lunedì, marzo 28, 2011


“SULLA PORTA DELLA LEGGE C’E’ UN GUARDIANO”: TRA KAFKA E BERLUSCONI.

“Sulla porta della legge c’è un guardiano” scrive Kafka ne “Il processo”: un guardiano che impedisce il contatto con la legge ad un povero contadino destinato a consumarsi nel suo disperato tentativo di sentire la sua domanda di giustizia rimbombare oltre i battenti di quella porta. “Sulla porta della legge c’è un guardiano”, deve aver pensato oggi Berlusconi, sedendosi ancora una volta dietro il banco degli imputati: un guardiano che si ostina a sbarrargli la via che conduce lontano dalle aule di giustizia.

“Sulla porta della legge c’è un guardiano”: un guardiano settario e fazioso che si oppone alla libera volontà espressa dalla maggioranza degli elettori, impedendo al Presidente del Consiglio di completare il miracoloso processo di rinnovamento avviato dal miglior governo degli ultimi 150 anni. “Contro di me accuse ridicole” tuona il Cavaliere nella cornetta di Belpietro: si sente come il personaggio di Kafka, che si consuma sulla porta della legge. La Santanchè grida e si agita sul marciapiede che costeggia il Tribunale di Milano, con i tacchi a spillo che massacrano impietosamente il grigio dell’asfalto; i Pretoriani della libertà si schierano in capannelli sempre meno numerosi, tra i claxon degli automobilisti esasperati e gli sberleffi degli oppositori inferociti: “Silvio è un perseguitato!” “Ma si faccia processare!”.

“Sulla porta della legge c’è un guardiano”, che da quindici anni non si sposta. C’è stato Borrelli con il suo “resistere, resistere, resistere”, c’è stato D’Avigo con la sua scienza al vetriolo, ora c’è la Boccassini che indaga insieme a Di Pasquale: Mills e il Ruby-gate, la Minetti e Lele Mora, false testimonianze e conti cifrati, escort e notti brave, telefonate indebite e balle spaziali. E’ il fango del potere, è il potere che affoga nel fango: si salvi chi può! Arrivano Ghedini con la sua teoria de “l’utilizzatore finale”, Alfano con il suo arsenale di scudi e legittimi impedimenti, Paniz con la pazza idea della prescrizione breve. Fioccano le immunità e le sentenze di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato: il Cavaliere tira un sospiro di sollievo, e marcia impettito verso l’uscita del Tribunale. La via è libera, il guardiano è neutralizzato? No, il guardiano è sempre lì, sulla porta della legge, e gli ordina a brutto muso di tornare in aula.

Le immunità cadono una dopo l’altra sotto la scure della Corte Costituzionale, le prescrizioni non possono neutralizzare le nuove indagini: il fango continua a sommergere i palazzi del potere. La gente si indigna e scende in piazza “Dimissioni! Dimissioni!”. I leoni dell’etere tornano a ruggire: arriva Ferrara da Radio Londra, arrivano Sallusti e Kalisphera. Riparte la teoria del complotto, dell’aggressione delle toghe rosse, dei giudici politicizzati da punire, magari attraverso una bella riforma in grado di colpirli, oltre che nell’indipendenza, anche nel portafogli. Berlusconi lascia l’udienza e guarda in cagnesco il Tribunale dal basso del predellino della solita auto blu. I supporter lo attendono, lui sfodera toni trionfalistici e sorriso da caimano: sono un perseguitato, sono come il personaggio di Kafka. Persino la Santanchè, che conosce Kafka parola per parola, si rende conto della scarsa consistenza della metafora: il contadino de “Il Processo” si consuma dinanzi al guardiano chiedendo di accedere alla porta della legge, non di attraversarla per stare lontano dal banco degli imputati.

Sulla porta della legge c’è un guardiano: quel guardiano si chiama Costituzione, si chiama legalità, si chiama uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Sulla porta della legge c’è un guardiano: è dinanzi a quel guardiano che il potere di Berlusconi è forse destinato a spegnersi poco a poco.

