sabato, ottobre 31, 2009


LE TRE SFIDE DEL “POST-COMUNISTA” BERSANI

Contrariamente a quanto affermato da alcuni autorevoli commentatori, l’esito delle primarie che ha certificato l’ascesa di Pierluigi Bersani alla segreteria del Partito Democratico non può essere semplicemente interpretato come l’ennesima affermazione della forza degli apparati rispetto alle spinte innovatrici provenienti da determinati settori della società civile, come il momento conclusivo di una strategia sapientemente orchestrata dai signori delle tessere dall’alto delle stanze del potere.
Confermando l’orientamento espresso dagli iscritti in occasione dei congressi di circolo, gli oltre tre milioni di elettori che la scorsa domenica si sono messi in fila davanti ai seggi di tutta Italia hanno infatti voluto lanciare un messaggio politico difficilmente equivocabile: basta con il mito del partito liquido, equidistante tra lavoratori ed imprenditori; basta con l’ossessione del rinnovamento, cavalcata per coprire la mancanza di un progetto di ampio respiro. Il PD deve recuperare la propria dimensione di “partito di massa”, di partito del lavoro capace di costruire sulla base delle istanze che provengono dalle classi sociali più deboli la proposta di governo alternativa al modello gheddafiano con cui Berlusconi sta tenendo sotto scacco il Paese.
Per impartire la tanto attesa “svolta a sinistra” alla strategia del principale partito dell’opposizione democratica, il popolo delle primarie ha scelto di dare fiducia all’approccio concreto ed antimediatico proprio del “post-comunista” Bersani, del dirigente che – per origini, per formazione, per mentalità – appare più vicino al sistema di valori da cui è costituita la migliore tradizione della sinistra italiana.
Tuttavia, sarebbe errato ritenere che, con il voto di domenica, sia pervenuta nelle mani del neo – segretario un’ennesima delega in bianco. No: archiviando una volta per sempre la fallimentare parentesi del veltronismo, della logica del “ma – anche” elevata ad elemento-cardine del programma elettorale, della italianizzazione stucchevole ed un po’ pacchiana degli slogan di Obama, la base ha posto l’ex ministro dello sviluppo economico dinanzi a tre sfide centrali, dal cui superamento dipendono in massima parte le possibilità del centro-sinistra di riuscire a contrastare lo strapotere berlusconiano.
In primo luogo, il definitivo superamento del dogma dell’autosufficienza e della vocazione maggioritaria richiede la costruzione – attraverso la preventiva elaborazione di una piattaforma programmatica condivisa - di un’ampia alleanza progressista, in grado di intercettare anche il contributo delle associazioni e dei movimenti operanti sul territorio; richiede, in altri termini, la riproposizione ed il rafforzamento dell’idea del grande Ulivo formulata da Romano Prodi, già rivelatasi vincente nel non lontano 1996.
In secondo luogo, l’esistenza delle troppe divisioni tra i vari gruppi di potere che si sono finora contesi la guida del partito nell’ambito delle varie realtà locali – divisioni opportunamente indicate da Ilvo Diamanti come una delle principali cause della emorragia di consensi subita dal PD nel corso dell’ultimo anno - impone la realizzazione di una struttura organizzativa stabile imperniata sull’esistenza di regole certe, presupposto indispensabile per porre un freno all’imperversare dei famosi “cacicchi” a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nella sua famosa intervista rilasciata a “La Repubblica” nel dicembre del 2008.
Infine, la vicenda che ha coinvolto Piero Marrazzo – costretto alle dimissioni dai principali dirigenti nazionali proprio per disinnescare la reazione potenzialmente dirompente che l’elettorato avrebbe opposto ad uno scandalo che rendeva di fatto indifendibile l’ex Governatore – ha confermato una volta di più quanto il popolo progressista ancora creda nella questione morale, in una concezione etica della politica lontana anni – luce dal clima da Basso Impero che da anni si respira nei paraggi di Palazzo Grazioli.
Ebbene, proprio a Bersani – fino a ieri frettolosamente definito da avversari ed eterni detrattori come il passatista, il conservatore, l’uomo dell’apparato, il mandatario dei signori delle tessere – spetta ora il difficile compito di ridare fiato alla cultura berlingueriana della partito inteso non come veicolo per il potere ma come strumento di attuazione dell’interesse generale, favorendo il graduale ricambio generazionale nell’ambito di certi settori di una classe dirigente che di questa cultura non viene più percepita come autentica ed integrale espressione.
Queste sono le grandi sfide che gli elettori delle primarie chiedono al nuovo segretario di affrontare, per traghettare il Paese fuori dalle sabbie mobili dell’autoritarismo di una destra forcaiola ed amorale. Tre milioni di voti per vincere tre sfide decisive: le tre sfide del “post-comunista” Bersani.

