mercoledì, luglio 25, 2012

L'UOMO CHE NON PARLA DI CAIMANI

“ Davvero è solo Berlusconi il responsabile dello sfascio morale degli Italiani? Della TV diseducativa? Delle difficoltà economiche degli italiani? Della crisi e del debito pubblico? Della mancata attenzione alla cultura e alla pubblica istruzione? Certo, stiamo parlando dell’uomo che ha governato a lungo negli ultimi 20 anni, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ma noi non abbiamo nulla da rimproverarci? Troppo facile è pensare di individuare un solo colpevole per mettere a tacere le responsabilità di una generazione intera di Italiani che però ha perso la sfida del futuro: mentre il berlusconismo falliva la prova del governo, l’antiberlusconismo falliva la prova nel modello di opposizione. Gli antiberlusconiani vogliono sentirmi parlare di caimani e di pericoli per la democrazia. Non lo farò mai. Non sarò mai anti-qualcosa o qualcuno, e se questo vorrà dire non appartenere al vostro club, vuol dire che non sarò mai uno di voi”.
Così scrive Matteo Renzi, in una lunga replica all’articolo con cui Sandra Bonsanti (presidente nazionale di Libertà e Giustizia) gli chiedeva di assumere una posizione definitiva sull’ennesima resurrezione di Berlusconi, liberatosi dal sudario del “padre nobile” del centro-destra in vista delle elezioni del 2013. Berlusconi prepara il grande ritorno, accompagnato dal sempre più imbiancato circo di cortigiani e cortigiane. Ritorna per strappare al Paese l’ennesima ipoteca sulla stabilità delle sue imprese, l’ennesimo salvacondotto per i suoi guai giudiziari; ritorna, in barba al grido d’allarme dei mercati ed alle composte risate dei leader di mezza Europa.

Berlsconi ritorna, ma Matteo il rottamatore non parla di Caimani, né di allarme per la democrazia. Basta con l’anti-berlusconismo, basta con i club di partigiani da salotto: è la new age del rinnovamento post-ideologico, il refrain che accompagna la lunga marcia tra Arcore e la Leopolda. Eppure, l’Uomo che non parla di Caimani deve fare i conti con un interrogativo che la sua ampia replica ha tentato invano di eludere: può considerarsi Berlusconi l’unico responsabile dello sfascio morale degli Italiani? E il centro-sinistra non ha nulla da rimproverarsi?

Svaniscono le musiche di Jovanotti e le locations di Giorgio Gori, svanisce la Leopolda e la platea degli apostoli della rottamazione. Come in un film in bianco e nero, ritornano alla mente le immagini che hanno scandito l’evolversi dell’ultimo ventennio della storia repubblicana: e allora, ecco il Cavaliere a braccetto con Gheddafi e Ben Alì; ecco i giorni de “la crisi esiste solo sui giornali di sinistra” e dell’esaltazione della finanza creativa di Tremonti. Riappaiono la D’Addario e il lettone di Putin, Tarantini e Lavatola, lo sgomento di Zapatero e il risolino della Merkel; riappare la triste immagine di un Parlamento di zelanti yes-man umiliato dalla vecchia fola della nipote di Mubarak.


Il film finisce nel delirio di un Paese in fiamme, proprio come “Il Caimano” di Nanni Moretti. Il film finisce, ma quel dannato interrogativo rimane drammaticamente in sospeso: è Berlusconi l’unico responsabile dello sfascio morale degli Italiani? Certo che lo è. E’ responsabile per avere legittimato la cultura della menzogna, alternando bugie ad altre bugie; è responsabile per aver chiuso gli occhi dinanzi all’incedere della crisi imminente; è responsabile per avere ridotto le istituzioni a mera dependance del suo impero personale, di fatto degradando l’Italia alla condizione di democrazia minore.

In questo generale clima da “si salvi chi può”, la colpa del centro-sinistra non è identificabile nel presunto arroccamento (più volte rimarcato dall’Uomo che non parla di Caimani) sulle posizioni dell’anti-berlusconismo ad ogni costo, ma semmai nella reiterata tendenza a considerare il berlusconismo alla stregua di una fisiologia variabile della democrazia moderna, a scambiare cioè l’icona di un regime mascherato per la rispettabile espressione del moderatismo europeo. Una tendenza perpetratasi tra patti della crostata e pranzi a Villa San Martino; una tendenza che l’Uomo non parla di Caimani tuttora contribuisce ad alimentare.


Ma l’Uomo che non parla di Caimani tira dritto per la sua strada, e non si iscrive al club degli anti-berlusconiani ad ogni costo, responsabili, a suo dire, dello stesso fallimento della sfida del futuro a cui gli apostoli della rottamazione dovrebbero a breve porre rimedio. Non si iscrive a questo club, pervaso da discussioni oziose su qualità della democrazia, lotta al conflitto di interessi, libertà di informazione, concezione etica della politica e attualità della questione morale: argomenti datati e con poco appeal per i sostenitori della new age post ideologica. Argomenti che lasciano purtroppo indifferente l’Uomo che non parla di Caimani.