Carlo Dore jr.

mercoledì, marzo 16, 2011


RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: UNA MIA REPLICA A PASQUALE MOTTA.

Una mia replica all'articolo di Pasquale Motta, apparso su Rosa Rossa on line del 12 marzo 2011. Questo mio intervento è stato pubblicato oggi (16 marzo 2011) sul sito Rosa Rossa on line ( http://www.rosarossaonline.org/art/2011/03/16/riforma-della-giustizia-una-replica-a-pasquale-motta_13002 ) che ringrazio per la disponibilità.

Gentile Direttore,
nei giorni scorsi, sul periodico da Lei diretto è stato pubblicato un articolo che (in aperta adesione all’appello formulato da alcuni giornalisti del sito “The Frontpage”) invitava le forze progressiste presenti in Parlamento a collaborare all’attuazione dei progetti di riforma della Giustizia recentemente elaborati dall’Esecutivo, e ad affrancarsi una volta per sempre dalla loro “storica, e per certi versi comoda, subalternità ad una certa magistratura”.

A costo di essere etichettato come un esponente della “sinistra del Palasharp, degli indignati sempre e comunque, dei forcaioli e dei manettari” (definizione che invero non mi offende, considerato che in questa schiera di “forcaioli giustizialisti” militano giuristi del calibro di Gustavo Zagrebelsky e magistrati, come Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, da sempre in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata), credo che il suddetto articolo meriti una breve replica, giacché la proposta di istituire in tutta Italia “comitati a favore della riforma” denota, a mio sommesso avviso, una percezione poco lucida dell’impatto che l’approvazione della “bozza Alfano” potrebbe determinare sull’ordinamento.

Limitandomi all’essenziale, rilevo in primo luogo come il testo della riforma in esame non incide in alcun modo sull’amministrazione della giustizia (cioè sull’assetto dell’attuale sistema processuale), ma stravolge completamente la struttura dell’ordinamento giudiziario. Dunque, non una di una riforma della giustizia si tratta, ma di una riforma dei Giudici, approvata in chiaro spregio ad alcuni di quei “principi supremi” della Carta Fondamentale a cui anche una legge approvata attraverso il procedimento ex art. 138 Cost. deve per forza di cose sottostare.

Cinque sono i capisaldi della “riforma epocale” elaborata a tamburo battente dai giureconsulti di Palazzo Grazioli: la separazione delle carriere di giudici e PM (misura volta a garantire una piena parità tra accusa e difesa, così da imporre all’”Avvocato dell’accusa” di presentarsi al cospetto giudice “col cappello in mano”); lo smembramento e la duplicazione del CSM; la creazione di un’Alta Corte (a nomina prevalentemente politica) preposta a “sanzionare civilmente” i magistrati che sbagliano; la cancellazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale, e la conseguente attribuzione all’Esecutivo del potere di indicare i reati da perseguire con priorità; l’assegnazione alla polizia giudiziaria (affrancata dal controllo del magistrato requirente) del monopolio esclusivo delle indagini.

In altre parole, la “grande, grande grande” riforma di cui ora discutiamo mira a creare la figura di un PM cieco e privo di strumenti di indagine, da un lato costretto a perseguire esclusivamente i reati sui quali il potere politico gli impone di concentrare la sua azione, e d’altro lato perennemente sottoposto alla minaccia di una sanzione erogata da un organo di cui lo stesso potere politico detiene l’esclusivo controllo.

Tutto ciò premesso, ci si deve domandare: queste misure contribuiranno a migliorare la posizione del cittadino che “chiede giustizia”? Serviranno cioè ad assicurare pene più certe, processi più rapidi, giudizi più equilibrati? La risposta, alla luce delle considerazioni appena formulata, appare drammaticamente scontata: la riforma elaborata da Alfano finirà esclusivamente col creare una giustizia a due velocità, implacabile nel reprimere i reati “umili” (come il furto o la rapina) ma straordinariamente permissiva nei confronti della c.d. criminalità economica o amministrativa.

