soggetto a cui quel reato viene contestato, spettando quindi allo stesso P.M. il potere di valutare, al termine dell'attività istruttoria, se sussistono o meno le condizioni per domandare il rinvio a giudizio.
Alla luce dei principi appena esposti, operano dunque nel pieno rispetto della legalità costituzionale tanto quei Pubblici Ministeri che svolgono delle indagini su soggetti chiamati a ricoprire una carica istituzionale di primo piano (posto che l'assunzione di tale carica, pur conseguente all'investitura popolare, non implica di per sé l'automatica attribuzione al titolare della medesima di un'immunità riferita a qualunque ipotesi di reato), quanto quei magistrati che riaffermano, anche attraverso i mezzi di informazione, il loro diritto di esercitare le funzioni che ad essi competono nelle condizioni di autonomia ed indipendenza dal potere politico a cui fa riferimento la stessa Costituzione.
E' vero, c'è un brutto clima oggi in Italia: ma, in base al ragionamento finora svolto, occorrerebbe forse riflettere su quanto i continui attacchi, condotti dagli esponenti di una determinata parte politica, ad alcuni settori della Magistratura, alla funzione di garanzia svolta dalla Corte Costituzionale, all'imparzialità ed all'equilibrio del Capo dello Stato abbiano contribuito ad elevare il livello della tensione che caratterizza lo scontro politico al momento in atto nel nostro Paese. Nella piena consapevolezza del fatto che la necessità di non confondere il diritto di critica con il delitto di aggressione non può e non deve produrre, quale assurdo effetto collaterale, il superamento della cultura della legittimità.

Carlo Dore jr.

domenica, dicembre 06, 2009


“IL NO-B. DAY E’ FINITO. ORA CHE FACCIAMO?”:
RICOSTRUIAMO IL RAPPORTO TRA I PARTITI E L’ITALIA CHE CREDE.


Mentre nelle piazze di tutta Italia rimbomba ancora l’eco delle manifestazioni collegate al “No-B. day”, un importante esponente del centro-sinistra sardo, attraverso la sua personale pagina web, domanda: “Il No-B. day è finito; ora che facciamo?” Premesso che le posizioni espresse da determinati uomini politici non scadono mai nella banalità, su questo interrogativo è necessario proporre una riflessione attenta, anche in considerazione del fatto che dall’iniziativa del 5 dicembre provengono almeno tre segnali importanti per il futuro della politica italiana.
Primo segnale: le tante persone che si sono riversate in Piazza San Giovanni rappresentano la migliore risposta alla favola, ossessivamente ripetuta a reti unificate dai vari sottufficiali del Cavaliere, del Paese appiattito sulla figura del Premier. L’Italia non risponde al modello di Paese tratteggiato dai pamphlet di Fede e Minzolini o dagli editoriali di Feltri e Belpietro; non si identifica passivamente nella politica dell’immunità teorizzata da Ghedini o nel separatismo rondista della Lega Nord.
Secondo segnale: c’è un’Italia che ancora crede. Crede nel bisogno di legalità gridato a tutta forza da Salvatore Borsellino e dai ragazzi di Corleone; crede nel modello di giustizia più volte declinato da magistrati democratici come Giancarlo Caselli, Gherardo Colombo o Antonio Ingroia; crede nel modello di democrazia delineato dalla Costituzione nata dalla Resistenza e dalla lotta partigiana, di cui Giorgio Bocca ha appassionatamente difeso il valore. Crede, in altre parole, che la prospettiva di realizzare un Paese diverso sia ancora configurabile.
Terzo segnale: c’è un’Italia che ancora chiede. Chiede di essere rappresentata adeguatamente da un ceto politico che fatica a proporsi come concreta alternativa allo strapotere berlusconiano; chiede di vedere le proprie istanze, le proprie idee, i propri valori trasformati in un razionale programma di governo da parte delle forze dell’opposizione democratica presenti nelle istituzioni.
La manifestazione di Piazza San Giovanni ha infatti confermato una volta di più l’esistenza di una frattura – forse ancora sanabile – tra partiti e “paese reale”, frattura cagionata dal fatto che i partiti del centro-sinistra hanno troppo spesso rinunciato a svolgere la loro naturale funzione di “punto di sutura” tra politica e società, ora cedendo alla logica del compromesso (come nel caso della Bicamerale o del “dialogo sulle riforme” rilanciato da Veltroni nel 1996), ora trasmettendo messaggi poco intellegibili che l’elettorato non è riuscito a metabolizzare (in questo senso, chiaro è il riferimento alle dichiarazioni di Enrico Letta sulla possibilità per il Presidente del Consiglio di difendersi non solo nel processo, ma anche dal processo).
Tutto ciò chiarito, è dunque possibile affrontare l’interrogativo da cui prende le mosse questa nostra analisi: il No-B. day è finito; ora che facciamo?. La risposta è: ricostruiamo. Forte della legittimazione ricevuta dal popolo delle primarie, Bersani può ignorare i richiami al “dialogo” ed alla “mediazione” talvolta proposti da alcuni settori del suo stesso gruppo dirigente, per dedicarsi alla costruzione di un partito finalmente capace di tradurre in proposte programmatiche l’indignazione che il popolo progressista ha accumulato nei confronti di una maggioranza di governo “a democrazia limitata”.
Il No-B. day è finito; ora che facciamo? C’è un’Italia che crede e che chiede. I partiti hanno il dovere di ascoltarla e di tentare di rappresentarla; di fare in modo che l’Italia dei Borsellino e dei ragazzi di Corleone, dei Caselli e dei Colombo, degli Ingroia e dei Bocca esca dalla condizione di minorità in cui si sente attualmente confinata; di impedire che di questa Italia resti solo l’eco, a rimbombare tra le colonne di una piazza vuota.

Carlo Dore jr.

venerdì, novembre 20, 2009


PRESCRIZIONE PROCESSUALE E IMMUNITA' PARLAMENTARE

Da qualche tempo, anche all'interno dell'area democratica, incontra notevoli consensi la tesi secondo cui il ripristino dell'immunità parlamentare prevista dall'originario disposto dell'art. 68 cost. (che impediva alla Magistratura di sottoporre a procedimento penale un parlamentare senza l'autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza) rappresenterebbe comunque una soluzione preferibile per la crisi istituzionale in atto rispetto all'approvazione della legge sul "processo breve" al momento all'esame del Senato.
In altre parole: se è vero che Berlusconi, pur di non affrontare i tre processi in cui risulta imputato, è disposto ad approvare una legge che finirebbe col porre nel nulla quasi centomila processi allo stato pendenti in primo grado - vanificando così l'aspettativa dei cittadini di avere giustizia, anche di fronte a delitti socialmente allarmanti come il reato di corruzione -, allora tanto vale accordargli l'immunità che chiede. In sostanza: sacrifichiamo tre processi per salvarne altri centomila.
Proprio sull'istututo dell'autorizzazione a procedere di cui sopra vorrei spendere qualche parola: premesso che l'immunità delineata dall'originario disposto art. 68 era stata prevista dai Costituenti all'indomani di una fase storica particolare (durante la quale le pronunce dei Tribunali speciali rappresentavano lo strumento attraverso cui il Regime fascista riduceva al silenzio gli esponenti delle forze di opposizione), detta immunità fu espunta a furor di popolo dall'ordinamento nel non lontano 1993, in quanto percepita - anche da alcune componenti dell'attuale maggioranza di governo - come uno strumento utile non a garantire l'equilibrio del sistema istituzionale, ma ad assicurare l'impunità di una classe politica destinata ad affogare nel fango della corruzione.
Ora, la scelta di ripristinare questa immunità per "superare definitivamente la crisi in atto tra politica e giustizia" non mi pare condivisibile, almeno per tre ordini di motivi. In primo luogo, essa concorrerebbe, specie in un sistema caratterizzato dalla sostanziale cooptazione dei parlamentari, a ridurre ulteriormente i già ristretti margini di responsabilità degli eletti verso gli elettori; in secondo luogo, perchè dimostrerebbe come la Costituzione - tavola di valori universalmente condivisi, in cui sono contenuti sia i principi che governano il funzionamento delle istituzioni democratiche, sia le regole basilari della convivenza civile - può di fatto essere manipolata per assecondare le esigenze contingenti del leader di una maggioranza politica.
Infine, l'applicazione della tesi secondo cui la riforma della Carta Fondamentale sarebbe necessaria per salvaguardare la stabilità del sistema giudiziario e per tutelare l'esigenza del cittadino di "avere giustizia" dinanzi al pericolo dell'approvazione della sciagurata legge sul "processo breve" (sacrifichiamo tre processi per salvarne centomila...) introdurrebbe, a mio avviso, un ulteriore vulnus nell'ambito del nostro ordinamento democratico, imponendo il superamento della democrazia della legittimità e della condivisione a favore della democrazia della sopraffazione.
Troppo, anche per questa Italia in cui, volendo usare le parole del noto costituzionalista Roberto Bin, la tracotanza domina ormai incontrastata nei palazzi del potere.


