lunedì, settembre 26, 2011

“SILVIO MACBETH” E LEPORELLO: TRAGEDIA E OPERA BUFFA.


In una fresca serata dell’estate del 2009, Silvio – Macbeth dispensava sorrisi e battute da camerata ai giornalisti che gremivano la sala stampa dell’arsenale de La Maddalena, incurante dell’imbarazzato sgomento con cui il povero Josè Luis Zapatero assisteva all’interminabile soliloquio dell’imprevedibile collega italiano.

La reggia del Dunsinane berlusconiano risplendeva ancora della favola dei miracoli dispensati tra i rifiuti di Napoli e le macerie de L’Aquila, e la scelta del princeps di trasferire il G8 dal nord della Sardegna al capoluogo abruzzese appariva come una manifestazione di efficientismo decisionista talmente eclatante da tenere lontane le tenebre del bosco di Birnam, alimentate dalle dichiarazioni di Veronica Lario, dai sorrisi flautati di Noemi Letizia, dall’apparizione della D’Addario sul lettone di Putin. Bertolaso era ancora l’alfiere della politica del fare, Tremonti lo sciamano che aveva saputo aggirare lo spettro della crisi globale grazie alla formula magica di provvedimenti come la Robin Tax e la social card: Silvio – Macbeth poteva godersi la luce della sala del trono, le streghe potevano aspettare in anticamera insieme ai PM neutralizzati dal Lodo Alfano.

“E Tarantini? Chi è Tarantini”, osava chiedere al premier uno sfrontato giornalista di “El Pais”. “Questo Tarantino o Tarantini è stato qualche volta ospite delle mie cene eleganti. Di fatto, non lo conosco”. E via, con la vecchia fola del tombeur de femme che non pagherebbe mai una donna per non rinunciare (ipse dixit) al “piacere della conquista”. Mentre Zapatero cercava una caravella che facesse vela per la Spagna, liberandolo da quel tourbillon di vanità non celate e gags degne del Bagaglino, il cronista del Pais non riusciva a reprimere un sorriso al vetriolo: a lui la storia delle “cene eleganti” proprio non era andata giù, di quel Leporello barese pronto a squadernare un vasto catalogo di bellezze disponibili ad allietare il riposo del potente Don Giovanni si sarebbe sentito parlare ancora. Proprio come Macbeth: domani, domani e domani.

Due anni dopo, Silvio – Macbeth è chino sugli scranni di Montecitorio, a contare i voti che servono per strappare l’ennesimo luogotenente della sua truppa all’inferno delle manette: le streghe si sono stufate di fare anticamera, i rami del bosco di Birnam avvincono la reggia di Dunsinane in una sorta di abbraccio mortale, disvelando giorno dopo giorno la radicata rete di escort, yes-man, faccendieri, cortigiani e cortigiane che per anni ha alimentato il mito del “ghe pensi mì”. Nel miracolo non crede più nessuno, la tragedia italiana prende forma sulle pagine dei quotidiani internazionali: Bertolaso è sotto processo insieme agli altri contitolari del “sistema gelatinoso” della protezione civile, accusato di una serie di fatti di corruzione consumati tra la casa di via Giulia, i massaggi del Salaria Sport Village e le risate che i vertici della “cricca degli appalti” opponevano alla disperazione di quanti vedevano la propria vita sbriciolarsi sotto l’incubo della terra che tremava. Tremonti balla tra i numeri di mille manovre come e più del suo imitatore Guzzanti, mentre industriali, sindacati, opposizioni e istituzioni internazionali gridano all’unisono il proprio sconcerto dinanzi a scelte di politica economica poco eque e poco logiche.

E Leporello “Tarantino o Tarantini”? E’ in carcere, sommerso da una montagna di intercettazioni che confermano la continuità dei suoi rapporti col Sovrano, dal quale esigeva danaro e favori per riempire di bellezze le varie Dunsinane sparse per la Brianza. Appalti, strette di mano, lodi, immunità, notti brave, istituzioni ridotte a mero strumento di esercizio di un potere senza controllo: pallida caricatura dell’eroe shakespeariano, Silvio – Macbeth tenta l’ultima difesa, facendo apparire sé stesso come un benefattore dal portafogli sempre aperto, e Leporello “Tarantino o Tarantini” come un padre di famiglia disperato e prossimo all’insano gesto, ridotto sul lastrico dalle trame del solito manipolo di giudici comunisti.

“Faccio il premier a tempo perso”, la “patonza deve continuare a girare”: è troppo, le tristi atmosfere della Scozia non meritano di essere accostate ai contorni trash di questa commedia all’Italiana. Le streghe si allontanano sdegnate, si ritirano anche gli alberi del bosco di Birnam: la tragedia si è definitivamente trasformata in un’opera buffa. Nel salone di una delle sue tante Dunsinane, Silvio-Macbeth è rimasto da solo, disperatamente abbarbicato a quel che resta del trono. Medita sulla riforma della giustizia, tuona contro l’uso barbaro delle intercettazioni, chiama a raccolta le sue truppe per la campagna del 2013: gli risponde solo l’eco della risata del giornalista del Pais, nel ricordo di quella conferenza a La Maddalena. Quel giornalista aveva capito tutto: che il miracolo non esisteva, che la fine del regno era prossima, che Berlusconi e il suo giovane organizzatore di “cene eleganti” erano solo due aspetti di un’unica, deprimente realtà. Silvio - Macbeth e Leporello “Tarantino o Tarantini”: tragedia e opera buffa.

