martedì, luglio 28, 2009


RONDE: TRA “LEGGI DI SICUREZZA” E “LEGGI DI RASSICURAZIONE”


Tenendo fede alle promesse formulate durante l’ultima campagna elettorale, il centro-destra ha appena approvato una contestatissima legge in tema di ordine e sicurezza pubblica, di cui il Capo dello Stato ha, seppure tra mille dubbi, disposto la promulgazione.
Assecondando le ben note pulsioni reazionarie di alcuni settori della maggioranza governativa, l’Esecutivo ha infatti scelto di sposare la linea della “tolleranza zero” da sempre caldeggiata dal Ministro Maroni: così, dopo il dispiegamento di quasi duemila soldati su tutto il territorio nazionale, ecco la previsione del nuovo reato di immigrazione clandestina (entrato in vigore tra le proteste dei Magistrati che da anni invocano una strategia deflativa dei carichi di lavoro basata sulla conversione in illeciti amministrativi dei “reati bagatellari”); ecco l’introduzione (già prevista dalla legge n. 125 del 2008) dello status di immigrato clandestino tra le circostanze aggravanti dei reati; ecco soprattutto la legalizzazione dei “volontari della sicurezza”, delle c.d. “ronde” di cittadini che dovrebbero affiancare le forze di polizia nel controllo del territorio.
Mentre i pasionari di Pontida si spellano le mani tra un comizio di Gentilini ed un proclama di Borghezio (“Bene! Bravi! Così si fa! Basta col buonismo! Pugno duro, severità!”), nell’esaminare le disposizioni di cui sopra il magistrato Piercamillo D’Avigo non ha potuto fare a meno di domandare: queste misure sono effettivamente utili a garantire più sicurezza ai cittadini, o sono mosse dall’esigenza – di stampo essenzialmente propagandistico – di farci sentire più sicuri, quando in realtà siamo più insicuri di prima? In altre parole, si tratta di norme “di sicurezza” o di norme di mera “rassicurazione”, volte cioè soltanto a creare una parvenza di maggiore sicurezza nell’ambito di un contesto complessivo di immutata insicurezza?
Le perplessità dell’ex PM di “Mani Pulite” hanno trovato conferma negli episodi verificatisi a Massa Carrara la scorsa domenica, quando la ronda organizzata da alcuni sostenitori de “La Destra” è venuta a contatto con un gruppo di militanti della sinistra radicale: agli insulti ed alle reciproche provocazioni ha ben presto fatto seguito lo scontro frontale, con il consueto contorno di urla, sirene spiegate e sedie che volavano. Esito finale della battaglia: qualche contuso, cittadini terrorizzati, la polizia costretta ad intervenire per salvare i rondisti dall’assalto dei contestatori.
Di fronte a simili avvenimenti, siamo dunque costretti a chiederci: l’istituzione dei “volontari per la sicurezza” contribuisce ad assicurare una più elevata protezione a quei cittadini che vivono quotidianamente la difficile realtà di alcune aree metropolitane, o serve solo a far credere a questi cittadini di poter sopperire alle eventuali carenze dell’organizzazione statuale “facendosi giustizia da soli”? Si tratta di una vera e propria “misura di sicurezza” o deve più esattamente essere definita come una mera “norma di rassicurazione”?
La risposta a tale interrogativo può essere elaborata sulla base di tre semplici dati di fatto, di per sé sufficienti a dimostrare come la ratio della misura che si commenta risulti poco compatibile con l’esigenza di offrire maggiore sicurezza alla popolazione. In primo luogo, è noto come uno Stato che, rinunciando al proprio ruolo di garante della pax sociale, demanda ai cittadini la funzione di mantenere l’ordine sul territorio – trasformando così l’autotutela da eccezione in normalità - finisce per forza di cose con l’alimentare i conflitti in seno alla società medesima, da sempre individuati come la principale fonte di insicurezza.
In secondo luogo, i fautori della “sicurezza fai da te” non sembrano essersi rappresentati le conseguenze che potrebbero derivare dall’eventuale confronto tra una pattuglia di rondisti – muniti di telefoni cellulari e di spray urticanti – e gli esponenti di una delle realtà malavitose che imperversano nelle nostre periferie: oltre ad essere chiamate ad offrire adeguata protezione ai cittadini comuni, le forze dell’ordine saranno gravate dall’ulteriore onere di dover garantire l’incolumità dei “volontari della sicurezza”, qualora questi vengano coinvolti in situazioni che potrebbero non essere in grado di affrontare. E l’imposizione di ulteriori incombenze alle forze di polizia – peraltro sfibrate dalla manifesta carenza di risorse, uomini e mezzi – non può che contribuire ad alimentare la generale situazione di insicurezza in cui il Paese attualmente versa.
Infine, l’episodio di Massa conferma come la presenza nelle città di gruppi di “rondisti” caratterizzati da una fin troppo chiara connotazione politica finirà con l’innescare continui confronti di piazza tra opposte fazioni, con la paradossale conseguenza che polizia e carabinieri verranno continuamente distolti dai loro compiti tradizionali per sottrarre al linciaggio i componenti della ronda. Insomma, ecco il classico esempio della logica che governa le “norme di rassicurazione”: creare la parvenza di una maggiore sicurezza, anche a costo di alimentare l’insicurezza!
Di questi rilievi critici l’Esecutivo ha tuttavia ritenuto di non dover tenere conto, imponendo l’approvazione di una legge che rappresenta la massima esaltazione del modello di sicurezza da sempre declinato dal partito cui afferisce il Ministro Maroni. Del resto, nel Paese delle immunità e delle prescrizioni brevi, dei condoni e della separazione delle carriere di giudici e PM, è destino che le “norme di sicurezza” (quali quelle utili a garantire maggiori poteri di indagine per gli inquirenti, processi più rapidi per punire gli autori dei reati, maggiori risorse alla giustizia ed alle forze di polizia) debbano lasciare spazio alle “norme di rassicurazione”, per l’applauso del popolo di Pontida.