Carlo Dore jr.

domenica, novembre 15, 2009


DALLA PARTECIPAZIONE ALLE “DELEGHE IN BIANCO”:
BENVENUTI NELL’ERA DELLA “POST-DEMOCRAZIA”

La presentazione del ddl sul “processo breve”, che sarà sottoposto nei prossimi giorni all’esame della Commissione Giustizia del Senato, non deve essere semplicemente interpretato come l’ennesima misura che una maggioranza parlamentare del tutto appiattita sulla voluntas principis intende adottare – in chiaro spregio alle prerogative costituzionali – al solo scopo di garantire l’impunità del solito imputato eccellente.
Questa norma costituisce invece un ulteriore indice della gravità di quella crisi del sistema democratico a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nel suo articolo pubblicato da “La Repubblica” lo scorso 7 novembre, situazione di crisi peraltro facilmente riscontrabile attraverso l’esame del percorso politico delineato dallo stesso Presidente del Consiglio all’indomani della pronuncia con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del Lodo Alfano.
Il ragionamento offerto da Berlusconi alle telecamere di Bruno Vespa può essere infatti così sintetizzato: il Premier è eletto direttamente dal popolo, dunque gli Italiani stanno con il Premier. La Magistratura - con le sue indagini, con i suoi processi, con le sue sentenze, con le sue continue manifestazioni di indipendenza – rischia di sovvertire quella che è l’incontrovertibile volontà popolare: ecco quindi che le “leggi ad personam” non possono essere descritte come una prevaricazione della politica rispetto alle prerogative del potere giudiziario, ma costituiscono viceversa uno strumento utile a garantire la piena attuazione alle indicazioni del corpo elettorale.
Gli Italiani sono con il Premier: e allora, avanti con la legge sulla prescrizione processuale, e pazienza se, per bloccare i tre processi in cui il Presidente del Consiglio risulta coinvolto, si corre il rischio di vanificare altri centomila procedimenti al momento in corso; avanti con il ripristino dell’immunità parlamentare, espunta a furor di popolo dall’ordinamento nel non lontano 1993, anche su iniziativa di alcune delle forze che compongono l’attuale coalizione governativa; avanti con la riforma costituzionale volta ad introdurre l’elezione diretta del Capo dell’Esecutivo, con conseguente superamento della forma di governo parlamentare a favore di un modello istituzionale basato sull’esaltazione del premierato forte. E a quei pochi irriducibili che si ostinano a domandare: “E la democrazia?” il Cavaliere risponde con il suo tagliente sorriso da caimano: “La democrazia? Alla democrazia ghe pensi mì!”
Tuttavia, posto che Ilvo Diamanti ha già più rilevato la sostanziale erroneità dell’affermazione che riconnette al Premier il consenso della maggioranza assoluta degli Italiani, vale forse la pena di chiedere: cosa intendiamo oggi per “democrazia”? Quale valore si attribuisce al concetto di democrazia nel Paese del “Nuovo che avanza”? E soprattutto: l’Italia di Berlusconi può ancora definirsi una democrazia piena ed autentica, o deve rassegnarsi alla condizione di democrazia minore?
Partiamo dal primo degli interrogativi appena formulati: al di là dell’etimologia della parola (democrazia: governo del popolo), siamo naturalmente portati a qualificare la democrazia non come la semplice libertà di scegliere i governanti, ma come la forma di governo in cui i cittadini possono partecipare alla vita politica del Paese, avanzando idee, istanze, proposte che i partiti devono rappresentare in seno ai centri decisionali. In altre parole: la democrazia viene concepita come partecipazione e come condivisione di un programma politico, e i partiti rappresentano lo strumento attraverso cui questo programma trova attuazione.
Ebbene, con il crollo del muro di Berlino e con la crisi (talvolta enfatizzata) delle ideologie tradizionali, l’avvento di Berlusconi ha comportato la trasformazione della democrazia partecipata a cui abbiamo fatto appena riferimento appunto in una forma di “post-democrazia” o di “democrazia a sovranità limitata”, a cui ha fatto seguito il “governo del popolo” con il “governo del leader”.
E’ infatti venuta meno la già descritta condivisione del programma politico, sostanzialmente tramutata in mera condivisione della figura del leader; è venuta meno l’idea del partito come strumento di partecipazione, rispetto alla quale si è ben presto affermata l’idea del partito come possibilità di carriera; è venuta meno la responsabilità degli eletti verso gli elettori, con i cittadini che accettano sempre più spesso di fungere da mero strumento di legittimazione delle decisioni del leader. Insomma, la democrazia concepita come partecipazione ha rapidamente lasciato spazio alla logica della democrazia intesa come “delega in bianco”.
Ecco perché sarebbe errato interpretare il ddl sul processo breve come l’ennesimo svarione di un legislatore grossolano e poco lungimirante: perché questa norma rappresenta in verità un’ulteriore tappa verso l’istituzionalizzazione della post-democrazia, verso l’instaurazione di un sistema imperniato sulla figura di un Premier reso legibus solutus dalla legittimazione plebiscitaria e dal sostegno di una maggioranza di governo composta da parlamentari non scelti direttamente dai cittadini, ma cooptati in base alle indicazioni del princeps.
E a chi continua a chiedere: “E la democrazia? E la partecipazione? E la condivisione di idee, progetti, istanze ed aspirazioni su cui dovrebbe fondarsi ogni programma politico degno di questo nome?”, il Cavaliere continua ad opporre il sorriso da copertina ed i sondaggi da cui emerge la sua perpetua delega in bianco: “La democrazia? Alla democrazia ghe pensi mì!”
Leaderismo plebiscitario, cultura dell’immunità, cooptazione in luogo dell’elezione. E’ questa la concezione della democrazia che si è affermata nell’Italia della Seconda Repubblica: dalla partecipazione alle deleghe in bianco, benvenuti nell’era della “post-democrazia”.

Carlo Dore jr.

sabato, ottobre 31, 2009


LE TRE SFIDE DEL “POST-COMUNISTA” BERSANI

Contrariamente a quanto affermato da alcuni autorevoli commentatori, l’esito delle primarie che ha certificato l’ascesa di Pierluigi Bersani alla segreteria del Partito Democratico non può essere semplicemente interpretato come l’ennesima affermazione della forza degli apparati rispetto alle spinte innovatrici provenienti da determinati settori della società civile, come il momento conclusivo di una strategia sapientemente orchestrata dai signori delle tessere dall’alto delle stanze del potere.
Confermando l’orientamento espresso dagli iscritti in occasione dei congressi di circolo, gli oltre tre milioni di elettori che la scorsa domenica si sono messi in fila davanti ai seggi di tutta Italia hanno infatti voluto lanciare un messaggio politico difficilmente equivocabile: basta con il mito del partito liquido, equidistante tra lavoratori ed imprenditori; basta con l’ossessione del rinnovamento, cavalcata per coprire la mancanza di un progetto di ampio respiro. Il PD deve recuperare la propria dimensione di “partito di massa”, di partito del lavoro capace di costruire sulla base delle istanze che provengono dalle classi sociali più deboli la proposta di governo alternativa al modello gheddafiano con cui Berlusconi sta tenendo sotto scacco il Paese.
Per impartire la tanto attesa “svolta a sinistra” alla strategia del principale partito dell’opposizione democratica, il popolo delle primarie ha scelto di dare fiducia all’approccio concreto ed antimediatico proprio del “post-comunista” Bersani, del dirigente che – per origini, per formazione, per mentalità – appare più vicino al sistema di valori da cui è costituita la migliore tradizione della sinistra italiana.
Tuttavia, sarebbe errato ritenere che, con il voto di domenica, sia pervenuta nelle mani del neo – segretario un’ennesima delega in bianco. No: archiviando una volta per sempre la fallimentare parentesi del veltronismo, della logica del “ma – anche” elevata ad elemento-cardine del programma elettorale, della italianizzazione stucchevole ed un po’ pacchiana degli slogan di Obama, la base ha posto l’ex ministro dello sviluppo economico dinanzi a tre sfide centrali, dal cui superamento dipendono in massima parte le possibilità del centro-sinistra di riuscire a contrastare lo strapotere berlusconiano.
In primo luogo, il definitivo superamento del dogma dell’autosufficienza e della vocazione maggioritaria richiede la costruzione – attraverso la preventiva elaborazione di una piattaforma programmatica condivisa - di un’ampia alleanza progressista, in grado di intercettare anche il contributo delle associazioni e dei movimenti operanti sul territorio; richiede, in altri termini, la riproposizione ed il rafforzamento dell’idea del grande Ulivo formulata da Romano Prodi, già rivelatasi vincente nel non lontano 1996.
In secondo luogo, l’esistenza delle troppe divisioni tra i vari gruppi di potere che si sono finora contesi la guida del partito nell’ambito delle varie realtà locali – divisioni opportunamente indicate da Ilvo Diamanti come una delle principali cause della emorragia di consensi subita dal PD nel corso dell’ultimo anno - impone la realizzazione di una struttura organizzativa stabile imperniata sull’esistenza di regole certe, presupposto indispensabile per porre un freno all’imperversare dei famosi “cacicchi” a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nella sua famosa intervista rilasciata a “La Repubblica” nel dicembre del 2008.
Infine, la vicenda che ha coinvolto Piero Marrazzo – costretto alle dimissioni dai principali dirigenti nazionali proprio per disinnescare la reazione potenzialmente dirompente che l’elettorato avrebbe opposto ad uno scandalo che rendeva di fatto indifendibile l’ex Governatore – ha confermato una volta di più quanto il popolo progressista ancora creda nella questione morale, in una concezione etica della politica lontana anni – luce dal clima da Basso Impero che da anni si respira nei paraggi di Palazzo Grazioli.
Ebbene, proprio a Bersani – fino a ieri frettolosamente definito da avversari ed eterni detrattori come il passatista, il conservatore, l’uomo dell’apparato, il mandatario dei signori delle tessere – spetta ora il difficile compito di ridare fiato alla cultura berlingueriana della partito inteso non come veicolo per il potere ma come strumento di attuazione dell’interesse generale, favorendo il graduale ricambio generazionale nell’ambito di certi settori di una classe dirigente che di questa cultura non viene più percepita come autentica ed integrale espressione.
Queste sono le grandi sfide che gli elettori delle primarie chiedono al nuovo segretario di affrontare, per traghettare il Paese fuori dalle sabbie mobili dell’autoritarismo di una destra forcaiola ed amorale. Tre milioni di voti per vincere tre sfide decisive: le tre sfide del “post-comunista” Bersani.

