domenica, ottobre 21, 2012

MORTE DI UN CAPO


 “Se alle primarie vince Bersani, sono pronto a non ricandidarmi. Si può fare politica anche fuori dal Parlamento”. Massimo D’Alema affronta quello che dovrebbe essere il passo Estremo del suo lunghissimo cursus honorum con la superba indifferenza di un leader che, nel bene e nel male, ha saputo interpretare un ruolo da protagonista di primo piano nella storia italiana degli ultimi vent’anni. Lo stile gelido e sferzante è lo stesso che incantò Togliatti e Berlinguer: le urla un po’ sguaiate dei fanatici della rottamazione svaniscono sotto il peso di parole scelte con la bilancia di precisione; gli slogan sparati sulle note di Jovanotti vengono tagliati a fette dal bisturi di un lucidissimo ragionamento politico.
            “Se vince Bersani, non mi ricandido”. Esultano i supporter del “nuovo che avanza”, mentre i cronisti della stampa parlamentare affilano penne e tastiere per scrivere l’epitaffio del leader morente: D’Alema rottamato, D’Alema scaricato, D’Alema superato. Sono le parole che scandiscono il primo trionfo della new age firmata Renzi, sono le parole che celebrano la morte di un Capo.
            Già, è stato un Capo, il leader Massimo: un capo discusso e discutibile, ma certamente un Capo. Un Capo in grado di prendere per mano la sinistra tramortita dal primo albore del berlusconismo nascente, di lanciare il progetto dell’Ulivo e di tracciare così la road map della lunga marcia dei progressisti verso il governo del Paese. Da quel momento in poi, la carriera del Massimo è stata un susseguirsi di ombre e luci: la Bicamerale e l’affrettata archiviazione del Governo Prodi; l’addio a Botteghe Oscure e l’insediamento a Palazzo Chigi; l’eterno dualismo con Veltroni e la coraggiosa denuncia delle violenze verificatesi a Genova nella “notte cilena” del 2001; i successi ottenuti alla Farnesina e la poco convinta adesione al PD veltroniano; l’appoggio incondizionato alla segreteria di Bersani e alla strategia volta alla costruzione del “nuovo centro-sinistra”.
            Ombre e luci, nella carriera del Capo: terra di conquista per la ubris di Matteo il Rottamatore, abile a rilanciare ossessivamente il refrain del ricambio generazionale per coprire la mancanza di un progetto degno di tale nome. “Io porrò fine alla carriera parlamentare di D’Alema”; “la generazione di D’Alema ha già dato, ora basta”; “D’Alema è l’icona del fallimento di una classe dirigente, è ora di mandarli a casa”. Il tono infuocato – adatto più a un piccolo caudillo che al possibile candidato premier del centro-sinistra italiano – scalda gli animi di un popolo assetato di rinnovamento: rottamazione, rottamazione, rottamazione.
            Veltroni scappa in Africa, con una valigia carica di bei libri e l’insopportabile fardello dei rimpianti conseguenti alle sistematiche sconfitte riportate lontano dalla luce del Campidoglio. E D’Alema? D’Alema no, D’Alema non cede. D’Alema ha vinto elezioni e stretto la mano a Clinton; D’Alema ha trasformato il PDS nel primo partito del Paese, prima di impantanarsi nelle sabbie mobili di quella maledetta Bicamerale. D’Alema è un Capo, che non accetta di spegnersi in esilio: se cade, cade combattendo. E allora: un rapido saluto allo scranno di Montecitorio, pieno sostegno alla candidatura di Bersani, e un ruolo da padre nobile della sinistra europea in caso di vittoria del segretario alle primarie.
            “Se vince Bersani, non mi ricandido: si può fare politica anche fuori dal Parlamento”. E se vince Renzi? Massimo pesa di nuovo le parole con la bilancia di un sorriso diabolico: “Se vince Renzi, continuo a combattere. Non sono un cane morto”. Tra le risate dei cronisti della stampa parlamentare, ecco allora che un brivido freddo corre lungo la schiena dei fans del Rottamatore: D’Alema è ancora in campo, la giaculatoria del ricambio generazionale non lo ha ancora ucciso. E l’idea, in caso di vittoria del Sindaco che cena con i banchieri e che esalta Marchionne, di abbandonare il PD per dare vita a quel PSE italiano nel quale non ha mai smesso di credere potrebbe rivelarsi ben più di una tentazione. Insomma, forse è presto per gli epitaffi e per la celebrazione del trionfo della new age: forse è presto per usare le parole che in genere fanno da contorno alla morte di un Capo.