Carlo Dore jr.

martedì, luglio 17, 2012

GLI UFFICIALI BALLANO SUL TITANIC: SI SALVI CHI PUO’.


Dall’alto del podio che domina imponente e impotente la platea dell’assemblea nazionale del PD, Bersani osserva il suo partito frantumarsi nell’ennesima corrida di divisioni interne e veti incrociati, ordini del giorno e tessere strappate, firme, controfirme, primarie e minacce di dimissioni di massa. Osserva quel partito che non vuole farsi dare una linea navigare senza rotta come il Titanic fra gli iceberg, mentre le proteste dell’assemblea, le fughe in avanti di Ichino e Letta e il ciuffo ribelle di Renzi ne accompagnano costantemente la deriva verso il naufragio dell’ennesima sconfitta annunciata. Intanto, da dietro gli iceberg, incombono i “vaffa” di Grillo e il ritorno di Berlusconi: ma gli ufficiali continuano a ballare sul Titanic, mentre Bersani si affanna dietro al timone. Gli ufficiali ballano sul Titanic: si salvi chi può.

Eppure, il gelido bisturi dei tecnici di governo mette ogni giorno a nudo le eterne ferite del Paese agonizzante: lavoratori senza tutele e senza garanzie in marcia verso un futuro sempre più simile ad una notte orbata di stelle; sacche di povertà sempre più ampie; sfiducia crescente verso una politica ormai percepita come una sorta di odioso ectoplasma che galleggia tra privilegi e corruzione. Il Paese agonizzante è saturo di risse sul niente; il Paese agonizzante chiede soluzioni per oggi e per domani: chiede un’agenda progressista, da seguire per voltare pagina.

La road map sembra già tracciata sulla base di tre direttrici fondamentali: il lavoro – da intendersi nella sua costituzionale accezione di diritto fondamentale, e non come privilegio da esaminare in algidi seminari scientifici -; la questione morale – prospettata come un’idea di politica protesa al perseguimento del bene comune, e non come mera strategia conservativa di posti di potere e rendite di posizione; la lotta alla corruzione – presupposto indispensabile per procedere all’effettivo risanamento dei conti pubblici-. Tre direttrici fondamentali per elaborare un programma da cui procedere alla creazione di una coalizione riformista in grado di proporsi quale credibile alternativa per il governo del Paese, sotto la naturale guida del segretario del partito di maggioranza in seno alla coalizione stessa.

La road map sembra tracciata, ma il Titanic non voleva rotta e il PD non vuole linea. La leadership del Segretario viene costantemente indebolita dai continui riferimenti alle primarie quale unico strumento in grado di garantire il tanto invocato “rinnovamento generazionale” – formula perfetta per rendere compatibili con gli schemi del politically correct le ambizioni personali di alcuni amministratori in carriera-, mentre le razionali proposte su lavoro e crescita di Orfini e Fassina vengono liquidate come pericolosi rigurgiti di “novecentismo gauchista”: Ichino flirta con Monti e con Marchionne; Letta tende la mano a Casini e allo Zio Gianni; la Concia e la Bindi si avvitano nell’ennesima discussione sulle unioni di fatto; Renzi mostra i muscoli, e si prepara ad un altro mezzogiorno di fuoco sulla via tra Arcore e la Leopolda.

E così, mentre gli ufficiali ballano sul Titanic, Bersani continua a lottare con il timone di un partito alla deriva, tentando di tenere la linea di galleggiamento: gli iceberg si avvicinano, accompagnati dai “vaffa” di Grillo e dal ghigno impunito di un Berlusconi di nuovo potenzialmente trionfante. Gli ufficiali ballano sul Titanic, immemori della road map, delle direttrici fondamentali per voltare pagina e della minaccia della sconfitta imminente. Gli ufficiali ballano sul Titanic, nella deriva che precede il naufragio: stavolta più che mai, si salvi chi può.

Carlo Dore jr.

lunedì, luglio 02, 2012

TANGENTOPOLI VENT'ANNI DOPO: DALLA "DAZIONE AMBIENTALE" ALLA "DAZIONE ISTITUZIONALE"

Quando si cerca di individuare nei meandri della Storia il momento iniziale della stagione di Mani Pulite, ci si ritrova sempre avvinti nel gelo e nella nebbia della Milano del 1992: si pensa all’arresto di Mario Chiesa, e al suo goffo tentativo di far sparire i soldi delle mazzette nell’impianto fognario del Pio Albergo Trivulzio. Secondo la communis opinio, infatti, la Prima Repubblica è finita così: inghiottita dal gelo e dalla nebbia, avvolta dallo squallido coriandolio di banconote svolazzanti, faccendieri senza scrupoli, politici corrotti, magistrati e poliziotti costretti a navigare a vista in un oceano di malcostume.