Carlo Dore jr.

venerdì, ottobre 16, 2009


DUE SPINE PER IL PD: QUANDO IL CAOS NON E’ DEMOCRATICO

Conclusa con la Convenzione nazionale di domenica scorsa la prima fase del congresso del Partito Democratico, le polemiche che stanno caratterizzando la campagna per le elezioni primarie attraverso cui verrà scelto il nuovo segretario del principale partito del centro-sinistra italiano suggeriscono alcune riflessioni sui possibili assetti che potrebbero delinearsi all’indomani della tornata elettorale del 25 ottobre.
Accordando la maggioranza assoluta dei consensi alla mozione che fa capo a Pierluigi Bersani, gli iscritti hanno chiaramente dimostrato di aderire alla proposta del “partito fortemente radicato e identitario”, capace di fungere da perno di un’ampia coalizione riformista che l’ex ministro dello sviluppo economico da sempre declina. Ora – a causa dei troppi bizantinismi imposti alla fase congressuale da uno statuto talmente elaborato da apparire, agli occhi di un osservatore obiettivo, in definitiva poco razionale – si deve rilevare come, dopo le primarie, potrebbero aprirsi tre differenti scenari, due dei quali potenzialmente qualificabili come autentiche “spine nel fianco” per il processo di rafforzamento del nuovo soggetto politico.
Se infatti gli elettori dovessero confermare l’orientamento espresso dai congressi di circolo, la “svolta a sinistra” più volte invocata da Bersani troverebbe la sua completa attuazione: liberato dall’influenza neocentrista esercitata da Rutelli e dagli odiati Teo-dem, ecco che il PD potrebbe promuovere, anche con la benedizione di Romano Prodi, la creazione di una vasta alleanza di tutte le principali forze di opposizione, capace di guardare tanto al centro quanto a sinistra. Insomma, si tornerebbe a cavalcare l’iniziale progetto del “Grande Ulivo”, impostato su quel modello di PD “formato PDS” in cui gran parte dei militanti ex diessini hanno ricominciato a credere dopo il tracollo del veltronismo e dell’idea del partito liquido.
Ma che succede se invece – sull’onda di una campagna congressuale sapientemente condotta più con la passione dello sfidante lanciato alla conquista della leadership che con la lucidità propria di un segretario uscente che mira ad essere riconfermato nella sua carica – Franceschini dovesse riuscire a convincere il popolo delle primarie a sovvertire le indicazioni degli iscritti? Al di là delle incertezze sulla futura identità del PD (Franceschini ha finora dimostrato un’indubbia abilità nell’apparire abbastanza antiberlusconiano da sfuggire all’etichetta di moderato, ed al contempo abbastanza radicato al centro da rassicurare quella fetta di elettorato cattolico che teme la svolta progressista), si verificherebbe il piccolo paradosso di un segretario che governa il partito contro la volontà degli iscritti, paradosso discendente da quel potenziale cortocircuito – più volte denunciato da D’Alema – tra determinazioni della struttura e risultato delle primarie che le sopra citate norme statutarie rischiano di innescare.
Tuttavia, se tanto lo stesso Franceschini quanto Bersani hanno tentato di scongiurare ogni possibile situazione di empasse impegnandosi reciprocamente a riconoscere come segretario il candidato che - anche senza ottenere la maggioranza assoluta dei consensi - “riporterà un voto in più” in occasione della competizione del 25 ottobre, Ignazio Marino sembra deciso a far valere fino in fondo il peso che i suoi delegati potrebbero assumere in seno all’Assemblea nazionale in caso di ballottaggio.
Ecco quindi che, accanto alle due situazioni su cui abbiamo finora ragionato, potrebbe delinearsi una “terza via”, difficilmente configurabile ma forse da non scartare, specie alla luce della svolta laica osservata dal segretario uscente negli ultimi giorni. Ipotizziamo infatti che Bersani ottenga alle primarie una maggioranza non tale da assicurargli una vittoria diretta: non è da scartare che la confluenza su Franceschini dei voti dei delegati facenti capo a Marino sia decisiva per garantire la riconferma all’ex vice di Veltroni. A quel punto il paradosso sarebbe duplice: Franceschini si troverebbe a dirigere il partito non solo contro la volontà dei tesserati, ma addirittura in violazione di quello che è l’orientamento espresso dalla maggioranza (seppure relativa) dei partecipanti alle primarie!
Solo fantapolitica? Forse. Quel che è certo è che, a seconda dell’esito che caratterizzerà le elezioni di domenica prossima, il meccanismo del “doppio binario congressuale” previsto dallo statuto rischia di gettare il PD nel caos. E, contrariamente a quanto affermava Michele Salvati in un bell’articolo apparso su “L’Espresso” all’indomani del famoso discorso tenuto da Veltroni al Lingotto, non si può certo sostenere che il caos sia democratico.


Carlo Dore jr.

mercoledì, ottobre 07, 2009


LODO ALFANO: IL PRIMATO DELL’EGUAGLIANZA SULLA VOLONTA’ DEL “PRIMUS SUPER PARES


Le reazioni proposte all’opinione pubblica da alcuni esponenti della maggioranza di governo dopo la lettura del dispositivo della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del c.d. “Lodo Alfano” per violazione degli artt. 3 e 138 della Carta Fondamentale si collocano nella stessa linea di ragionamento che aveva caratterizzato le arringhe svolte dagli avvocati Ghedini e Pecorella nell’udienza tenutasi ieri dinanzi all’Alta Corte.
Premesso infatti che “se la Legge è uguale per tutti, non necessariamente lo è la sua applicazione”, specie in un sistema politico imperniato sulla figura di un Presidente del Consiglio reso qualificabile dalla legittimazione popolare alla stregua di un “primus super pares”, ecco che qualsiasi fattore in grado di intralciare il progetto del Princeps (dalle sentenze della Consulta alle parole del Capo dello Stato, dalle inchieste dei giornali alle opinioni espresse nei salotti televisivi da qualche sparuto opinionista indipendente) viene per forza di cose inquadrato nell’ambito di un più ampio progetto eversivo, volto a ribaltare per via “mediatica e giudiziaria” le inequivocabili indicazioni provenienti dal corpo elettorale.
Tuttavia, ad un osservatore equilibrato non sfugge come, lungi dal delineare prospettive di eversione, attraverso la decisione di oggi la Consulta abbia voluto ristabilire tre fondamentali principi, già rappresentati dai cento costituzionalisti che più volte hanno rilevato i molteplici profili di incostituzionalità che caratterizzavano le norme indubbiate.
In primo luogo, il Giudice delle Leggi ha voluto ribadire come, essendo contenuta nella Costituzione la disciplina delle immunità previste a favore dei soggetti chiamati a ricoprire un incarico istituzionale, deve individuarsi nella legge di revisione costituzionale (approvata attraverso il procedimento aggravato di cui all’art. 138 Cost.) lo strumento idoneo a determinare l’introduzione nell’ambito dell’ordinamento di una disposizione volta a garantire la sospensione dei processi nei confronti del Presidente del Consiglio o delle altre Alte Cariche dello Stato.
In secondo luogo, la Corte ha escluso la compatibilità della regula iuris contenuta nella disposizione in esame con il dettato dell’art. 3 comma 1 della Carta Fondamentale. Posto infatti che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla Legge, senza distinzioni di sesso, lingua, razza, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, la creazione di una cerchia di soggetti resi di fatto “legibus soluti” dalla volontà degli elettori rappresentava un chiaro superamento di quel principio dell’eguaglianza formale sui cui il nostro ordinamento si fonda.
Ma soprattutto, mediante la pronuncia in commento, il Giudice delle Leggi ha confermato come, anche in un momento storico in cui le determinazioni dell’Uomo solo al comando tendono a prevalere sulle debolezze della politica, favorendo la graduale affermazione del Potere Esecutivo e la corrispondente riduzione del Parlamento al ruolo di mero organo di ratifica delle decisioni assunte a livello governativo, le Istituzioni di garanzia come la Magistratura, il Capo dello Stato e la Corte Costituzionale sono ancora in grado di impedire l’affermazione delle logiche ispirate all’adagio “L’Etat c’est moi” a cui il Presidente del Consiglio sembra fare costantemente riferimento. Anche in questa Italia alla deriva, la cultura delle regole e della legittimità di cui il principio di eguaglianza è espressione può ancora prevalere sull’incontrollabile vocazione monocratica che di frequente caratterizza le scelte del “primus super pares”.

Carlo Dore jr.

mercoledì, settembre 16, 2009


IL CAVALIERE E LA GIUSTIZIA: QUANDO I FATTI HANNO LA TESTA DURA…

Intervenendo lo scorso martedì in occasione del meeting organizzato presso “La fiera del tessile” di Milano, il Presidente Berlusconi ha scagliato un nuovo, violento attacco alle procure di Milano e Palermo, colpevoli, a suo dire, di utilizzare i soldi dei cittadini per cospirare contro chi lavora per il bene del Paese, continuando ad indagare su fatti “del ’92, del ’93 e del ‘94”.
Le parole del Premier - puntualmente riprese dalle successive dichiarazioni di Renato Schiffani, volte a stigmatizzare il comportamento di quei magistrati che persistono nel “riproporre teoremi politici attraverso l’evocazione di fantasmi” – si inquadrano perfettamente nella ben nota corrente di pensiero secondo la quale, dall’inizio degli anni ’90, sarebbe in atto una sorta di offensiva giudiziaria nei confronti di una parte politica (identificabile ora nelle varie componenti del Pentapartito su cui reggevano i vari governi succedutisi nella fase conclusiva della Prima Repubblica, ora nell’attuale maggioranza di governo e nel leader che la guida), diretta a sovvertire a colpi di avvisi di garanzia l’inequivocabile responso del corpo elettorale.
Così ragionando, Tangentopoli e le inchieste riferite ai rapporti tra mafia e politica vengono sistematicamente trasformate in strumentali aggressioni verso quella classe dirigente capace di garantire per oltre cinquant’anni la stabilità democratica di un Paese sottoposto alla minaccia filo-sovietica; il sistema di corruzione istituzionalizzata in cui è affogata l’epopea del CAF si riduce ad una mera invenzione di alcune Toghe impazzite; lo stesso Craxi viene trasversalmente incensato come un Padre della Patria costretto all’esilio dalla furia giustizialista di un manipolo di magistrati militanti; le tante leggi ad personam utili ad assicurare l’impunità del Presidente del Consiglio appaiono come l’ovvia reazione messa in atto dalla maggioranza governativa per difendersi dalle manovre occulte dei “Procuratori di sinistra”.
Ora - senza voler in questa sede rimarcare per l’ennesima volta la profonda incompatibilità che esiste tra le normali logiche democratiche ed una strategia di governo imperniata sulla radicale ablazione del principio della separazione dei poteri - ci limitiamo a rilevare come l’ossessione berlusconiana della “intifada giudiziaria”, lungi da potersi considerare supportata da apprezzabili riscontri oggettivi, rappresenta soltanto un aspetto di quella più complessa opera di modificazione della realtà che il Cavaliere propone all’opinione pubblica italiana da quindici anni a questa parte. Non a caso, siffatta ossessione si fonda sulla costante alterazione di alcuni dati di fatto: le condanne non esistono, le sentenze non si leggono, le pronunzie che attestano l’avvenuta estinzione per prescrizione di un reato comunque commesso vengono trasformate in assoluzioni con formula piena.
Qualche esempio: dei 1322 processi riconducibili a quel colossale fenomeno di connessioni politico-criminali che è stato Tangentopoli, solo 177 si sono conclusi con l’assoluzione dell’imputato nel merito della vicenda. Se poi si considera che, alle 661 condanne intervenute al termine del dibattimento, devono aggiungersi gli oltre 600 procedimenti definiti a seguito del patteggiamento, è facile comprendere come le conclusioni a cui erano pervenute le indagini svolte dal pool di Borrelli e D’Ambrosio, una volta superata la prova del contraddittorio, hanno in massima parte acquisito il valore di verità giudiziaria.
Non basta: la sentenza della Corte d’Appello di Palermo (poi confermata in toto dalla Cassazione) che ha assolto il senatore Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa – sentenza individuata da più parti come la definitiva conferma del fallimento delle inchieste condotte da Caselli attraverso l’uso “spregiudicato” dei collaboratori di giustizia – in verità specificava come (con riferimento ai fatti verificatisi fino alla primavera del 1980) gli elementi a carico dell’ex Presidente del Consiglio confermavano l’effettiva consumazione dei reati oggetto dell’imputazione, dei quali però veniva rilevata l’intervenuta prescrizione. In altre parole, con questa pronuncia i Giudici si sono guardati bene dal “rigettare il teorema dell’accusa”: essi hanno in realtà stabilito che il trascorrere del tempo aveva reso l’imputato non punibile per un reato di cui comunque era stata accertata la sussistenza.
Questi sono i fatti, e – come hanno acutamente osservato lo stesso Gian Carlo Caselli e Livio Pepino nel loro pamphlet dedicato “Ad un cittadino che non crede nella giustizia” - «i fatti hanno la testa dura», e confermano che tanto Tangentopoli quanto i processi collegati alle stragi di Mafia del 1992 non rappresentano «una stagione di persecuzioni (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso».
I fatti hanno la testa dura, e qualche volta la forza dei fatti finisce col prevalere su quel complesso di omissioni, manipolazioni e mezze verità a cui il Presidente del Consiglio fa costantemente ricorso per consolidare il suo consenso personale nell’ambito di un Paese che sembra avere, giorno dopo giorno, rinunciato alla propria capacità di indignarsi.