Carlo Dore jr..

domenica, ottobre 07, 2012

LA DISSIPAZIONE DELLA BELLEZZA

Relazione introduttiva tenuta in occasion dell'iniziativa pubblica organizzata a Cagliari il 6 ottobre 2012 dal circolo di Libertà e giustizia, con la partecipazione di Roberta De Monticelli
 
 
"La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”. Vorrei partire da questa meravigliosa frase di Albert Camus (utilizzata dalla prof.ssa De Monticelli nel suo recente scambio di “lettere aperte” con il segretario del PD Bersani) per introdurre l’incontro di oggi: “La dissipazione della bellezza: distruzione del “paesaggio storico” e suicidio morale di una Nazione”. La bellezza come “scintilla” che incendia la rivoluzione; la difesa della bellezza come momento di reazione avverso i fenomeni di mala amministrazione ed illegalità diffusa che caratterizzano il crepuscolo della Seconda Repubblica.

Posto infatti che proprio le storture e le inefficienze del sistema amministrativo sono oggi drammaticamente all’ordine del giorno, queste storture ed inefficienze si traducono spesso nella costante erosione di quell’insieme di “beni comuni”, di risorse naturali e culturali che costituiscono il volto e l’identità stessa del nostro Paese. In questa prospettiva, la prof.ssa De Monticelli ha fatto più volte riferimento alla situazione in cui versano la periferia di Assisi e la riva degli Etruschi (ridotta a terra di conquista per la cementificazione selvaggia). Per parte mia, attenendomi alla stretta realtà locale, posso richiamare l’opera di “ripascimento” della spiaggia del Poetto, per anni degradata dalla felice condizione di perla del Tirreno a quella di pietraia bruna e rovente; al caso dei  palazzoni che deturpano la vista della città per chi si accosta ad essa dal porto; alla paradossale vicenda dell’Anfiteatro, prima ingabbiato da un’orribile struttura di legno e ponti mobili, e rimasto a lungo paralizzato nell’attesa di una “riqualificazione” avviata solo negli ultimi mesi; alla recente approvazione della legge sulle “zone umide”, in forza della quale il divieto di costruire nella fascia di trecento metri dalla battigia opera solo con riferimento a laghi e invasi artificiali.

Ma molto, troppo spesso dietro la distruzione del “paesaggio storico” non si celano solo incuria ed incapacità: si celano quei fenomeni di corruzione che riempiono le pagine dei giornali, si celano le tangenti, si cela, nera ed incombente, l’ombra della criminalità organizzata. Ed allora il pensiero vola oltre le tante “cattedrali nel deserto” costruite negli anni’80, vola oltre i costi abnormi di tante opere pubbliche dalla dubbia utilità e dall’impatto ambientale devastante, per soffermarsi sul ricordo di una città che non c’è più: la Palermo degli anni’50, quella delle ville liberty e del teatro Bellini, la Palermo del sindaco Lima e dell’assessore Ciancimino e del progetto di Cosa Nostra di mettere “le mani sulla città”. In una notte, il centro del capoluogo siciliano fu invaso dalle fiamme, triste preludio alla stagione delle licenze facili rilasciate a cinque ingnari “manifabbri” e dei casermoni al posto dei gelsomini. Il “Sacco di Palermo” si completò così: la Mafia prendeva possesso del territorio, la Mafia distruggeva la bellezza con il consenso della politica corrotta e degli imprenditori conniventi.

Cattiva amministrazione e criminalità come cause dell’erosione del “Paesaggio storico”: la mancanza di reazione, l’indifferenza generalizzata verso il fenomeno sono gli indici chiari dello stato di un Paese che (tra le cene di Batman e i diamanti di Belsito, le ricevute di Formigoni e le immagini dell’Odissea alla vaccinara) corre veloce verso il proprio suicidio morale. Ma un Paese che accetta passivamente la distruzione del proprio substrato storico e culturale come può continuare a credere in quella “riscossa civica”, da più parti individuata come il presupposto necessario per costruire un futuro diverso da questo triste presente?

Insomma, riprendendo la frase di Camus, se anche la bellezza non fa le rivoluzioni, senza la bellezza come possiamo sperare di far la rivoluzione?

 
Carlo Dore jr.