Personalmente, ritengo invece che la parabola della discendente della Prima Repubblica fosse cominciata quasi dieci anni prima, in un infuocato luglio romano, al piano nobile di Botteghe Oscure. Il crollo della Prima Repubblica ha inizio con la famosa intervista rilasciata da Berlinguer ad Eugenio Scalfari, nella quale il segretario del PCI già rilevava che “i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze ed i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”.

Berlinguer vedeva lontano, e già da allora avvertiva la necessità di elaborare un’alternativa democratica ad un sistema prossimo all’implosione; Berlinguer vedeva lontano, e per primo aveva intuito l’esistenza di un circuito di corruzione contraddistinto da “serialità” e “diffusività”: tutti pagavano, pagavano sempre. La tangente era diventata regola, la trasparenza e la regolarità inconcepibili anomalie: si tratta della logica della “dazione ambientale” di cui Antonio Di Pietro e Piercamillo D’Avigo hanno più volte illustrato il funzionamento, della logica perversa che alimentava la stagione della “Milano da bere”.

Dopo l’arresto del Mariuolo della Bagina, le indagini del Pool di Borrelli procedettero secondo una sorta di dirompente effetto-domino: le “isolate mele marce” non persero tempo a descrivere agli inquirenti “il resto del cestino”; gli imprenditori corruttori o concussi facevano il nome dei politici corrottti e concussi, che a loro volta facevano i nomi di altri imprenditori e di altri politici; i magistrati seguivano, sempre più sgomenti, la traccia di quell’infinito fiume di denaro che idealmente collegava i Navigli al Tevere.

La difesa dei cacicchi del pentapartito, nei tribunali come nelle aule parlamentari, risuonò debole e spuntata: le tangenti servivano solo per sostenere i costi della politica, il finanziamento illecito era prassi generalizzata, nessuna ruberia e nessun arricchimento personale, tutti colpevoli e tutti innocenti. Coperta troppo corta, per celare i puff pieni di diamanti, le ville in Costa Azzurra o i quasi cinquanta miliardi di vecchie lire custoditi nella tana di Ghino di Tacco: i giornalisti scrivevano e riferivano , la gente leggeva e si indignava, le piazze ribollivano di rabbia e lanci di monetine. Craxi fuggiasco in Tunisia (inseguito non dalle spie del KGB ma da una condanna definitiva a sei anni per corruzione), Forlani pietrificato sul banco dei testimoni, Di Pietro nuovo eroe popolare: la questione morale esisteva eccome, Berlinguer aveva visto lontano. Toccava alla sinistra costruire l’alternativa.

E invece? Invece la rivoluzione si è interrotta: è arrivato Berlusconi con Previti e Dell’Utri, Lavitola e Bisignani, la P3 e la P4; il sistema della Milano da bere, da collaterale allo Stato, ha finito col “farsi” Stato. Si giunge dunque alla cronaca di tutti i giorni: allo sfacciato baratto tra un voto di fiducia e una poltrona da sottosegretario; agli imprenditori che ridono sulle lacrime delle vittime del terremoto, alle vacanze e alle case ricevute “a loro insaputa” da uomini delle istituzioni per grazia di qualche faccendiere beneficatore; alla normalizzazione dei conflitti di interesse; alla distorsione dello strumento legislativo a scopi individuali; alla costante aggressione della magistratura; alla palese utilizzazione del meretricio più greve quale chiave di accesso ai palazzi del potere. Come nel 1992, peggio del 1992: la “dazione ambientale” è ancora più generale e seriale; la “dazione ambientale” è si è evoluta in “dazione istituzionale”.

Eppure, ennesimo paradosso di una politica malata, proprio sul piano della questione morale, della capacità di declinare una concezione “etica” della politica, l’azione del centro-sinistra ha spesso deluso le aspettative di gran parte dell’elettorato: volendo limitare il discorso all’essenziale, ricordo solo la scelta di non regolamentare il conflitto di interessi, la mancata abrogazione delle leggi vergogna, la bozza-Boato sulla riforma della magistratura , la decisa limitazione dell’ambito applicativo del reato di abuso d’ufficio, le candidature sciagurate dei vari Razzi, Scilipoti e Calearo, per finire con i recenti episodi di corruzione che coinvolgono anche importanti esponenti dell’area democratica.

Sono fatti che impongono una riflessione collettiva, un confronto tra partiti e società su crisi della rappresentanza e selezione della classe dirigente. Una riflessione che non può non imprendere da tre grandi interrogativi di fondo: vent’anni dopo Tangentopoli, come è cambiato il Paese sul piano politico, sociale e giuridico? La questione morale può ancora essere utilizzata per rimarcare l’endemica “diversità” delle forze progressiste, o deve costituire il presupposto da cui il centro-sinistra deve ripartire per autoriformarsi? E soprattutto: può il centro-sinistra individuare nella questione morale il punto di partenza per l’elaborazione di quell’alternativa democratica di cui Berlinguer teorizzava l’attuazione?

Già, ancora Berlinguer. Berlinguer che aveva visto lontano, e che per primo aveva compreso che: “la questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corruttori, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia di oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche”.


Carlo Dore jr.