Carlo Dore jr.

venerdì, agosto 28, 2009


“LE DUE GUERRE –
PERCHE’ L’ITALIA HA SCONFITTO IL TERRORISMO E NON LA MAFIA”
G. Caselli, ed. Melampo, 2009, pp. 160, E 15,00

Torino – Palermo: andata e ritorno. Con lo stile asciutto ed incisivo proprio di chi di determinati avvenimenti è stato protagonista e non semplice osservatore, Gian Carlo Caselli racconta la sua quasi trentennale esperienza di magistrato in prima linea, impegnato sia nella lotta al terrorismo brigatista sia nella repressione del fenomeno mafioso all’indomani delle stragi del 1992.
Nel resoconto delle sue “due guerre”, l’attuale Capo della procura torinese ripercorre quella sottile rete fatta di verità nascoste e menzogne urlate a reti unificate, di guardie e ladri, di eroi e burattinai, di martiri e carnefici che costituisce il substrato fondamentale della storia italiana del dopoguerra, con l’obiettivo di porre il lettore dinanzi ad un solo, ineludibile interrogativo: perché lo Stato è riuscito a sconfiggere il terrorismo, ma non a sconfiggere la mafia? Per quale ragione gli anni di piombo appaiono ormai come una vicenda da consegnare una volta per sempre alle valutazioni degli storici, mentre Cosa Nostra continua a dispiegare la sua influenza sulla vita economica e sociale del Paese?
La riposta di Caselli può essere così sintetizzata: il terrorismo fu sconfitto perché lo Stato, attraverso tutte le sue articolazioni, scelse di mobilitarsi sia per sostenere le indagini condotte dal pool organizzato da Mario Carassi e dai carabinieri del generale Dalla Chiesa (indagini condotte in base ai criteri di “centralizzazione e specializzazione” che verranno poi adottati anche da Giovanni Falcone per impostare il maxiprocesso del 1986), sia per diffondere all’interno delle fabbriche, dei sindacati e del mondo del lavoro il messaggio secondo cui le BR – lungi dal rappresentare una sorta di moderna riproduzione del mito di Zorro o di Robin Hood – dovevano essere percepite come un fenomeno criminale che gli inquirenti erano tenuti a perseguire non per esaltare imprecisate pulsioni repressive, ma per riaffermare una volta di più il primato della cultura della legalità sulla cultura delle pallottole. L’impegno civile di personalità del calibro di Diego Novelli, Aldo Viglione e Adelaide Aglietta, oltre al sacrificio dell’indimenticabile Guido Rossa, furono in questo senso determinanti non sono per isolare i brigatisti dal resto della società civile, ma anche per palesare la condizione di assoluta minorità delle tesi sostenute da quei settori della sinistra extraparlamentare che manifestavano l’intendimento di non schierarsi “né con lo Stato, né con le BR”.
Per contro, una simile mobilitazione di politica ed istituzioni non fu riscontrabile con riferimento ad alcune fasi della lotta alla Mafia: se infatti il consenso all’azione degli inquirenti risultò unanime fintantoché le inchieste della Procura di Palermo si concentrarono sull’ala militare e stragista di Cosa Nostra, questo consenso venne rapidamente meno nel momento in cui i PM iniziarono ad esaminare quella fitta rete di rapporti tra criminalità organizzata e colletti bianchi che del fenomeno mafioso costituisce una delle principali ragion d’essere, a ricostruire quell’unitario progetto politico che, secondo Rocco Chinnici, rappresenta il “filo rosso” in grado di unire tra loro tutti i grandi delitti di mafia.
La necessità di preservare l’integrità del “Terzo livello” ha dunque costituito la ragione giustificativa della costante delegittimazione della Procura di cui Caselli aveva la direzione, delegittimazione basata sull’operazione mediatica volta a trasformare, agli occhi dell’opinione pubblica, le sentenze di non doversi procedere per prescrizione del reato in assoluzioni con formula piena, a ridurre le ipotesi accusatorie basate su solidi riscontri oggettivi alla degradante condizione di “teoremi ispirati da indefinibili ragioni ideologiche”, ad individuare perfino in un evento drammatico come il suicidio di Luigi Lombardini il fattore idoneo a minare una volta per sempre la credibilità di un ufficio non compatibile con determinati centri di potere.
Ideale icona dell’amarezza che residua all’indomani di una sconfitta in una guerra che lo Stato (anche a causa di una serie di infelici valutazioni di politica criminale) ha scelto di non vincere è proprio la figura del “magistrato democratico”, ben rappresentata tanto dallo stesso Caselli quanto soprattutto da Falcone: la figura del magistrato che – nel perseguire quegli obiettivi di eguaglianza formale e sostanziale consacrati nell’art. 3 della Costituzione – svolge le sue funzioni ritenendosi soggetto unicamente alla Legge, senza curarsi delle reazioni, delle polemiche e dei veleni che dalle sue scelte possono derivare. La figura del magistrato che rifiuta di conformarsi all’idea di una giustizia “a due velocità”: forte con i deboli ma debole con i forti.
Per questo, non può che condividersi la riflessione contenuta nella postfazione di Marco Travaglio, laddove auspica che “Le due guerre” venga letto non solo da quanti già svolgono la funzione di magistrato, ma anche da tutti gli studenti delle facoltà di giurisprudenza che individuano nella Magistratura un possibile orizzonte professionale: affinché comprendano l’importanza del valore dell’autonomia e dell’indipendenza delle Toghe rispetto alle contingenti volontà di una determinata maggioranza politica.
In tal senso, esiste una sorta di ideale continuità tra le posizioni espresse da Caselli e le prime pagine di un vecchio, bellissimo romanzo di Scott Turow, in cui viene riportata la dichiarazione di apertura che un pubblico accusatore rivolge ai giurati all’inizio di un processo : “Io sono la pubblica accusa. Rappresento lo Stato. Sono qui per esporvi le prove di un reato. Il vostro compito è accertare i fatti. La verità. C’è stata una vittima. C’è stata sofferenza. Voi dovete almeno cercare di accertare che cosa è accaduto veramente. Se non potete farlo, noi non sapremo se l’imputato merita di essere liberato o punito. Non sapremo chi è il colpevole. Se non possiamo scoprire la verità, che speranza possiamo avere di giustizia?”.

Carlo Dore jr.

martedì, luglio 28, 2009


RONDE: TRA “LEGGI DI SICUREZZA” E “LEGGI DI RASSICURAZIONE”


