giovedì, maggio 27, 2010


DRAQUILA: L'ITALIA CHE TREMA

Quando, sullo schermo di una delle poche sale cinematografiche che ne hanno programmato la proiezione, hanno iniziato a scorrere i titoli di coda dell'ultimo film di Sabina Guzzanti, ho finalmente capito il motivo per cui contro “Draquila” si era scatenata l'ira incontrollabile di alcuni membri del Governo, puntualmente sostenuta dalla consueta girandola di trombettieri senza ritegno, starlette ormai avanti con gli anni, intellettuali più o meno credibili e censori improvvisati che ormai da quindici anni imperversa nell'Italietta berlusconiana.

Ho capito perché Bondi ha scelto di disertare di punto in bianco il Festival di Cannes, perché Capezzone ha dovuto denunciare a reti unificate “la vergognosa mistificazione dell'eccezionale opera dell'Esecutivo”, perchè persino la Brambilla è riuscita a manifestare “profonda indignazione per la pessima immagine dell'Italia che certi cineasti offrono all'estero”. Ho capito perchè Draquila ha fatto tremare l'Italia.

Privo della tagliente ironia propria di “Viva Zapatero” e lontano anni-luce dalle lucide ed impietose indagini di Michale Moore, il film della Guzzanti presenta una caratteristica che lo rende incompatibile con le logiche del Primus super pares: rappresenta la realtà dei fatti, mettendo in evidenza la spaccatura in essere tra il Paese virtuale ed il Paese reale, tra il Paese descritto dagli editoriali di Minzolini ed il Paese percepito dalle vittime del terremoto nell'inferno delle tendopoli o nell'anonimo grigiore degli alberghi della costa adriatica. La spaccatura che divide l'Italia che ride dall'Italia che trema.

Dimostrandosi ancora una volta indifferente alle regole del politically correct, Sabina spiega con dovizia di particolari come – anche a causa della disarmante debolezza di un'opposizione attenta più a salvaguardare gerarchie ed equilibri interni che a svolgere con la dovuta incisività la propria funzione istituzionale - un Presidente del Consiglio in crisi di consenso e di credibilità è riuscito a trasformare il dramma del terremoto aquilano nell'occasione per rilanciare agli occhi del Mondo intero la propria immagine di “uomo del fare”, di leader capace di dare soluzione ai problemi più intricati volando allegramente al di sopra del sistema di lacci e lacciuoli imposti all'Esecutivo dai bizantinismi di un ordinamento canaglia.

Ecco allora che le televisioni propongono l'immagine del Premier in caschetto che marcia impettito tra le rovine abruzzesi, disponendo dell'imminente G8 come di una sua festa privata; ecco l'esaltazione della figura di Bertolaso, icona del berlusconismo efficentista pronto ad ascendere ad un seggio ministeriale; ecco l'istituzionalizzazione dell'emergenza, la mortificazione dei controlli, la trasformazione della Protezione Civile in braccio operativo del Governo. Degli scandali che ciclicamente investono gli uomini del Presidente, dell'abnorme dispendio di risorse pubbliche che ha fatto seguito all'annullamento del G8 in programma a La Maddalena, della limitazione delle libertà di riunione e di manifestazione del pensiero nell'ambito delle tendopoli è meglio non parlare: meglio non spargere pessimismo sulla marcia degli uomini del fare, meglio che l'Italia continui a sorridere.

Ma cosa succede quando il discorso di un politico non allineato, l’inchiesta di un giornalista troppo curioso, il film di un regista scomodo squarcia la patina azzurra in cui è avvolto il Paese virtuale, per offrire al pubblico un, seppur piccolissimo, squarcio di realtà? Succede che il miracolo dell’uomo del fare appare in tutta la sua effettiva inconsistenza, che l’efficientismo dei professionisti dell’emergenza assume i tristi connotatati del sistematico abuso di potere, che la perfetta macchina di moltiplicazione del consenso su cui si fonda il sistema – Berlusconi rischia di incepparsi e di non poter più essere ravviata.

Ecco perché Draquila viene descritto come una vergogna nazionale, come un atto di vilipendio delle istituzioni, come un momento di cattiva propaganda dell’immagine dell’Italia all’estero: perché riesce a descrivere la condizione in cui versa il Paese reale, a dare spazio a quei sempre più rari sussulti di dignità democratica che il Cavaliere tenta di obliterare nel marasma dei finti successi e dell’ottimismo ad ogni costo. Insomma, Bondi, Capezzone e la Brambilla devono partire all’attacco della Guzzanti: al cinema c’è Draquila, e l’Italia di Berlusconi trema.