Carlo Dore jr.

lunedì, luglio 13, 2009


LODO ALFANO: CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

Una recente inchiesta giornalistica ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il singolare episodio di una cena a cui avrebbero preso parte due giudici costituzionali (Luigi Mazzella e Paolo Maria Napoletano), il Presidente Berlusconi ed il Guardasigilli Alfano: l’informale convivio avrebbe costituito l’occasione idonea per discutere della, ormai prossima, decisione della Consulta sul c.d. “lodo salva-premier”, oltre che della prospettiva di una riforma della giustizia penale imperniata sulla separazione delle carriere di giudici ed avvocati dell’accusa e sulla ridefinizione delle prerogative del CSM.
La vicenda è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte di Antonio Di Pietro: dopo aver qualificato il suddetto convivio alla stregua di una “riunione carbonare e piduista”, l’ex PM ha infatti invitato il Presidente della Repubblica ad intervenire per salvaguardare il prestigio e l’integrità della Corte.
La replica del Colle non si è fatta attendere, attraverso una nota che metteva in evidenza l’impossibilità, per il Capo dello Stato, di incidere sull’autonomo svolgimento dell’attività della Consulta; e non si è fatta attendere la replica del giudice Mazzella, il quale, in una lettera aperta al Premier, ha rivendicato il diritto di invitare in casa propria “chi gli pare per parlare di ciò che gli pare”, ed ha confermato di non ravvisare l’esistenza di ragioni che lo possano indurre ad astenersi dal partecipare al giudizio in ordine alla legittimità costituzionale del lodo Alfano.
Ora, nel Paese in cui l’osservanza delle leggi viene sovente scambiata per dabbenaggine ed in cui la tracotanza è divenuta virtù, occorre valutare questo ennesimo corto-circuito istituzionale alla luce, obiettiva ed incondizionata, dei principi di diritto: formalmente, la posizione assunta dal Quirinale appare incontestabile, dato che il nostro ordinamento non attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di intervenire sulla vita della Corte. E, per quanto paradossale possa apparire questa affermazione, neppure il giudice Mazzella mente quando afferma di non essere obbligato ad astenersi, posto che ai membri della Consulta non possono essere applicati né il disposto dell’art. 51 c.p.c. (che curiosamente impone, nel processo civile, l’obbligo di astenersi al giudice che sia “commensale abituale di una delle parti o dei difensori”), né il disposto dell’art. 36 c.p.p. (che, altrettanto curiosamente, con riguardo al processo penale prevede la necessità di astenersi per il giudice che ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni giudiziarie).
A questo punto, il lettore potrebbe però domandarsi: per quale motivo le ragioni di astensione previste per i giudici ordinari non valgono anche per i giudici costituzionali? Come è possibile che, sotto questo profilo, i giudici delle leggi siano sottoposti ad un regime processuale più blando di quello a cui è soggetto il giudice chiamato a dirimere una controversia condominale o a pronunciarsi su un furto di galline?
La risposta ad un simile quesito è più semplice di quanto si possa immaginare: il Giudice delle leggi non assume decisioni relative a particolari situazioni riconducibili a persone determinate; decide, appunto, sulla conformità di leggi o di atti equiparati ai principi contenuti nella Carta Fondamentale, sulla legittimità costituzionale di norme destinate ad applicarsi a tutti i cittadini che si trovano nella situazione in astratto delineata dalla norma stessa. Di conseguenza, né il legislatore costituente né il legislatore ordinario avevano ragione di prevedere la possibilità che le relazioni personali dei singoli componenti della Consulta potessero incidere sulla loro imparzialità di giudizio.
Il problema risiede nel fatto che il Lodo Alfano non può essere definito come una legge generale ed astratta: è una legge che mira a regolare la posizione particolare di “questo” Presidente del Consiglio, il quale, costituendosi nel giudizio nanti la Corte Costituzionale, finirà col difendere non tanto la legittimità di una norma di cui il suo Governo ha imposto l’approvazione, ma soprattutto il suo privato interesse a non essere sottoposto a giudizio nell’ambito di un processo penale già in atto nei suoi confronti.
Alla luce di questa ennesima variante della perversa commistione tra potere politico ed interesse privato che da anni inficia il corretto funzionamento della nostra democrazia, le dichiarazioni del giudice Mazzella, che non ha smentito né la sua partecipazione alla cena incriminata né la trattazione in tale sede degli argomenti di cui sopra, si collocano, per due ordini di ragioni, nettamente al di fuori delle regole che disciplinano il funzionamento della normale dialettica istituzionale.
In primo luogo, esse rivelano una sostanziale continuità tra giudici costituzionali, membri dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare (ovvero sia, tra “controllori” e “controllati”) certamente poco compatibile con gli assetti delineati dal legislatore costituente. In secondo luogo, tali dichiarazioni rischiano di gettare un’ombra sulla decisione che la Corte assumerà su una legge (appunto il Lodo Alfano) che tanta incidenza ha avuto sulla vita politica del Paese.
Rebus sic stantibus, è infatti ipotizzabile che, mentre una decisione di rigetto della questione di legittimità sollevata in ordine alla legge in questione verrebbe accolta dall’opposizione come una conferma delle indebite pressioni praticate dal Governo su alcuni membri della Consulta, una pronuncia di accoglimento (con conseguente declaratoria di incostituzionalità) verrebbe interpretata dagli esponenti della maggioranza come una conseguenza delle immotivate polemiche innescate da parte dell’opinione pubblica a seguito di quella che lo stesso ministro Vito ha sostanzialmente liquidato come una irrilevante “bicchierata” tra amici.
Insomma, quale che sia l’esito della vicenda, ci sarà qualcuno legittimato a chiedere un controllo sull’attività dei controllori: troppo, anche per questa Italia in cui, volendo usare le parole del noto costituzionalista Roberto Bin, “la tracotanza domina nei palazzi del potere e – a dar retta alla stampa – anche nelle case private”.