Tenendo fede alle promesse formulate durante l’ultima campagna elettorale, il centro-destra ha appena approvato una contestatissima legge in tema di ordine e sicurezza pubblica, di cui il Capo dello Stato ha, seppure tra mille dubbi, disposto la promulgazione.
Assecondando le ben note pulsioni reazionarie di alcuni settori della maggioranza governativa, l’Esecutivo ha infatti scelto di sposare la linea della “tolleranza zero” da sempre caldeggiata dal Ministro Maroni: così, dopo il dispiegamento di quasi duemila soldati su tutto il territorio nazionale, ecco la previsione del nuovo reato di immigrazione clandestina (entrato in vigore tra le proteste dei Magistrati che da anni invocano una strategia deflativa dei carichi di lavoro basata sulla conversione in illeciti amministrativi dei “reati bagatellari”); ecco l’introduzione (già prevista dalla legge n. 125 del 2008) dello status di immigrato clandestino tra le circostanze aggravanti dei reati; ecco soprattutto la legalizzazione dei “volontari della sicurezza”, delle c.d. “ronde” di cittadini che dovrebbero affiancare le forze di polizia nel controllo del territorio.
Mentre i pasionari di Pontida si spellano le mani tra un comizio di Gentilini ed un proclama di Borghezio (“Bene! Bravi! Così si fa! Basta col buonismo! Pugno duro, severità!”), nell’esaminare le disposizioni di cui sopra il magistrato Piercamillo D’Avigo non ha potuto fare a meno di domandare: queste misure sono effettivamente utili a garantire più sicurezza ai cittadini, o sono mosse dall’esigenza – di stampo essenzialmente propagandistico – di farci sentire più sicuri, quando in realtà siamo più insicuri di prima? In altre parole, si tratta di norme “di sicurezza” o di norme di mera “rassicurazione”, volte cioè soltanto a creare una parvenza di maggiore sicurezza nell’ambito di un contesto complessivo di immutata insicurezza?
Le perplessità dell’ex PM di “Mani Pulite” hanno trovato conferma negli episodi verificatisi a Massa Carrara la scorsa domenica, quando la ronda organizzata da alcuni sostenitori de “La Destra” è venuta a contatto con un gruppo di militanti della sinistra radicale: agli insulti ed alle reciproche provocazioni ha ben presto fatto seguito lo scontro frontale, con il consueto contorno di urla, sirene spiegate e sedie che volavano. Esito finale della battaglia: qualche contuso, cittadini terrorizzati, la polizia costretta ad intervenire per salvare i rondisti dall’assalto dei contestatori.
Di fronte a simili avvenimenti, siamo dunque costretti a chiederci: l’istituzione dei “volontari per la sicurezza” contribuisce ad assicurare una più elevata protezione a quei cittadini che vivono quotidianamente la difficile realtà di alcune aree metropolitane, o serve solo a far credere a questi cittadini di poter sopperire alle eventuali carenze dell’organizzazione statuale “facendosi giustizia da soli”? Si tratta di una vera e propria “misura di sicurezza” o deve più esattamente essere definita come una mera “norma di rassicurazione”?
La risposta a tale interrogativo può essere elaborata sulla base di tre semplici dati di fatto, di per sé sufficienti a dimostrare come la ratio della misura che si commenta risulti poco compatibile con l’esigenza di offrire maggiore sicurezza alla popolazione. In primo luogo, è noto come uno Stato che, rinunciando al proprio ruolo di garante della pax sociale, demanda ai cittadini la funzione di mantenere l’ordine sul territorio – trasformando così l’autotutela da eccezione in normalità - finisce per forza di cose con l’alimentare i conflitti in seno alla società medesima, da sempre individuati come la principale fonte di insicurezza.
In secondo luogo, i fautori della “sicurezza fai da te” non sembrano essersi rappresentati le conseguenze che potrebbero derivare dall’eventuale confronto tra una pattuglia di rondisti – muniti di telefoni cellulari e di spray urticanti – e gli esponenti di una delle realtà malavitose che imperversano nelle nostre periferie: oltre ad essere chiamate ad offrire adeguata protezione ai cittadini comuni, le forze dell’ordine saranno gravate dall’ulteriore onere di dover garantire l’incolumità dei “volontari della sicurezza”, qualora questi vengano coinvolti in situazioni che potrebbero non essere in grado di affrontare. E l’imposizione di ulteriori incombenze alle forze di polizia – peraltro sfibrate dalla manifesta carenza di risorse, uomini e mezzi – non può che contribuire ad alimentare la generale situazione di insicurezza in cui il Paese attualmente versa.
Infine, l’episodio di Massa conferma come la presenza nelle città di gruppi di “rondisti” caratterizzati da una fin troppo chiara connotazione politica finirà con l’innescare continui confronti di piazza tra opposte fazioni, con la paradossale conseguenza che polizia e carabinieri verranno continuamente distolti dai loro compiti tradizionali per sottrarre al linciaggio i componenti della ronda. Insomma, ecco il classico esempio della logica che governa le “norme di rassicurazione”: creare la parvenza di una maggiore sicurezza, anche a costo di alimentare l’insicurezza!
Di questi rilievi critici l’Esecutivo ha tuttavia ritenuto di non dover tenere conto, imponendo l’approvazione di una legge che rappresenta la massima esaltazione del modello di sicurezza da sempre declinato dal partito cui afferisce il Ministro Maroni. Del resto, nel Paese delle immunità e delle prescrizioni brevi, dei condoni e della separazione delle carriere di giudici e PM, è destino che le “norme di sicurezza” (quali quelle utili a garantire maggiori poteri di indagine per gli inquirenti, processi più rapidi per punire gli autori dei reati, maggiori risorse alla giustizia ed alle forze di polizia) debbano lasciare spazio alle “norme di rassicurazione”, per l’applauso del popolo di Pontida.

Carlo Dore jr.

lunedì, luglio 13, 2009


LODO ALFANO: CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

Una recente inchiesta giornalistica ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il singolare episodio di una cena a cui avrebbero preso parte due giudici costituzionali (Luigi Mazzella e Paolo Maria Napoletano), il Presidente Berlusconi ed il Guardasigilli Alfano: l’informale convivio avrebbe costituito l’occasione idonea per discutere della, ormai prossima, decisione della Consulta sul c.d. “lodo salva-premier”, oltre che della prospettiva di una riforma della giustizia penale imperniata sulla separazione delle carriere di giudici ed avvocati dell’accusa e sulla ridefinizione delle prerogative del CSM.
La vicenda è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte di Antonio Di Pietro: dopo aver qualificato il suddetto convivio alla stregua di una “riunione carbonare e piduista”, l’ex PM ha infatti invitato il Presidente della Repubblica ad intervenire per salvaguardare il prestigio e l’integrità della Corte.
La replica del Colle non si è fatta attendere, attraverso una nota che metteva in evidenza l’impossibilità, per il Capo dello Stato, di incidere sull’autonomo svolgimento dell’attività della Consulta; e non si è fatta attendere la replica del giudice Mazzella, il quale, in una lettera aperta al Premier, ha rivendicato il diritto di invitare in casa propria “chi gli pare per parlare di ciò che gli pare”, ed ha confermato di non ravvisare l’esistenza di ragioni che lo possano indurre ad astenersi dal partecipare al giudizio in ordine alla legittimità costituzionale del lodo Alfano.
Ora, nel Paese in cui l’osservanza delle leggi viene sovente scambiata per dabbenaggine ed in cui la tracotanza è divenuta virtù, occorre valutare questo ennesimo corto-circuito istituzionale alla luce, obiettiva ed incondizionata, dei principi di diritto: formalmente, la posizione assunta dal Quirinale appare incontestabile, dato che il nostro ordinamento non attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di intervenire sulla vita della Corte. E, per quanto paradossale possa apparire questa affermazione, neppure il giudice Mazzella mente quando afferma di non essere obbligato ad astenersi, posto che ai membri della Consulta non possono essere applicati né il disposto dell’art. 51 c.p.c. (che curiosamente impone, nel processo civile, l’obbligo di astenersi al giudice che sia “commensale abituale di una delle parti o dei difensori”), né il disposto dell’art. 36 c.p.p. (che, altrettanto curiosamente, con riguardo al processo penale prevede la necessità di astenersi per il giudice che ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni giudiziarie).
A questo punto, il lettore potrebbe però domandarsi: per quale motivo le ragioni di astensione previste per i giudici ordinari non valgono anche per i giudici costituzionali? Come è possibile che, sotto questo profilo, i giudici delle leggi siano sottoposti ad un regime processuale più blando di quello a cui è soggetto il giudice chiamato a dirimere una controversia condominale o a pronunciarsi su un furto di galline?
La risposta ad un simile quesito è più semplice di quanto si possa immaginare: il Giudice delle leggi non assume decisioni relative a particolari situazioni riconducibili a persone determinate; decide, appunto, sulla conformità di leggi o di atti equiparati ai principi contenuti nella Carta Fondamentale, sulla legittimità costituzionale di norme destinate ad applicarsi a tutti i cittadini che si trovano nella situazione in astratto delineata dalla norma stessa. Di conseguenza, né il legislatore costituente né il legislatore ordinario avevano ragione di prevedere la possibilità che le relazioni personali dei singoli componenti della Consulta potessero incidere sulla loro imparzialità di giudizio.
Il problema risiede nel fatto che il Lodo Alfano non può essere definito come una legge generale ed astratta: è una legge che mira a regolare la posizione particolare di “questo” Presidente del Consiglio, il quale, costituendosi nel giudizio nanti la Corte Costituzionale, finirà col difendere non tanto la legittimità di una norma di cui il suo Governo ha imposto l’approvazione, ma soprattutto il suo privato interesse a non essere sottoposto a giudizio nell’ambito di un processo penale già in atto nei suoi confronti.
Alla luce di questa ennesima variante della perversa commistione tra potere politico ed interesse privato che da anni inficia il corretto funzionamento della nostra democrazia, le dichiarazioni del giudice Mazzella, che non ha smentito né la sua partecipazione alla cena incriminata né la trattazione in tale sede degli argomenti di cui sopra, si collocano, per due ordini di ragioni, nettamente al di fuori delle regole che disciplinano il funzionamento della normale dialettica istituzionale.
In primo luogo, esse rivelano una sostanziale continuità tra giudici costituzionali, membri dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare (ovvero sia, tra “controllori” e “controllati”) certamente poco compatibile con gli assetti delineati dal legislatore costituente. In secondo luogo, tali dichiarazioni rischiano di gettare un’ombra sulla decisione che la Corte assumerà su una legge (appunto il Lodo Alfano) che tanta incidenza ha avuto sulla vita politica del Paese.
Rebus sic stantibus, è infatti ipotizzabile che, mentre una decisione di rigetto della questione di legittimità sollevata in ordine alla legge in questione verrebbe accolta dall’opposizione come una conferma delle indebite pressioni praticate dal Governo su alcuni membri della Consulta, una pronuncia di accoglimento (con conseguente declaratoria di incostituzionalità) verrebbe interpretata dagli esponenti della maggioranza come una conseguenza delle immotivate polemiche innescate da parte dell’opinione pubblica a seguito di quella che lo stesso ministro Vito ha sostanzialmente liquidato come una irrilevante “bicchierata” tra amici.
Insomma, quale che sia l’esito della vicenda, ci sarà qualcuno legittimato a chiedere un controllo sull’attività dei controllori: troppo, anche per questa Italia in cui, volendo usare le parole del noto costituzionalista Roberto Bin, “la tracotanza domina nei palazzi del potere e – a dar retta alla stampa – anche nelle case private”.