Carlo Dore jr.

martedì, maggio 04, 2010



IL PD E LA GIUSTIZIA: LUCI E OMBRE DELLA “BOZZA ORLANDO”


In un lungo editoriale pubblicato sul “Foglio” lo scorso 9 aprile, Andrea Orlando ha tratteggiato quelle che dovrebbero essere le posizioni del Partito Democratico in ordine all’attualissimo e controverso tema della riforma della giustizia.

Premesso che la scelta di affrontare una materia di questa rilevanza proprio sulle colonne di un quotidiano da sempre in prima linea contro quelle che il centro-destra definisce “le frange politicizzate della magistratura” non può non destare più di una perplessità, l’articolo del responsabile per la giustizia della segreteria di Bersani impone comunque una riflessione approfondita, nel tentativo di individuare, tra le tante proposte avanzate dal parlamentare spezzino, quelle che possono considerarsi effettivamente idonee a risolvere i molteplici problemi della giustizia italiana.

In questo senso, mentre meritano assoluta ed incondizionata condivisione la denuncia delle troppe disfunzioni che caratterizzano il processo civile, la proposta di rivedere il sistema delle impugnazioni nel processo penale (restringendo drasticamente le maglie del ricorso per Cassazione) e l’intendimento di procedere ad una più razionale distribuzione degli uffici giudiziari, le aperture sulla “rimodulazione” del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale – da praticarsi “attraverso l’individuazione di priorità che non limitino l’indipendenza del PM - e sulla ridefinizione delle prerogative e dei criteri di composizione del CSM appaiono francamente poco comprensibili.

Posto infatti che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 114 Cost. – il quale impone al Pubblico Ministero di indagare su tutte le notizie di reato da lui ricevute – va interpretato alla luce del più generale principio dell’eguaglianza formale consacrato nell’art. 3 della Carta Fondamentale, il superamento dell'azione penale obbligatoria potrebbe implicare l’assegnazione al Parlamento o, peggio ancora, al Governo della prerogativa di indicare i reati da perseguire con priorità. Allo stato delle cose, è fin troppo facile ipotizzare quale posizione finirebbero con l’occupare, nell’ambito di questa speciale graduatoria, i reati connessi alla c.d. criminalità economica e quelli contro la P. A.

Del pari, una compressione dell’indipendenza dell’autonomia dell’ordine giudiziario rispetto al potere politico farebbe inevitabilmente seguito ad una rivisitazione delle norme che disciplinano la composizione e le attribuzioni (con particolare riferimento alla materia disciplinare) del CSM, il quale, in questi anni, si è più volte dimostrato perfettamente in grado di assolvere alla funzione di organo di autogoverno delle toghe e di garante dell’indipendenza della Magistratura ad esso riconnessa dal nostro ordinamento costituzionale.

A ben vedere, dunque, le “aperture” di Orlando risultano caratterizzate da un duplice profilo di irrazionalità: da un lato, esse non sembrano funzionali ad assecondare le principali esigenze del cittadino che “chiede” giustizia, esigenze individuabili nella rapida attuazione dei mezzi di tutela, nell’applicazione di pene certe nei confronti degli autori dei reati, nell’efficiente impiego delle poche risorse di cui il sistema giudiziario dispone. D’altro lato, queste aperture si basano sull’artificiosa astrazione costituita dall’intendimento di “riformare la giustizia italiana nel modo più possibile condiviso”, a prescindere da Berlusconi, dai suoi processi da aggiustare, dalle sue vendette da consumare.

Ma in un Paese in cui il legislatore si è spesso trovato ad assumere la scomoda veste di principale avvocato difensore di alcuni imputati eccellenti, il principale partito di opposizione non può limitarsi ad indicare qualche pallido temperamento alle più irricevibili proposte di una maggioranza nell’ambito della quale la vox principis prevale da sempre sulla cultura della legittimità. Il PD è chiamato a delineare un modello di giustizia radicalmente antitetico rispetto a quello vagheggiato dal Presidente del Consiglio: un modello di giustizia imperniato proprio su quei principi dell’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, dell’autonomia della Magistratura rispetto ad ogni altro potere, dell’obbligatorietà dell’azione penale troppo spesso messi in discussione da riformatori più o meno illuminati.

Un triste destino attende infatti il Paese in cui anche l’opposizione, per assecondare la necessità di “riforme il più possibile condivise”, finisce col conformarsi alla Voce del Principe, rinunciando – come correttamente ha osservato Gian Carlo Caselli – a differenziarsi in maniera netta dalla maggioranza politica contingente: quel Paese assisterà, presto o tardi, al declino della cultura della legittimità.

Carlo Dore jr.