Carlo Dore jr.

venerdì, luglio 03, 2009


PERCHE’ SOSTENGO BERSANI

Con la conclusione di questa lunghissima tornata elettorale – iniziata con la imprevista sconfitta di Renato Soru nella corsa alla presidenza della Regione Sardegna e completata con i tiratissimi successi riportati a Firenze, Bologna e Bari -, gli appartenenti a quell’ampia fetta di popolo progressista che (spesso più per disperazione che per convinzione) trovano nel PD il loro attuale punto di riferimento devono ancora una volta interrogarsi su quale prospettiva perseguire nell’immediato futuro.
Mentre Bersani si candida, Franceschini replica, Veltroni ritorna, D’Alema ragiona, la Serracchiani sceglie e i TeoDem si agitano, provo a fornire il mio contributo al dibattito in corso sui prossimi assetti del centro-sinistra, partendo da un immagine tratta dall’ultima campagna elettorale: l’immagine di un militante diessino che, allontanandosi dalla piazza in cui aveva appena avuto luogo una manifestazione a sostegno di Flavio Del Bono, mormorava sconsolato: “Ma insomma, questo partito si regge grazie ai nostri voti, ai voti della sinistra…eppure…abbiamo per segretario un ex democristiano; abbiamo proposto candidati provenienti dalla Margherita a Roma, Bologna, Firenze, Napoli… Ma dove sono finiti i nostri? Perché abbiamo bisogno delle veline per mettere paura a Berlusconi?”.
Le riflessioni di quel militante contengono, a mio avviso, i due punti centrali su cui si impernia la sfida che i democratici sono oggi chiamati ad affrontare: da un lato la certificazione del fallimento del “veltronismo” e del modello del partito autosufficiente; d’altro lato, la necessità di dare vita ad un partito “vero”, prima ancora che ad un partito “nuovo”.
Già dall’analisi del famoso discorso del Lingotto, emergeva infatti come la filosofia veltroniana del “ma anche”, del partito dei lavoratori e degli imprenditori, dell’infelice ed un po’ greve italianizzazione degli slogan di Obama avrebbe di fatto chiuso i progressisti italiani nel più classico “cul de sac” , creando una forza politica incapace - a causa delle inevitabili divisioni interne e della palese mancanza di una linea unitaria– di prendere posizioni chiare sulle grandi questioni di rilevanza nazionale.
Alla luce di un simile status quo, scelsi di non partecipare alle primarie dell’ottobre del 2007, limitandomi ad accordare il mio voto al Partito Democratico nel tentativo di arginare l’onda berlusconiana che si accingeva a sommergere il Paese. Tuttavia, le conseguenze derivanti dall’attuazione della strategia elaborata dall’ ex Sindaco di Roma sono oggi sotto gli occhi di tutti: sommaria liquidazione della leadership di Romano Prodi (a cui evidentemente veniva imputatato il peccato mortale di aver vinto tutte le elezioni cui aveva partecipato); astensionismo crescente; gli operai di Mirafiori ed i portuali di Livorno che votano i massa per IDV e Lega Nord; amministratori apprezzati come Illy e Soru condannati alla sconfitta dalle divisioni maturate in seno alla loro stessa maggioranza; Berlusconi messo alle strette non dai rilievi di un’opposizione silente ai limiti dell’afonia, ma dalle rivelazioni di una pattuglia di escort in carriera; Veltroni costretto ad abbandonare in tutta fretta il quatier generale del Nazareno.