Ma dinanzi alla prospettiva di una magistratura asservita alla voluntas principis, quale sforzo collaborativo può essere richiesto alle forze dell’area democratica, che già troppe volte in passato hanno disatteso le aspettative dell’elettorato in materia di giustizia e di tutela della legalità? Al contrario, è auspicabile invece che, per una volta, l’intera opposizione si mobiliti in una rigorosa azione di contrasto al ddl che si esamina, azione di contrasto da condurre tanto nelle aule parlamentari quanto in seno alla società civile, in previsione della prossima battaglia referendaria: per avanzare poi una serie di proposte di riforma che, incidendo sui tanti problemi di un sistema prossimo al collasso, risultino in grado di dare risposte concrete alla domanda di giustizia che magistrati, avvocati e semplici cittadini ogni giorni rivolgono ai palazzi della politica.

Grato per lo spazio che vorrà concedermi,
 
Carlo Dore jr.
 
Di seguito, pubblico sia l'intervento di Pasquale Motta che l'appello firmato dai giornalisti del sito "The Frontpage".
 
Carissimi Micucci, Sansonetti, Rondolino, Velardi, Bruno Bossio,

ho condiviso e sottoscritto il vostro/nostro appello sulla giustizia, così come avevo fatto per il primo appello su questo tema. Credo però che questa volta solo l’appello non basti, bisogna osare di più.

Che fare allora? A mio avviso, bisogna chiamare a raccolta tutti i riformisti liberali e garantisti della sinistra italiana, io credo che non siamo pochi e, con loro, mettere su una iniziativa nazionale che metta giù delle proposte e nello stesso tempo agisca come strumento di pressione politica. Amici miei, è giunta l’ora di mettere su un movimento, di fare rete, affinché emerga l’anima garantista, democratica e liberale della sinistra italiana. La discussione sulla riforma sarà lunga, visto l’impianto di riforma costituzionale, ma già vedo titubanze nel gruppo dirigente del Pd che non lasciano presagire nulla di buono ai fini della partecipazione del maggiore partito d’opposizione alla costruzione di una seria riforma della giustizia.

Ricordo a tutti voi che i Ds prima e il Pd poi più volte hanno cercato di varare una radicale riforma della giustizia; ci provò D’Alema con la Bicamerale, ci provò Boato, ci hanno timidamente provato Violante e Orlando, ma ogni tentativo è naufragato sotto il fuoco micidiale della propaganda mediatico-giustizialista messa in campo da Travaglio, Santoro, Idv e compagnia bella, una lobby questa che sta assumendo giorno dopo giorno i connotati di una vera e propria “Gladio giustizialista”. In queste ore rivedo un film già visto tante volte: le dichiarazioni in tono greve delle icone giustizialiste Caselli e Spataro; altri, sono sicuro, verranno nelle prossime ore; poi ci saranno le trasmissioni di Santoro, si mobiliteranno le piazze viola, poi ancora Il Fatto comincerà a pubblicare qualche intercettazione telefonica generosamente passata da qualche Pm e, infine, non escludo qualche “eclatante” inchiesta.

In passato, quando ci si è avvicinati a qualche riforma dell’ordine giudiziario, è finita sempre così. I tentativi di riformare il ruolo del Pm non sono stati inventati da Berlusconi, o dal disegno postumo della P2, come si sostiene nella valanga di sciocchezze che, in queste ore, portano avanti orde di forcaioli giustizialisti. Già Piero Calamandrei nell’Assemblea Costituente pose il problema, nel 1981 faceva parte del programma di governo di Spadolini, ma la riforma non andò in porto perché quel governo durò poco più di un anno. Nel 1983 il Psi riprese il tema approvando nella sua direzione un’ampia proposta di riforma, ma pochi giorni dopo, alla vigilia delle elezioni politiche, scoppiò lo scandalo Teardo, presidente socialista della Regione Liguria, il quale fu arrestato insieme ad alcuni esponenti della sua giunta. Tutto si fermò fino al 1989, quando, con la riforma del codice penale, si introdusse una qualche innovazione, da allora, e sono passati 20 anni, la politica non è riuscita più ad imporre nessuna riforma.