Carlo Dore jr.

venerdì, luglio 03, 2009


PERCHE’ SOSTENGO BERSANI

Con la conclusione di questa lunghissima tornata elettorale – iniziata con la imprevista sconfitta di Renato Soru nella corsa alla presidenza della Regione Sardegna e completata con i tiratissimi successi riportati a Firenze, Bologna e Bari -, gli appartenenti a quell’ampia fetta di popolo progressista che (spesso più per disperazione che per convinzione) trovano nel PD il loro attuale punto di riferimento devono ancora una volta interrogarsi su quale prospettiva perseguire nell’immediato futuro.
Mentre Bersani si candida, Franceschini replica, Veltroni ritorna, D’Alema ragiona, la Serracchiani sceglie e i TeoDem si agitano, provo a fornire il mio contributo al dibattito in corso sui prossimi assetti del centro-sinistra, partendo da un immagine tratta dall’ultima campagna elettorale: l’immagine di un militante diessino che, allontanandosi dalla piazza in cui aveva appena avuto luogo una manifestazione a sostegno di Flavio Del Bono, mormorava sconsolato: “Ma insomma, questo partito si regge grazie ai nostri voti, ai voti della sinistra…eppure…abbiamo per segretario un ex democristiano; abbiamo proposto candidati provenienti dalla Margherita a Roma, Bologna, Firenze, Napoli… Ma dove sono finiti i nostri? Perché abbiamo bisogno delle veline per mettere paura a Berlusconi?”.
Le riflessioni di quel militante contengono, a mio avviso, i due punti centrali su cui si impernia la sfida che i democratici sono oggi chiamati ad affrontare: da un lato la certificazione del fallimento del “veltronismo” e del modello del partito autosufficiente; d’altro lato, la necessità di dare vita ad un partito “vero”, prima ancora che ad un partito “nuovo”.
Già dall’analisi del famoso discorso del Lingotto, emergeva infatti come la filosofia veltroniana del “ma anche”, del partito dei lavoratori e degli imprenditori, dell’infelice ed un po’ greve italianizzazione degli slogan di Obama avrebbe di fatto chiuso i progressisti italiani nel più classico “cul de sac” , creando una forza politica incapace - a causa delle inevitabili divisioni interne e della palese mancanza di una linea unitaria– di prendere posizioni chiare sulle grandi questioni di rilevanza nazionale.
Alla luce di un simile status quo, scelsi di non partecipare alle primarie dell’ottobre del 2007, limitandomi ad accordare il mio voto al Partito Democratico nel tentativo di arginare l’onda berlusconiana che si accingeva a sommergere il Paese. Tuttavia, le conseguenze derivanti dall’attuazione della strategia elaborata dall’ ex Sindaco di Roma sono oggi sotto gli occhi di tutti: sommaria liquidazione della leadership di Romano Prodi (a cui evidentemente veniva imputatato il peccato mortale di aver vinto tutte le elezioni cui aveva partecipato); astensionismo crescente; gli operai di Mirafiori ed i portuali di Livorno che votano i massa per IDV e Lega Nord; amministratori apprezzati come Illy e Soru condannati alla sconfitta dalle divisioni maturate in seno alla loro stessa maggioranza; Berlusconi messo alle strette non dai rilievi di un’opposizione silente ai limiti dell’afonia, ma dalle rivelazioni di una pattuglia di escort in carriera; Veltroni costretto ad abbandonare in tutta fretta il quatier generale del Nazareno.
All’indomani di una consultazione amministrativa ispirata alla logica del “si salvi chi può!”, è dunque necessario individuare la strada da cui ripartire nell’elaborazione di una proposta politica in grado di guidare l’Italia fuori dalle sabbie mobili in cui si sta rovinosamente arenando l’attuale esperienza di governo del Cavaliere. In questo senso, per ridare speranza ad un Paese sull’orlo di una crisi politica e morale forse irreversibile, non bastano qualche faccia nuova ed i generici richiami ad un rinnovamento finora percepibile solo in alcune sporadiche riunioni di militanti lastricati di buone intenzioni: bisogna creare, entro tempi brevi, un partito degno di tale nome.
Occorre creare un partito (lo si chiami PDS, DS, o PD: le sigle ormai lasciano il tempo che trovano) capace di intercettare i consensi degli appartenenti a quella vasta area della c.d. “sinistra diffusa” che attualmente versano, per usare le parole di Ilvo Diamanti, nella triste condizione di esuli in terra straniera, fungendo da elemento-cardine di una forte coalizione che sappia riproporre lo spirito del grande Ulivo del 1996.
Occorre creare una partito saldamente radicato sul territorio, non più equidistante tra sindacato ed imprese ma presente nel mondo del lavoro e vicino alle esigenze dei lavoratori; occorre creare un partito etico, schierato a difesa della Magistratura e delle istituzioni di garanzia, messe quotidianamente sotto attacco dall’arroganza di un premier che una legge inconcepibile presso qualunque democrazia occidentale rende di fatto legibus solutus; occorre creare un partito laico, che sappia affrontare i temi connessi alla tutela delle libertà civili proponendo soluzioni emendate da pregiudizi di natura morale o religiosa.
Di questo insieme di istanze - gridate a tutta forza dal popolo progressista presente nelle piazze, nei circoli, nei blog ed in tutti i luoghi di aggregazione che la politica moderna mette a disposizione di elettori e militanti - né Franceschini (a cui va riconosciuto il merito di avere di avere svolto con dignità il ruolo di traghettatore assegnatogli dopo il fallimento della stagione veltroniana, stagione della quale era stato comunque attivo protagonista) né la tanto onesta quanto ingenua Debora Serracchiani sembrano avere preso integralmente consapevolezza, evidentemente ignari del fatto che ogni operazione di rinnovamento di una classe dirigente non può prescindere dalla costruzione di un partito ancorato a valori che, al momento, in casa democratica non è dato rilevare.
Di queste istanze sembra invece essersi fatto effettivo interprete Pierluigi Bersani, eterno contestatore del modello del “partito liquido” e convinto sostenitore della necessità di ricreare, attorno al PD, una nuova alleanza di centro-sinistra (basata sull’intesa tra ex prodiani, ex diessini e sul contributo di alcune delle forze che al momento si collocano a sinistra del Partito Democratico) per proporre quella credibile alternativa alla destra berlusconiana di cui attualmente si avverte la mancanza.
Dopo anni di incertezze e di divisioni, sento di condividere questo progetto, anche se non nascondo le tante zone d’ombra che il medesimo presenta, con particolare riferimento agli uomini che saranno chiamati, soprattutto a livello locale, a gestirne l’attuazione. Comunque, alle primarie di ottobre, mi presenterò al seggio: voterò per Bersani, e per sostenere l’idea di un PD qualificabile come moderno partito di sinistra, sperando che anche questa ennesima speranza non si trasformi nell’ennesima delusione.


Carlo Dore jr.

sabato, giugno 06, 2009


E LA FOLLA GRIDAVA “ENRICO! ENRICO!”
- La nostra Italia, la nostra Sinistra: venticinque anni dopo -

Mentre scrivo queste righe, non riesco a distogliere l’attenzione dalla scena finale della storia che oggi provo a raccontare: la storia di Enrico Berlinguer visto da lontano, da un’epoca caratterizzata dal trionfo dell’antipolitica e dalla graduale trasformazione di quel popolo della sinistra che in Berlinguer trovava la sua guida in una disperata compagine di esuli senza partito.
Mi concentro dunque su quest’ultima scena: penso ad una piazza piena di gente, accalcata sotto il cielo di Padova in una fredda serata di giugno, all’inizio di un’estate che proprio non voleva saperne di arrivare; penso alle bandiere che incorniciavano il palco su cui si erano appena alternati i principali esponenti del Partito Comunista del Veneto; penso al boato che accompagnò la breve marcia di Berlinguer verso la tribuna destinata all’oratore.
Anche quella volta, mi piace credere che il Segretario sorrise prima di iniziare a parlare, persuasivo come sempre, dell’Italia che aveva in mente, della Sinistra che aveva in mente: ribadiva la centralità che, nel suo programma, assumevano le libertà civili difese nelle battaglie referendarie sull’aborto e sul divorzio; rilanciava l’idea di una grande mobilitazione a difesa dei diritti dei lavoratori, contro una politica economica che rischiava di abbattere drasticamente il potere d’acquisto dei salari.
Poi, nel mezzo di una frase, ecco che un brivido freddo percuote la folla: Berlinguer si ferma, le parole sembrano morirgli sulle labbra, il megaschermo proietta l’immagine di un volto contratto in una innaturale smorfia di dolore. Che succede al Segretario? E’ in questo momento che dal fondo della Piazza si leva un grido, un grido destinato ad accompagnare fino alle battute conclusive l’ultimo discorso di quello che tutti oggi ricordano come il più amato tra i leader della sinistra italiana del dopoguerra: “Enrico! Enrico!”

Berlinguer barcolla, prende fiato, riparte: per rivivere oltre dieci anni alla guida del PCI nel breve spazio di pochi minuti. Riprende a parlare della prospettiva di un socialismo dal volto umano, della possibilità di riaffermare all’interno di un Paese ben integrato nell’Alleanza Atlantica quei valori di libertà, democrazia, eguaglianza e giustizia sociale brutalmente rinnegati dai teorici della Guerra Fredda, in vario modo distribuiti tra Mosca e Washington. Descrive l’emozione che promanava dal progetto di fare del PCI una grande forza di governo, di concludere una volta per sempre la lunga fase di transizione che doveva condurre i comunisti italiani dagli Sputnik al centro-sinistra.
Gramsci il teorico di riferimento, Allende il modello a cui guardare: anche quella sera, Berlinguer voleva raccontare alla sua Italia come - anche nel bel mezzo della stagione dei muri e delle cortine di ferro, dei carri armati sovietici e delle spie venute dal freddo – era giunto a coltivare l’idea che un altro Mondo fosse davvero possibile.

“Enrico! Enrico!”

Il discorso del Segretario procede a strappi: Berlinguer individua uno dopo l’altro i fattori che hanno precluso l’attuazione del suo progetto. Spiega come la strategia del compromesso storico sia stata gradualmente stritolata dall’avvento del CAF e dalle pallottole delle BR, rinchiusa nel cofano di una Renault rossa insieme al corpo martoriato di un leader democristiano storicamente non allineato alle direttive della CIA; denuncia la lenta deriva della classe dirigente della stagione della Milano da bere verso un sistema di corruzione istituzionalizzata che ben presto sarebbe divenuto l’asse portante dell’economia nazionale; chiarisce come una loggia nera, molto segreta e molto potente, abbia messo a repentaglio l’integrità delle istituzioni democratiche sorte dalle ceneri della lotta di liberazione; invita il popolo della sinistra a riaffermare casa per casa, fabbrica per fabbrica, sezione per sezione, l’estrema attualità degli ideali che avevano caratterizzato l’intero periodo della sua segreteria, ad individuare ancora nella creazione di una moderna forza di governo la Nuova Frontiera di tutti progressisti italiani.

“Enrico! Enrico!”