All’indomani di una consultazione amministrativa ispirata alla logica del “si salvi chi può!”, è dunque necessario individuare la strada da cui ripartire nell’elaborazione di una proposta politica in grado di guidare l’Italia fuori dalle sabbie mobili in cui si sta rovinosamente arenando l’attuale esperienza di governo del Cavaliere. In questo senso, per ridare speranza ad un Paese sull’orlo di una crisi politica e morale forse irreversibile, non bastano qualche faccia nuova ed i generici richiami ad un rinnovamento finora percepibile solo in alcune sporadiche riunioni di militanti lastricati di buone intenzioni: bisogna creare, entro tempi brevi, un partito degno di tale nome.
Occorre creare un partito (lo si chiami PDS, DS, o PD: le sigle ormai lasciano il tempo che trovano) capace di intercettare i consensi degli appartenenti a quella vasta area della c.d. “sinistra diffusa” che attualmente versano, per usare le parole di Ilvo Diamanti, nella triste condizione di esuli in terra straniera, fungendo da elemento-cardine di una forte coalizione che sappia riproporre lo spirito del grande Ulivo del 1996.
Occorre creare una partito saldamente radicato sul territorio, non più equidistante tra sindacato ed imprese ma presente nel mondo del lavoro e vicino alle esigenze dei lavoratori; occorre creare un partito etico, schierato a difesa della Magistratura e delle istituzioni di garanzia, messe quotidianamente sotto attacco dall’arroganza di un premier che una legge inconcepibile presso qualunque democrazia occidentale rende di fatto legibus solutus; occorre creare un partito laico, che sappia affrontare i temi connessi alla tutela delle libertà civili proponendo soluzioni emendate da pregiudizi di natura morale o religiosa.
Di questo insieme di istanze - gridate a tutta forza dal popolo progressista presente nelle piazze, nei circoli, nei blog ed in tutti i luoghi di aggregazione che la politica moderna mette a disposizione di elettori e militanti - né Franceschini (a cui va riconosciuto il merito di avere di avere svolto con dignità il ruolo di traghettatore assegnatogli dopo il fallimento della stagione veltroniana, stagione della quale era stato comunque attivo protagonista) né la tanto onesta quanto ingenua Debora Serracchiani sembrano avere preso integralmente consapevolezza, evidentemente ignari del fatto che ogni operazione di rinnovamento di una classe dirigente non può prescindere dalla costruzione di un partito ancorato a valori che, al momento, in casa democratica non è dato rilevare.
Di queste istanze sembra invece essersi fatto effettivo interprete Pierluigi Bersani, eterno contestatore del modello del “partito liquido” e convinto sostenitore della necessità di ricreare, attorno al PD, una nuova alleanza di centro-sinistra (basata sull’intesa tra ex prodiani, ex diessini e sul contributo di alcune delle forze che al momento si collocano a sinistra del Partito Democratico) per proporre quella credibile alternativa alla destra berlusconiana di cui attualmente si avverte la mancanza.
Dopo anni di incertezze e di divisioni, sento di condividere questo progetto, anche se non nascondo le tante zone d’ombra che il medesimo presenta, con particolare riferimento agli uomini che saranno chiamati, soprattutto a livello locale, a gestirne l’attuazione. Comunque, alle primarie di ottobre, mi presenterò al seggio: voterò per Bersani, e per sostenere l’idea di un PD qualificabile come moderno partito di sinistra, sperando che anche questa ennesima speranza non si trasformi nell’ennesima delusione.


Carlo Dore jr.