L’ordine giudiziario si è sempre opposto con tutti i mezzi. Anche quando fu introdotta la DDA, proposta da Falcone e Martelli, la magistratura si oppose a quella innovazione e Giovanni Falcone fu accusato di tutto e di più, non solo, la sua nomina a Procuratore distrettuale antimafia fu bloccata e gli si preferì Sica, grazie al voto determinante in Csm, di un esponente di Magistratura Democratica, e sempre allora, tra i più attivi detrattori pubblici di Falcone, si registrarono Leoluca Orlando Cascio e Flores d’Arcais, proprio loro, gli stessi paladini della legalità di oggi.

Di fronte a tutto ciò, ogni volta la sinistra, anche quella garantista, è sempre scappata, schiacciata dalla propria ignavia, sottraendosi così al diritto-dovere di affrontare il tema della riforma della giustizia e collocandosi nella sua storica e, per certi versi, comoda, subalternità culturale ad una certa magistratura. Ecco perché, a questo punto, diventa necessaria una mobilitazione che vada oltre il mero esercizio degli appelli scritti. Voi cari amici e compagni, avete avuto il merito di rompere schemi e tabù consolidati a sinistra, l’avete fatto con coraggio, ora vi chiediamo un altro sforzo, quello cioè di mettere in campo una iniziativa di mobilitazione, magari a Roma, dando vita a veri e propri “comitati di sostegno della riforma” in tutta Italia.

Sono convinto, infatti, che bisogna dare la percezione plastica alla sinistra e al Paese che non c’è solo la sinistra del popolo viola, dei Palasharp, degli indignati sempre e comunque, dei forcaioli, dei manettari, come appare mediaticamente. Ma c’è anche una sinistra moderata, riformista, democratica e liberale; attenta alle garanzie, ai diritti della persona, al rispetto della dignità. Allora mi chiedo e vi chiedo: “se non ora quando?” Quando cioè iniziare una battaglia politica e culturale per cambiare veramente la sinistra in senso riformista e liberarla dalla sedimentazione forcaiola che, a partire dagli inizi dagli anni ‘90, ha condizionato la sua azione e minato la sua credibilità?

Pasquale Motta

APPELLO DEI GIORNALISTI DEL SITO "THE FRONTPAGE"
Compagne e compagni, sulla riforma della giustizia non tiratevi indietro!



Le preoccupazioni che vi abbiamo illustrato nell’appello garantista si sono purtroppo drammaticamente confermate. Siamo in presenza di una ulteriore degenerazione del quadro politico, in chiave illiberale, conservatrice, giustizialista e mediatica: perciò se si discuterà davvero di giustizia, non tiratevi indietro.

La riforma della giustizia è urgentissima. E deve essere una riforma garantista perché il nostro sta diventando il Paese meno garantista d’Occidente. E il potere della magistratura sta diventando squilibrato rispetto agli altri poteri.

Che cosa vuol dire garantista? Tre cose: primo, aumento delle procedure di garanzia per gli imputati (per esempio separazione delle carriere, responsabilità civile dei giudici, riduzione delle intercettazioni e della loro diffusione); secondo, riduzione delle pene; terzo, depenalizzazione dei reati minori. La scelta garantista può essere solo antirepressiva, e su questo la sinistra deve essere protagonista di una grande battaglia, care compagne e cari compagni, perché sono temi nostri e dobbiamo imporli a una destra che non li ama. Questo è il momento buono.

Non diciamo che, con Berlusconi al governo, non se ne deve parlare. Perché così si perde una grande occasione e si legittima l’uso personale e partigiano del tema della giustizia. Invece sono milioni i cittadini e le imprese che hanno a che fare con i tribunali. Se si sostiene a priori che con una parte non si deve parlare, si avvallano i teoremi contrapposti: tutti i magistrati sono di parte, tutti i politici (della parte avversa) sono corrotti.