Carlo Dore jr.

venerdì, settembre 16, 2011



TRA LUCI ED OMBRE, A PESARO NASCE UN LEADER?

Pesaro accoglie Pierluigi Bersani in una piazza inondata di luce e di bandiere, con i manifestanti che si dividono i pochi spazi all’ombra del palco e del grande palazzo con l’orologio. Il Segretario sorride e regala una di quelle battute che avrebbero fatto felice il suo imitatore Crozza: “O Ragazzi, siam mica qua ad abbronzarci al comizio?”. Il popolo democratico ricambia il sorriso e batte le mani: le rottamazioni di Renzi sono lontane, così come le narrazioni di Vendola e gli “I care” di Veltroni. Bersani parla una lingua diversa: non è un rottamatore né un narratore, è un dirigente della vecchia scuola chiamato ad elaborare un’alternativa di governo.

Alcuni commentatori assiepati sotto il palco affilano la penna nell’inchiostro della polemica: malgrado la luce di Pesaro, lunghe ombre oscurano la leadership dell’ex ministro del governo Prodi. Il caso-Penati ha lacerato la base come ai tempi dell’affaire Unipol, la minoranza interna si prepara all’ennesimo redde rationem, mentre i sostenitori della politica new age mugugnano inferociti: Bersani è debole, Bersani è logoro, Bersani è l’apparato che non muore mai. Cambiamento, rinnovamento, “partito leggero” tra facebook e gli I-pad.

Bersani sorride, e parla: parla di un’Italia spinta sull’orlo del precipizio di una crisi senza ritorno dalla deriva egocratica di un premier asserragliato nella stanza del potere, oppresso dal terrore di affogare nell’ingestibile circuito di interessi privati, starlette, faccendieri, veline e calciatori con cui per anni ha alimentato la logica del “ghe pensi mì”; parla di un sistema politico impegnato giorno e notte ad elaborare soluzioni per le personali pendenze del Princeps, e dunque non in grado di avviare quelle riforme strutturali di cui il Paese avverte disperato bisogno. Non è più tempo di dialoghi e di mediazioni, la voce del Segretario si unisce al grido della Piazza: “Dimissioni! Dimissioni!”

Bersani parla: parla del partito che ha in mente, fortemente radicato nella galassia delle forze progressiste europee; parla di un partito strutturato e presente sul territorio, in grado di assolvere la sua tradizionale funzione di catena di collegamento tra società ed istituzioni; parla di un partito collocato al centro di una vasta alleanza riformatrice, di un nuovo Ulivo capace di traghettare l’Italia oltre le secche del populismo berlusconiano; parla di un partito della Costituzione, di un partito della Resistenza, di un partito del 25 aprile. La riforma della politica è al centro del progetto: la cultura della diversità non costituisce un tratto cromosomico, ma rappresenta una regola di condotta che deve ispirare l’azione di una forza politica erede della grande tradizione della sinistra italiana.

Buona politica, diversità, etica.

Già, l’etica. Bersani si ferma, prende fiato, guarda la piazza ed il grande orologio: non può nascondersi dietro una battuta alla Crozza, è consapevole di quanto il fantasma di Penati, l’eco del sistema-Sesto e delle vicende di Serravalle stiano mettendo in pericolo la sua leadership. Le parole del Segretario arrivano, altro spiraglio di luce che allontana le ombre: non pretende sconti per un suo dirigente sottoposto a procedimento penale, chiede alla magistratura di accertare al più presto la verità dei fatti, si aspetta un passo indietro dagli esponenti democratici coinvolti in inchieste politicamente sensibili. Ma deve difendere il buon nome del Partito dalla logica del calderone, dal teorema di quanti sostengono “tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera”, nella consapevolezza del fatto che se Berlusconi avesse fatto un passo indietro ogni qualvolta è stato coinvolto in un’indagine avrebbe rapidamente coperto la distanza tra Roma ed Arcore.

E mentre gli applausi si disperdono nella luce che cala, le parole di Bersani richiamano il ricordo di Mino Martinazzoli, autorevole esponente di quel cattolicesimo democratico lontano anni-luce dalle logiche del CAF; di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica caduto sotto i colpi della camorra; e soprattutto di quello splendido, indimenticato ed indimenticabile Enrico Berlinguer, e del suo progetto di ricondurre i partiti alla loro naturale collocazione di strumento preposto “alla formazione della volontà politica della nazione, interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni”.