L’ultimo discorso di Berlinguer si chiude qui: e dopo venticinque anni, quell’immagine del Segretario che combatte con le parole destinate a perdersi nel freddo fuori stagione di una maledetta sera di giugno appare solo come l’estrema icona di una politica ancora capace di scaldare cuori e idee, come il ricordo un po’ sbiadito di una stagione che non esiste più. Dopo Berlinguer è arrivato il CAF, dopo il CAF è arrivato Berlusconi per mortificare una volta per sempre i progetti di governo di una sinistra dimostratasi troppe volte incapace di dare voce a quell’autentico progetto di cambiamento teorizzato dal Segretario nel suo testamento morale.
Ma oggi, nell’epoca delle veline e dei “mi consenta”, dei menestrelli e dei voli di Stato in versione low cost, del trionfo della cultura dell’impunità e dell’adorazione dell’Uomo solo al comando, dobbiamo chiederci: cosa rimane di Enrico Berlinguer? Cosa rimane dell’Italia che egli sognava e della sinistra che aveva in mente? Cosa resta, in altre parole, della “nostra sinistra” e della “nostra” Italia?
Rimane il sogno di dare vita, in un futuro più o meno prossimo, ad una forza moderna, libertaria, socialista e democratica, capace di proporsi come credibile punto di riferimento per l’Occidente illuminato dal pensiero di leader autentici come Obama e Zapatero. Rimane l’idea di una politica intesa come strumento utile all’attuazione dell’interesse generale, e non come banale complesso di pratiche di potere.
Rimane soprattutto l’istantanea di Pertini che piange sulla bara di quello che definì un autentico “compagno di lotta”, e il ricordo di quella piazza gremita sotto il palco e le bandiere, che scandisce all’unisono il nome del segretario verso le nuvole del cielo di Padova.
“Enrico! Enrico!”. L’eco di quel grido è riuscito a superare il silenzio che caratterizza l’incedere della Storia, ed ancora oggi torna per portare speranza: alla povera sinistra, ed alla povera Italia.
Carlo Dore jr

venerdì, maggio 22, 2009


IL PAESE CHE HA PERSO LA CAPACITA’ DI INDIGNARSI


Solo pochi mesi or sono, il premier israeliano Olmert, implicato in un’inchiesta giudiziaria relativa ad alcuni presunti finanziamenti illeciti percepiti dal suo partito, ha rassegnato immediatamente le dimissioni, dichiarandosi fiero di rappresentare un Paese in cui anche un leader politico di primo piano può essere sottoposto ad indagini alla stregua di un qualsiasi cittadino.
Di certo, il ricordo di questa vicenda non ha nemmeno sfiorato la mente di Silvio Berlusconi mentre, dinanzi alla platea degli industriali, si produceva nell’ennesimo rabbioso ed un po’ sconclusionato monologo volto a contestare le motivazioni della sentenza attraverso cui il Tribunale di Milano ha condannato l’avvocato inglese David Mills, accusato di avere reso, dietro compenso, falsa testimonianza in alcuni dei processi in cui lo stesso Presidente del Consiglio risultava imputato.
Noncurante dello sconcerto di tutta la stampa internazionale, il Cavaliere non ha esitato a dare fondo al suo repertorio di integralista del pensiero unico, forte del consenso della componente più radicale del capitalismo italiano: accuse alle “toghe politicizzate”, colpevoli di utilizzare la clava giudiziaria nel vano tentativo di minare la sua popolarità sempre crescente; accuse a Nicoletta Gandus, il Presidente del collegio milanese che ha pronunciato la sentenza di cui sopra, da sempre descritta come una fanatica oppositrice dell’Esecutivo; accuse alla stampa indipendente, che rifiuta di rassegnarsi al ruolo di mera cassa di risonanza per i proclami del Capo; accuse alla pallidissima opposizione democratica, rea di avere semplicemente chiesto al Premier di sottoporsi a processo, rinunziando all’immunità confezionatagli su misura dal provvidenziale Lodo Alfano; accuse al Parlamento, organo “inutile e pletorico” che paralizza la governabilità del Paese.
Ora, sospendendo ogni giudizio sulla immancabile sequenza di invettive contro la “giustizia ad orologeria” offerta all’opinione pubblica dalla consueta ronda di avvocati – parlamentari in quota PDL, le ultime performance verbali del Presidente del Consiglio non possono che destare preoccupazione ed inquietudine circa lo stato di una democrazia i cui principi fondamentali vengono messi quotidianamente in discussione.
Sotto un primo profilo, dalle parole di Berlusconi traspare la profonda convinzione che l’investitura popolare possa essere di per sé sufficiente a sottrarre il soggetto titolare di una carica istituzionale dall’applicazione di qualsiasi regola o controllo, la concezione del potere politico non come “funzionalizzato” al perseguimento dell’interesse generale, ma come strumentale all’esaltazione della volontà del princeps ed alla legittimazione del più colossale conflitto di interessi configurabile nel Mondo occidentale.
Ma c’è di più: l’ossessiva riproposizione dell’adagio “gli Italiani sono con me!” non rappresenta il mero prodotto della vocazione alla grandeur di un leader incapace di interpretare il proprio ruolo con rigore e sobrietà. No, essa si fonda sulla tristemente esatta constatazione del fatto che la cultura berlusconiana ha a tal punto contaminato il Paese da far apparire, agli occhi della maggioranza dei cittadini, la costante compenetrazione tra potere politico e interessi privati, il continuo svilimento del ruolo delle istituzioni di garanzia, l’esaltazione dell’efficientismo dell’Uomo solo al comando non come minacciosi segnali dell’esistenza di una deriva autoritaria, ma come fisiologiche variabili intrinseche al corretto funzionamento della dialettica democratica. In altre parole, il consenso stratosferico di cui il Premier si dichiara portatore trae vita proprio dal fatto che il Paese sta perdendo, giorno dopo giorno, la propria capacità di indignarsi, giungendo a considerare il Lodo Alfano come la normalità e le dimissioni di Olmert come una inconcepibile anomalia imposta dall’imperversare di qualche toga militante.
Ancora non sappiamo se il Presidente del Consiglio si recherà in Parlamento per riferire “su ciò che pensa di certa magistratura”. Di certo, nell’aula di Montecitorio non risuonerà quella parola (“dimissioni”), che apparirebbe come un atto dovuto per qualsiasi leader dell’Occidente democratico coinvolto in una inchiesta giudiziaria delle proporzioni di quella su cui si è appena pronunciato il Tribunale di Milano. Ma, d’altro canto, le dimissioni di un Premier “troppo impegnato a governare per potersi occupare dei processi” sarebbero poco compatibili con le logiche di un Paese che ha ormai rinunciato alla propria capacità di indignarsi.

Carlo Dore jr.

venerdì, maggio 01, 2009


IL REGIME DEL “GRANDE FRATELLO”:
CHE PAESE STIAMO DIVENTANDO?

Se qualche opinionista votato all’autolesionismo avesse avuto cura di esaminare le pagine de “Il Giornale” e di “Libero” degli ultimi tre giorni - magari dopo avere consultato quei blog dove le peggiori pulsioni dell’elettorato berlusconiano trovano libero sfogo – avrebbe facilmente compreso che le polemiche innescate dalle dichiarazioni al vetriolo di Veronica Lario sulla “Vallettopoli” del marito Presidente non possono essere semplicemente liquidate come la solita bufera familiare innescata dalla consorte piccata di un politico dai modi genuinamente disinvolti.
Il leitmotiv che traspare da quelle pagine è più o meno il seguente: non disturbate il Premier con questioncine di basso profilo. Lui risolve i problemi del Paese col sorriso, e pazienza se i suoi modi spicci e chiassosi lasciano a bocca aperta persino la Regina di Inghilterra; se promuove attrici, veline o letterine varie al rango di Ministro o di sottosegretario, se pensa di imporre, insieme al sempreverde Mastella, la cantante di Villa Certosa come parlamentare europeo; se decide di spostare il G8 da La Maddalena a L’Aquila come se si trattasse della sua festa privata. Agli Italiani lui piace così, quindi chi se la prende con il Presidente se la prende con la maggioranza degli Italiani.
Tuttavia, mentre l’organizzazione internazionale Freedom House ha retrocesso l’Italia al rango di “paese potenzialmente libero”, l’intera vicenda sopra richiamata impone la formulazione di una domanda, già rilanciata da Curzio Maltese attraverso le colonne di “Repubblica”: che Paese stiamo diventando?
La risposta a questo interrogativo può essere rinvenuta proprio nell’indagine della Freedom House: stiamo diventando un Paese non totalmente libero ma solo “potenzialmente” libero, un Paese del tutto appiattito sulla figura del Capo, che vive, discute, si divide e si unisce esclusivamente in funzione delle vicende che il Capo decide di dare in pasto all’opinione pubblica. Insomma, siamo tutti spettatori non paganti di un continuo reality show ambientato tra Arcore e Palazzo Grazioli, monopolizzati da quello che potremmo definire come una sorta di “regime del Grande Fratello”.
Questa affermazione non costituisce l’ennesimo prodotto dell’antiberlusconismo militante: al contrario, trova conferma in una serie di circostanze obiettive. Ad esempio: mezza Italia si commuove per il fatto che il Premier, per la prima volta dopo quattordici anni, si è deciso a celebrare la festa del 25 aprile, senza attribuire rilievo al fatto che l’azione dell’attuale maggioranza di governo risulta costantemente orientata al superamento dei principi di quella Carta Costituzionale che della Resistenza e della Liberazione rappresenta appieno i valori.
Ancora: il Premier tuona contro quei (pochi, in verità) esponenti dell’opposizione che si permettono di criticare i criteri alla luce dei quali vengono completate le liste del partito di maggioranza - magnifica combinazione tra sorrisi da copertina e vecchi professionisti della politica in servizio permanente effettivo -, invitandoli, con l’eleganza propria dello statista consumato, a pensare a quei “parlamentari antiestetici e maleodoranti” che talvolta occupano i banchi a sinistra dell’Emiciclo.
Infine, maggioranza e minoranza applaudono alla decisione unilateralmente assunta dal Presidente di portare il G8 lontano dalla Sardegna, nel silenzio assordante di un’Amministrazione regionale che – eletta pochi mesi fa proprio grazie alla contiguità politica rispetto al “governo amico” – accetta ora che venga inflitto un colpo mortale alle aspirazioni di crescita di una terra in difficoltà.
Ma se un Paese rinuncia alla propria coscienza critica, alla propria vocazione democratica, alla propria capacità di autodeterminazione, allora di quel Paese cosa resta? Resta il sultanato del Presidente, debitamente corredato dal tremebondo circo di veline, politici di professione e vari yes-man di cui le dichiarazioni di una first lady prossima alla pensione hanno solo confermato l’esistenza. Restano le pulsioni autoritarie, le ostentazioni di efficientismo e le battute sparate a reti unificate per intrattenere i protagonisti dei vertici internazionali. Resta la profonda tristezza di chi, fedele ai valori democratici consacrati nella Costituzione nata dalla lotta al fascismo, assiste impotente alla lenta deriva del sistema Italia verso il regime del Grande Fratello.