Non diciamo che “non è il momento perché la magistratura è in prima fila nella lotta alla corruzione”. La magistratura non è una forza di combattimento. Non deve esserlo. I magistrati sono diversi tra loro, nei comportamenti, nell’esercizio della professione e nei loro interessi materiali. Le loro opinioni vanno certo ascoltate, come quelle di tutti i gruppi professionali o sociali. I loro rappresentanti, però, non possono pretendere di piegare l’interesse generale ai loro fini. Non possono ignorare i problemi dei cittadini sottoposti ad una giustizia lenta, costosa, inconcludente e condizionata da logiche mediatiche. Non può più accadere che un magistrato celandosi dietro l’obbligatorietà dell’azione penale scelga a chi, come e con quanto impegno dedicarsi, e come coinvolgere i media, secondo logiche personali e irresponsabili. Lo diciamo prima di tutto a difesa della magistratura, della sua insostituibile funzione, della sua efficacia e della sua autorevolezza.

Carriere limpide e non intercambiabili tra chi formula l’accusa e chi giudica e per questi dev’essere super partes ed equidistante tra accusa e difesa; forme di rappresentanza, di governo e di responsabilità civile eguali e compatibili con quelle di tutti i cittadini e finalmente estranee ad ogni logica di casta; durata dei processi; certezza e correttezza nei procedimenti di indagine, compresa la riservatezza e la non strumentalizzazione dei materiali raccolti; l’uso appropriato e certo delle intercettazioni; un ricorso davvero limitato alle necessità reali dei provvedimenti di restrizione della libertà prima dei processi; la corrispondenza dei risultati all’impegno e al talento dei giudici: sono tutti argomenti che la sinistra e le forze democratiche hanno messo più volte all’ordine del giorno, in singole proposte di legge e avviando un dialogo con le altre forze politiche.

Del resto le proposte messe sul piatto dall’attuale titolare della Giustizia, il ministro Alfano, non sono così lontane dalla bozza Boato approvata da tutti (tranne Rifondazione) ai tempi della Bicamerale. Ma da allora non si è fatto nulla. La giustizia dovrebbe essere la chiave per l’affidabilità e il funzionamento corretto del Paese. Invece è terreno di contrapposizioni esclusive e aprioristiche che paralizzano tutto e tutti. In questo modo la politica è consegnata all’esito dei processi, a loro volta anticipati nel massacro mediatico, mentre il destino di intere aree del Paese è affidato alle misure militari contro il sistema criminale. Tra le ragioni dei mancati investimenti nel nostro Paese non c’è la criminalità, ma il cattivo funzionamento della giustizia. Lo scontro politico si è ridotto ad una faida tra le armate del crimine e quelle della giustizia, tra i crociati dell’etica e gli anticristi della corruzione e della prostituzione diffusa.

L’assenza di una seria riforma della giustizia è una responsabilità di lunga data, reiterata dai governi di centrodestra nonostante le ricorrenti petizioni di principio. E’ però una necessità sociale ed istituzionale, una condizione per ripristinare il terreno della politica vera. Facciamola nostra. Non lasciamo alibi a nessuno, non consentiamo che l’occasione si disperda. Non blocchiamo il confronto, e lavoriamo semmai perché si discuta di contenuti, finalità e indirizzi dei provvedimenti chiamando il Parlamento a far bene e al più presto.


Massimo Micucci, Fabrizio Rondolino, Piero Sansonetti, Claudio Velardi, Enza Bruno Bossio.

mercoledì, marzo 09, 2011

GIUSTIZIA: LA CLAVA DEL CAVALIERE E L’I-PAD DI ANGELINO

Con la riapertura dei processi Mills e Mediatrade, e con l’incombere della prima udienza del dibattimento relativo all’ormai famigerato Ruby-gate, la clava del Cavaliere minaccia di nuovo l’integrità del sistema giudiziario: nell’i-pad di Angelino Alfano è infatti contenuto il file con le linee guida della “riforma epocale” della Giustizia promessa dal Governo, ultimo atto di una guerra tra poteri dello Stato che sembra ben lontana dal trovare il suo epilogo.