Il discorso del Segretario si avvia al termine, i militanti arrotolano le bandiere ed abbandonano la piazza, ormai stabilmente occupata dalle ombre della sera che incombe. Eppure, l’eco degli applausi continua a rimbombare tra i palazzi di Pesaro, spingendo sempre più lontano le rottamazioni di Renzi e le narrazioni di Vendola. Ed anche i più strenui sostenitori della politica new age iniziano ad avvertire un dubbio, da condividere tra facebook e gli I-pad: forse, in questo strano gioco di ombre e luci, tra le battute alla Crozza e le stoccate a Berlusconi, tra la ricerca dell’alternativa ed il ricordo di Berlinguer, vale la pena di credere che il centro-sinistra abbia davvero trovato il suo leader.

Carlo Dore jr.

martedì, settembre 13, 2011

IL FUNAMBOLO TRISTE

Nella cornice dorata di un importante vertice parigino, il Funambolo triste propone alla stampa internazionale la consueta maschera fatta di sorrisi da venditore e ruggiti da caimano, immancabile substrato scenico del numero volto ad identificare nei giornali “di sinistra” e nell’opposizione “criminale ed anti-italiana” il vulnus che paralizza un Paese senza più fiato.

I cronisti di tutta Europa prendono nota, e si scambiano sguardi sempre più perplessi: l’opinione pubblica del Vecchio Continente è infatti concorde nel descrivere l’Italia come una zattera che si trova al centro della tempesta del secolo, affidata ad un nocchiero senza bussola ed ebbro di potere e privilegi: una zattera destinata ad affondare nel gorgo di un debito pubblico incontrollabile, arenata nelle secche di una crescita inesistente, saccheggiata senza ritegno da una variegata compagine di cricche di varia composizione ed estrazione, che fino a ieri banchettavano impunemente alla tavola del Sovrano. Il timone gira a vuoto, il naufragio è prossimo: che fa il nocchiero?

Ai dubbi di Bruxelles, alle istanze della BCE, il premier contrappone il gioco del funambolo triste: tenta di annacquare le indegne parole che emergono dai brogliacci delle sue conversazioni notturne nella minaccia di una nuova riforma delle intercettazioni; tratta le tasse come i fazzoletti colorati che scompaiono nel cappello del prestigiatore; esalta per l’ennesima volta la sua fama di protagonista indiscusso delle “cene eleganti” consumate tra la magione di Arcore e le dependance dell’Olgettina.

Ma le luci si spengono, il numero volge al termine, il sorriso del funambolo si spezza in un’impietosa rete di rughe, la sua mano è stanca e malferma. Cade il contributo di solidarietà, non si toccano i capitali scudati, la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione delle province viene consegnata alle Calende Greche di un’improbabile riforma costituzionale. Niente determinazioni da “socialismo reale”, niente “tasse alla Visco”: l’approvazione delle misure “lacrime e sangue” spetta all’opposizione criminale. Le onde continuano, Tremonti annaspa, la Lega tuona dal pratone di Pontida: chi deve gestire la politica economica di questo povero Paese? Chi deve guidare l’Italia fuori dalla bufera?

E’ colpa dell’opposizione anti-italiana, del sindacato irresponsabile, della stampa catastrofista. Dal palco della Festa di Pesaro, Bersani ascolta e scuote la testa: la dimensione del funambolo triste proprio non gli appartiene. Alle ombre che si allungano su pezzi importanti del suo partito risponde con serena fermezza: non ci sono privilegi, si accerti la verità, e chi ha sbagliato paghi; alla crisi che incombe, oppone misure ispirate a buon senso ed equità: tassazione dei capitali rientrati in Italia grazie allo scudo fiscale, tassazione dei grandi patrimoni immobiliari, tracciabilità dei pagamenti, concreta razionalizzazione dei costi della politica; alle critiche di alcuni autorevoli commentatori, replica con un semplice: ragioniamo insieme. Rigore, onestà, concretezza dialogo: sono i pilastri sui cui è costruita l’alternativa democratica, le coordinate della rotta per portare la zattera in acque sicure. Rigore, onestà, concretezza, dialogo. Parte implacabile la contraerea del centro-destra, affidata alle note di Gasparri e Cicchitto: morte alla demagogia post-comunista, l’opposizione e la CGIL lavorano solo per la crisi di governo.

Sulla conferenza stampa cala il sipario: i cronisti dei principali quotidiani europei spengono i computer, chiudono i taccuini e guadagnano rapidamente l’uscita della sala: il numero del funambolo triste ha un brutto sapore di già visto. Cicchitto e Gasparri, il pratone di Pontida, le tasse che compaiono e scompaiono, gli attacchi all’opposizione: la loro opinione iniziale appare sempre più corretta, l’Italia naufraga sotto la guida del nocchiero ebbro e disorientato, affonda sotto le invettive del funambolo triste. Le misure lacrime e sangue spetteranno alla sinistra irresponsabile: per ritrovare la rotta dopo il momento buio, per riportare la zattera fuori dalla bufera.

Carlo Dore jr.