Carlo Dore jr.

venerdì, ottobre 16, 2009


DUE SPINE PER IL PD: QUANDO IL CAOS NON E’ DEMOCRATICO

Conclusa con la Convenzione nazionale di domenica scorsa la prima fase del congresso del Partito Democratico, le polemiche che stanno caratterizzando la campagna per le elezioni primarie attraverso cui verrà scelto il nuovo segretario del principale partito del centro-sinistra italiano suggeriscono alcune riflessioni sui possibili assetti che potrebbero delinearsi all’indomani della tornata elettorale del 25 ottobre.
Accordando la maggioranza assoluta dei consensi alla mozione che fa capo a Pierluigi Bersani, gli iscritti hanno chiaramente dimostrato di aderire alla proposta del “partito fortemente radicato e identitario”, capace di fungere da perno di un’ampia coalizione riformista che l’ex ministro dello sviluppo economico da sempre declina. Ora – a causa dei troppi bizantinismi imposti alla fase congressuale da uno statuto talmente elaborato da apparire, agli occhi di un osservatore obiettivo, in definitiva poco razionale – si deve rilevare come, dopo le primarie, potrebbero aprirsi tre differenti scenari, due dei quali potenzialmente qualificabili come autentiche “spine nel fianco” per il processo di rafforzamento del nuovo soggetto politico.
Se infatti gli elettori dovessero confermare l’orientamento espresso dai congressi di circolo, la “svolta a sinistra” più volte invocata da Bersani troverebbe la sua completa attuazione: liberato dall’influenza neocentrista esercitata da Rutelli e dagli odiati Teo-dem, ecco che il PD potrebbe promuovere, anche con la benedizione di Romano Prodi, la creazione di una vasta alleanza di tutte le principali forze di opposizione, capace di guardare tanto al centro quanto a sinistra. Insomma, si tornerebbe a cavalcare l’iniziale progetto del “Grande Ulivo”, impostato su quel modello di PD “formato PDS” in cui gran parte dei militanti ex diessini hanno ricominciato a credere dopo il tracollo del veltronismo e dell’idea del partito liquido.
Ma che succede se invece – sull’onda di una campagna congressuale sapientemente condotta più con la passione dello sfidante lanciato alla conquista della leadership che con la lucidità propria di un segretario uscente che mira ad essere riconfermato nella sua carica – Franceschini dovesse riuscire a convincere il popolo delle primarie a sovvertire le indicazioni degli iscritti? Al di là delle incertezze sulla futura identità del PD (Franceschini ha finora dimostrato un’indubbia abilità nell’apparire abbastanza antiberlusconiano da sfuggire all’etichetta di moderato, ed al contempo abbastanza radicato al centro da rassicurare quella fetta di elettorato cattolico che teme la svolta progressista), si verificherebbe il piccolo paradosso di un segretario che governa il partito contro la volontà degli iscritti, paradosso discendente da quel potenziale cortocircuito – più volte denunciato da D’Alema – tra determinazioni della struttura e risultato delle primarie che le sopra citate norme statutarie rischiano di innescare.
Tuttavia, se tanto lo stesso Franceschini quanto Bersani hanno tentato di scongiurare ogni possibile situazione di empasse impegnandosi reciprocamente a riconoscere come segretario il candidato che - anche senza ottenere la maggioranza assoluta dei consensi - “riporterà un voto in più” in occasione della competizione del 25 ottobre, Ignazio Marino sembra deciso a far valere fino in fondo il peso che i suoi delegati potrebbero assumere in seno all’Assemblea nazionale in caso di ballottaggio.
Ecco quindi che, accanto alle due situazioni su cui abbiamo finora ragionato, potrebbe delinearsi una “terza via”, difficilmente configurabile ma forse da non scartare, specie alla luce della svolta laica osservata dal segretario uscente negli ultimi giorni. Ipotizziamo infatti che Bersani ottenga alle primarie una maggioranza non tale da assicurargli una vittoria diretta: non è da scartare che la confluenza su Franceschini dei voti dei delegati facenti capo a Marino sia decisiva per garantire la riconferma all’ex vice di Veltroni. A quel punto il paradosso sarebbe duplice: Franceschini si troverebbe a dirigere il partito non solo contro la volontà dei tesserati, ma addirittura in violazione di quello che è l’orientamento espresso dalla maggioranza (seppure relativa) dei partecipanti alle primarie!
Solo fantapolitica? Forse. Quel che è certo è che, a seconda dell’esito che caratterizzerà le elezioni di domenica prossima, il meccanismo del “doppio binario congressuale” previsto dallo statuto rischia di gettare il PD nel caos. E, contrariamente a quanto affermava Michele Salvati in un bell’articolo apparso su “L’Espresso” all’indomani del famoso discorso tenuto da Veltroni al Lingotto, non si può certo sostenere che il caos sia democratico.