Malgrado il naturale riserbo che tuttora avvolge i dati custoditi nell’i-pad di Angelino, i punti principali della “grande, grande, grande” riforma sono stati ampiamente anticipati dai principali organi di stampa: stravolgimento della disciplina di cui agli artt. 101 – 113 della Costituzione, superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, affrancazione della polizia giudiziaria dal controllo del PM, separazione delle carriere di giudici e magistrati inquirenti, smembramento e duplicazione del CSM, creazione di un’Alta Corte – composta in prevalenza da giudici di nomina politica – a cui spetta il compito di “sanzionare civilmente” (cioè, di colpire nel portafogli) i “magistrati che sbagliano”.

Esultano i berluscones della prim’ora, eccitati dalla prospettiva di poter impartire una lezione di sano autoritarismo politico in confronto di quei magistrati da sempre percepiti come “un manipolo di disturbati mentali, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”; esultano i fiduciari delle varie cricche e cricchette sparse per l’Italia, messi di punto in bianco dinanzi alla rosea prospettiva di una riforma che riduce la funzione del PM a quella di mero esecutore delle determinazioni assunte da Parlamento e Governo; storcono il naso i tanti utenti del servizio giustizia, i quali, costretti a confrontarsi quotidianamente con le ataviche anomalie di una macchina che gira a vuoto, si chiedono se la ricetta custodita nell’i-pad di Angelino potrà effettivamente contribuire a risolvere i tanti problemi di un sistema prossimo al collasso.

Una volta messo a tacere il coro a bocca chiusa degli oplites filogovernativi che ogni giorno inonda l’etere e la rete, l’opera di ingegneria giuridica del ministro venuto da Agrigento rischia di crollare sotto i colpi di un semplice interrogativo: l’attribuzione alla polizia (e dunque all’Esecutivo) del monopolio assoluto delle indagini, l’individuazione da parte del Parlamento dei reati da perseguire con priorità, la duplicazione del CSM e la creazione dell’Alta Corte con funzioni disciplinari potranno assicurare processi più rapidi, pene più certe, giudizi più equilibrati, un più razionale sfruttamento delle poche risorse di cui il sistema dispone? La risposta a siffatto quesito appare scontata agli occhi di qualunque commentatore imparziale, il quale non fatica a scorgere l’effettiva finalità che ispira la riforma in esame. Stretto nella morsa di una serie di scadenze processuali dall’esito quantomai incerto, ferito a morte da una molteplicità di scandali che ne hanno ridotto grandemente consenso e credibilità, il Cavaliere usa lo spauracchio della grande riforma per condizionare l’operato delle odiate Toghe, per annacquare le verità processuali nel chiacchiericcio del dibattito politico, per spaccare ancora una volta il Paese nell’ennesima guerra santa sulla sua persona.

Ma se l’i-pad di Angelino appare dunque come la clava con cui Berlusconi minaccia di disarticolare le c.d. “toghe militanti”, l’intera operazione elaborata dal Presidente del Consiglio rischia di saltare a causa di una semplice variabile: dinanzi alla prospettiva di una riforma che si limita a politicizzare la giustizia, a terrorizzare i magistrati, a creare un sistema di tutele inflessibile con i deboli e pemissivo nei confronti della c.d. criminalità borghese, è ipotizzabile una veemente reazione non solo da parte delle forze di opposizione presenti in Parlamento e degli appartenenti all’ordine giudiziario, ma anche e soprattutto da parte di una società civile sempre meno disponibile ad assecondare i desiderata del Princeps. Ecco allora che proprio il passaggio referendario (momento conclusivo del processo di riforma della Carta Costituzionale) potrebbe costituire la pietra tombale che seppellisce le ambizioni riformatrici dei giureconsulti riuniti sotto la guida di Ghedini e Alfano, il temuto bug in grado di compromettere irreversibilmente il corretto funzionamento dell’i-pad di Angelino.

Carlo Dore jr.