Carlo Dore jr.

lunedì, aprile 13, 2009


LA SVOLTA SOCIALE DEL PARTITO A-SOCIALE


La partecipazione del segretario del Partito Democratico alla grande manifestazione tenuta dalla CGIL lo scorso 4 aprile è stato oggetto di un acceso dibattito che non ha semplicemente reso ancora più aspro il confronto tra maggioranza ed opposizione, ma ha contribuito a mettere ulteriormente in rilievo i contrasti in essere tra le varie anime del centro-sinistra. Mentre gli editorialisti di casa – Berlusconi non hanno perso l’occasione per ribadire una volta di più come “ormai è la CGIL a dettare la linea del PD”, l’ala centrista che fa capo a Letta e Rutelli ha contestato duramente la “svolta a sinistra” imposta al partito da Franceschini, evidenziando come una simile scelta strategica sia poco compatibile con la visione de-ideologizzata della politica che del partito medesimo aveva caratterizzato la formazione.
In verità, se si analizzano gli eventi che si sono succeduti dal giugno del 2007 ad oggi, si comprende come proprio la visione della “politica lieve” declinata da Veltroni nell’ormai celebre discorso del Lingotto ha costituito la principale causa della situazione di crisi in cui attualmente versa il centro-sinistra italiano, il fattore decisivo su cui è stata impostata l’ennesima marcia trionfale di Berlusconi alla volta di Palazzo Chigi.
Creato dieci anni dopo la bellissima e coinvolgente esperienza del grande Ulivo, nel bel mezzo di una stagione caratterizzata da un’instabilità che rasentava la schizofrenia, il Partito Democratico nasceva con l’ambizione di porsi come una sorta di grande contenitore in grado di intercettare i voti dell’elettorato moderato senza perdere consensi a sinistra. La filosofia veltroniana del “ma-anche” era evidentemente funzionale al perseguimento di un simile obiettivo, proponendo l’idea di un partito gazebo (non strutturato in senso tradizionale ma “flessibile” nella sua organizzazione: ricordate la polemica sul “partito liquido” e sul “partito senza tessere”?) equidistante da lavoratori e imprenditori, collocato a mezza strada tra il modello del Labour party inglese – dal quale veniva mutuata l’idea del Governo ombra – e quello dei Democratici americani, in cui le primarie plebiscito dovevano consentire al segretario eletto senza competizione di fungere da “camera di compensazione” tra le varie correnti che mettevano quotidianamente a soqquadro i locali del Nazareno.
Ovviamente, l’attuazione di questa filosofia non poteva che determinare alcune – peraltro prevedibili – distorsioni: nel tentativo di rappresentare tutte le componenti della società italiana, il PD ha finito col non rappresentare adeguatamente nessuna delle realtà che attualmente caratterizzano la vita del Paese, allontanandosi così dalle istanze e dalle rivendicazioni di quelle forze sociali che del centro-sinistra da sempre rappresentano la base elettorale di riferimento. Di più: l’idea del partito leggero, del partito senza tessere né sezioni, ha comportato la brusca interruzione dei processi utili a favorire la partecipazione dei miltanti alla vita politica, allentando ulteriormente il già sfilacciato rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
Insomma, privo di punti di contatto con la società civile, il PD è stato ben presto percepito dagli elettori come un partito “a-sociale”, se non proprio come un partito “anti-sociale”. L’accertamento di un simile status quo è utile a spiegare una serie di fenomeni altrimenti poco comprensibili: il tentativo (fallito sia con Illy che con Soru) di coprire attraverso il carisma del leader forte la mancanza di un progetto politico degno di tale nome; il potere decisionale assunto, nell’ambito delle varie realtà locali, da quei “cacicchi” di cui Gustavo Zagrebelsky ha più volte denunciato l’esistenza; il crollo di consensi conseguente alla tendenza, acutamente evidenziata da Ilvo Diamanti, degli elettori di centro sinistra a proporsi, in quanto privi di una forza politica di riferimento, come un popolo di esuli costretto ad attraversare una terra straniera.
Di questa difficile realtà Franceschini (e Bersani prima di lui) sembra avere al fine acquisito consapevolezza: messo in soffitta il modello dell’opposizione silente ed assente, il PD deve tornare tra la sua gente, captarne gli umori, comprenderne le necessità, assecondarne le esigenze per poter ricostruire, nel prossimo futuro, un’alternativa credibile allo strapotere arrogante ed un pò pacchiano che trasuda dalle gesta quotidiane del Cavaliere.
In tal senso, l’immagine dei dirigenti democratici che marciano accanto ai lavoratori della CGIL e che assistono alla meravigliosa lezione di democrazia e cultura solidale impartita da Epifani agli epigoni di Brunetta rappresenta un segnale di speranza: la speranza che i canali di comunicazione tra società e forze politiche riprendano a funzionare a pieno regime; la speranza che, una volta superata la fallimentare stagione del “ma-anchismo”, l’assunto in base al quale “laddove c’è un povero, un disoccupato, un precario, un lavoratore non può non esserci anche un progressista” rappresenti davvero il momento iniziale della tanto auspicata svolta sociale del partito nato come forza a-sociale.

Carlo Dore jr.

sabato, marzo 28, 2009




LA GIOSTRA MEDIATICA DEL MERCANTE DI SOGNI


L’immagine del congresso fondativo del PDL che forse più di ogni altra passerà alla Storia è quella di Silvio Berlusconi che, disperatamente abbarbicato alle braccia di Michela Vittoria Brambilla e Stefania Prestigiacomo, risponde all’ovazione della folla oceanica convocata per l’occasione, sotto lo sguardo benevolo dell’ex missino La Russa, dell’ex democristiano Rotondi, dell’ex socialista Cicchitto, dell’ex dipietrista Di Gregorio.
Se ci si fermasse all’esame di questa immagine, se ne potrebbe ricavare l’impressione dell’ennesima parata di veline e vecchie glorie predisposta per esaltare lo smisurato ego dell’Unto dal Signore, della solita adunanza di supporters organizzata allo scopo di alimentare il circo mediatico su cui il vecchio Mercante di Sogni fa affidamento per moltiplicare ulteriormente il suo già smisurato consenso. Il problema è che questa volta il Mercante di Sogni mira più in alto: mira a creare quel partito “capace di raggiungere il 51 per cento dei consensi” che gli consenta di gridare in faccia agli oppositori “il popolo sono io!”, di concludere con l’ascesa al più elevato scranno del Quirinale la breve marcia intrapresa dal basso del predellino di una Mercedes.
Tuttavia, mentre l’applauso dei Dell’Utri boys inizia a disperdesi nel grigio silenzio della periferia romana, gli sterili proclami che inneggiano al “momento storico per la democrazia italiana” non impediscono ad un osservatore attento di rilevare come il PDL – nella sua pretesa dimensione di partito liberale proiettato nella galassia del moderatismo europeo - politicamente non abbia alcuna consistenza, risolvendosi in una lunga sequenza di sigle provenienti dal chiuso della Prima Repubblica e tenute insieme nel calderone di una destra a-costituzionale ed un po’ reazionaria dalla sola puissance del leader forte, di un leader disposto a tutto pur di dare vita (in base a quanto affermato dal settimanale “The Econimist”) “al partito che gli assicura la libertà di fare quello che vuole”.
Ma se tutto questo è vero, come è allora possibile che un partito che si esaurisce nel sorriso di cartapesta dell’Uomo solo al comando sia in grado di candidarsi a rappresentare la maggioranza assoluta degli Italiani? In base a quale calcolo il Cavaliere pensa di poter un giorno affermare “il popolo sono io”? Qual’è, in altre parole, la chiave di volta che fa funzionare la giostra del vecchio Mercante di Sogni?
Molto probabilmente, la risposta agli interrogativi appena formulati deve essere rinvenuta nella sostanziale incapacità, reiteratamente manifestata dalle forze di centro-sinistra, di proporre un’alternativa credibile allo strapotere berlusconiano, di contrastare efficacemente quella perversa connessione tra interessi economici, ruoli istituzionali, autoritarismo peronista ed ossessiva ricerca dell’impunità da cui è alimentata la marea nera che al momento sembra sommergere il Paese.
Le esperienze del 1996 e del 2006 rivelano infatti un dato incontrovertibile: per i progressisti, il PDL rappresenta un avversario battibile, un avversario che rivela tutta la sua debolezza allorquando l’elettorato viene chiamato a prendere posizione sui grandi temi del conflitto di interessi, della giustizia, della tutela del lavoro, della questione morale. Ebbene, invece di impostare il dibattito politico come una grande battaglia di idee, togliendo così il fiato ad un interlocutore che tenta da sempre di coprire con i fuochi d’artificio del potere economico la propria endemica mancanza di contenuti, i partiti che sostenevano l’Esecutivo guidato da Romano Prodi hanno finito col dividersi tra il massimalismo senza costrutto della c.d. “sinistra radicale” e l’inconsistente idea veltroniana del “partito gazebo”, con l’accettare il berlusconismo come una normale componente della società italiana, col declinare alla lunga – anche e soprattutto attraverso l’esplicita rinuncia ad individuare nella regolamentazione del conflitto di interessi il punto di partenza di ogni strategia riformatrice – una visione della politica e della società sostanzialmente compatibile con i dettami del Vangelo secondo Silvio.
Se però si tiene fede all’antico proverbio secondo cui la più buia ora della notte è proprio quella che precede l’alba, allora bisogna concludere che l’alba forse sta per arrivare. L’immagine dell’Unto dal Signore che tiene a battesimo il suo partito di maggioranza assoluta può infatti costituire la scintilla in grado di spingere il centro-sinistra a rimobilitare il proprio elettorato - attraverso una rinnovata unione tra le varie forze riformiste e democratiche che ancora rappresentano le più vitali componenti della società italiana - per combattere quella grande battaglia di idee dinanzi alla quale il Cavaliere ha più volte dimostrato di andare in sofferenza, nella forte consapevolezza del fatto che una democrazia evoluta non può reggersi sulle pulsioni cesariste del dominus indiscusso di una destra a-costituzionale, sulla giostra mediatica che alimenta il consenso di un vecchio Mercante di Sogni.

Carlo Dore jr.