Carlo Dore jr.

mercoledì, ottobre 07, 2009


LODO ALFANO: IL PRIMATO DELL’EGUAGLIANZA SULLA VOLONTA’ DEL “PRIMUS SUPER PARES


Le reazioni proposte all’opinione pubblica da alcuni esponenti della maggioranza di governo dopo la lettura del dispositivo della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del c.d. “Lodo Alfano” per violazione degli artt. 3 e 138 della Carta Fondamentale si collocano nella stessa linea di ragionamento che aveva caratterizzato le arringhe svolte dagli avvocati Ghedini e Pecorella nell’udienza tenutasi ieri dinanzi all’Alta Corte.
Premesso infatti che “se la Legge è uguale per tutti, non necessariamente lo è la sua applicazione”, specie in un sistema politico imperniato sulla figura di un Presidente del Consiglio reso qualificabile dalla legittimazione popolare alla stregua di un “primus super pares”, ecco che qualsiasi fattore in grado di intralciare il progetto del Princeps (dalle sentenze della Consulta alle parole del Capo dello Stato, dalle inchieste dei giornali alle opinioni espresse nei salotti televisivi da qualche sparuto opinionista indipendente) viene per forza di cose inquadrato nell’ambito di un più ampio progetto eversivo, volto a ribaltare per via “mediatica e giudiziaria” le inequivocabili indicazioni provenienti dal corpo elettorale.
Tuttavia, ad un osservatore equilibrato non sfugge come, lungi dal delineare prospettive di eversione, attraverso la decisione di oggi la Consulta abbia voluto ristabilire tre fondamentali principi, già rappresentati dai cento costituzionalisti che più volte hanno rilevato i molteplici profili di incostituzionalità che caratterizzavano le norme indubbiate.
In primo luogo, il Giudice delle Leggi ha voluto ribadire come, essendo contenuta nella Costituzione la disciplina delle immunità previste a favore dei soggetti chiamati a ricoprire un incarico istituzionale, deve individuarsi nella legge di revisione costituzionale (approvata attraverso il procedimento aggravato di cui all’art. 138 Cost.) lo strumento idoneo a determinare l’introduzione nell’ambito dell’ordinamento di una disposizione volta a garantire la sospensione dei processi nei confronti del Presidente del Consiglio o delle altre Alte Cariche dello Stato.
In secondo luogo, la Corte ha escluso la compatibilità della regula iuris contenuta nella disposizione in esame con il dettato dell’art. 3 comma 1 della Carta Fondamentale. Posto infatti che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla Legge, senza distinzioni di sesso, lingua, razza, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, la creazione di una cerchia di soggetti resi di fatto “legibus soluti” dalla volontà degli elettori rappresentava un chiaro superamento di quel principio dell’eguaglianza formale sui cui il nostro ordinamento si fonda.
Ma soprattutto, mediante la pronuncia in commento, il Giudice delle Leggi ha confermato come, anche in un momento storico in cui le determinazioni dell’Uomo solo al comando tendono a prevalere sulle debolezze della politica, favorendo la graduale affermazione del Potere Esecutivo e la corrispondente riduzione del Parlamento al ruolo di mero organo di ratifica delle decisioni assunte a livello governativo, le Istituzioni di garanzia come la Magistratura, il Capo dello Stato e la Corte Costituzionale sono ancora in grado di impedire l’affermazione delle logiche ispirate all’adagio “L’Etat c’est moi” a cui il Presidente del Consiglio sembra fare costantemente riferimento. Anche in questa Italia alla deriva, la cultura delle regole e della legittimità di cui il principio di eguaglianza è espressione può ancora prevalere sull’incontrollabile vocazione monocratica che di frequente caratterizza le scelte del “primus super pares”.

Carlo Dore jr.