venerdì, novembre 30, 2012

PERCHE' BERSANI


“Perché Bersani?” Mi chiedono tanti amici sparsi per la città, o mobilitati lungo le frontiere virtuali dei social network. Perché affidarsi ad un esponente della “vecchia guadia”, dell’apparato, della “nomenklatura” quando si può scegliere la freschezza ridondante e vagamente stucchevole di un candidato “giovane” e “nuovo”, ancorché pericolosamente basculante sul mobile confine che separa il concetto di rinnovamento da quello (assai meno nobile” di nuovismo? Perché ripiegare sulla tradizione, dinanzi all’opportunità di rompere con il passato recente e di aprire una fase nuova, governata da protagonisti accattivanti nel loro disinvolto look da happy hour?

“Perché Bersani?”. La mia risposta suona drammaticamente complessa nella sua paradossale semplicità: per il nostro passato, e per il nostro futuro.

Nel bel mezzo del “post-ideologismo”, di una fase storica nella quale concetti fondamentali come “solidarietà”, “eguaglianza”, “giustizia sociale”, destra e sinistra sfumano pericolosamente dinanzi alle fredde logiche di Sua Maestà il Mercato, Bersani comunica il senso di appartenenza a una storia: la storia che unisce tre generazioni lungo la sottile linea rossa dell’antifascismo e della lotta partigiana, della Costituzione e della democrazia parlamentare, delle grandi battaglie per i diritti dei lavoratori e della lunga marcia verso un socialismo di dimensione europea. La storia della sinistra italiana, la nostra storia: un valore non rottamabile in ragione di una discutibile idea di cambiamento, il presupposto imprescindibile per la costruzione di un futuro diverso da questo triste presente.

Già, il futuro: ai miei occhi, Bersani incarna un’idea di futuro, o, se si preferisce, declina un modello di “cambiamento possibile” in un Paese costretto da un nocchiero incapace ed ebbro a navigare per vent’anni all’inseguimento di uno sciame di favole: la favola del milione dei posti di lavoro, dei ristoranti pieni e del boom nel consumo di cosmetici; la favola dell’efficentismo di Bertolaso, affogata tra le risate degli imprenditori pronti a lucrare sulle lacrime del popolo aquilano; la favola della nipote di Mubarak, ennesimo sfregio arrecato alla dignità di un Parlamento perennemente asservito alla logica del “ghe pensi mì”.

Il tempo del leaderismo plebiscitario volge oggi al termine, spazzato via dal vento di una crisi che non accenna ad allentare la sua morsa sull’Europa: rimane spazio solo per un salutare bagno di realtà, e per quel “cambiamento possibile” di cui Bersani cerca di farsi interprete, liquidando con una battuta ad effetto gli artifizi verbali dei funambolici venditori di sogni. Realtà, realtà, realtà: Bersani non incanta, ragiona; non fa proclami, snocciola dati e propone soluzioni; al carisma dell’uomo solo al comando contrappone la consistenza di un progetto collettivo.

Più tutele per i lavoratori senza certezze; più attenzione alle esigenze di un sindacato troppo spesso abbandonato ad urlare la sua rabbia al cielo di una piazza vuota; più solidarietà per i figli degli immigrati nati in Italia, da qualificare a tutti gli effetti come cittadini italiani; più moralità per un Paese assuefatto alla corruzione, attraverso il ripristino del reato di falso in bilancio ed un’ulteriore revisione delle norme relative alla criminalità economica; più giustizia sociale per ridurre le troppe disuguaglianze di un Paese sempre meno solidale. Lavoro, diritti, solidarietà, moralità giustizia sociale: ecco l’Italia che Bersani ha in mente, ecco la prospettiva di “cambiamento possibile” che può caratterizzare il nostro futuro.

Il profondo di appartenenza ad una storia che non sono disposto ad archiviare o a rottamare, l’adesione ad un progetto collettivo, l’orizzonte di un cambiamento possibile sono le ragioni della mia scelta, le ragioni che stanno alla base della mia risposta all’interrogativo: “perché Bersani?”. Per il nostro passato, e per il nostro futuro: ecco perché Bersani.

Carlo Dore jr.

lunedì, novembre 12, 2012

DA BERLUSCONI A DI PIETRO: LA PARABOLA DEL "PARTITO PERSONALE"

Questa storia ha inizio in una fredda sera del gennaio del 1994, in un Paese squassato dalle bombe, dilaniato dal morso di una crisi economica senza precedenti, oppresso dal collasso di un sistema corruttivo destinato a travolgere, nel suo rapido agonizzare, tutti gli apparentemente intoccabili depositari dell’assetto di potere benedetto dall’ombra del muro di Berlino. Ha inizio nel momento in cui un imprenditore milanese con la passione per le tv, il calcio, le tombe egizie, gli stallieri siciliani e le ballerine del drive in decideva di “scendere in campo” alla ricerca del suo personalissimo “miracolo italiano”.

Ripercorrendo oggi i fotogrammi del primo dei tanti videomessaggi con cui il Cavaliere ha scandito il ventennio del suo sultanato, si comprende come, in quella sera di gennaio, non si consumava solo il rito fondativo del regime mascherato destinato a far retrocedere l’Italia, tra i sorrisi al vetriolo dei leader di tutta Europa, alla triste condizione di “stato semi libero”. No, quella sera accadeva qualcosa di peggio: quella sera si completava un processo degenerativo già avviato durante la grandeur di Bettino Craxi, il processo volto alla trasformazione della realtà “partito” da soggetto collettivo in strumento utile ad assecondare la voluntas dell’uomo solo al comando.

Insomma, un nuovo fantasma iniziava a prendere possesso della Penisola: il fantasma del “partito personale”, mostro di ingegneria politica elaborato al chiuso degli uffici di Publitalia. Le articolazioni proprie dei partiti tradizionali venivano spazzate via in un battito di ciglia, e con esse l’ambizione degli iscritti di concorrere, attraverso il partito, a determinare con metodo democratico la politica nazionale. Il partito cambia pelle: dismette la sua funzione di luogo di elaborazione programmatica e di centro di selezione della classe dirigente, per assumere quella di megafono delle decisioni del Capo, trovando la propria ragion d’essere esclusivamente nella fidelizzazione del popolo al leader. Nome, simbolo, candidature, esclusioni: ovunque è il marchio del Capo, quasi a configurare il partito quale mera propagazione dell’Io fondante.

La risposta delle opposizioni al dilagare del “partito personale” non si è però tradotta in una strenua difesa della partecipazione collettiva, nella riaffermazione di progetti politici di ampio respiro: questa reazione si è paradossalmente tradotta nella ricerca di una semplificazione del sistema derivante dalla creazione di nuovi partiti personali, nel tentativo di contrapporre alla leadership economica di Berlusconi la leadership etica, morale, moralistica o protestatoria di altri personaggi di riferimento.

In questa prospettiva, ecco sorgere il PD di Veltroni, contenitore antiideologico archiviato grazie alla svolta socialdemocratica di Bersani; ecco fiorire e sfiorire SEL, legata a doppio filo alle sorti della narrazione vendoliana; ecco incedere prepotente IDV, la cui vocazione moralizzatrice ha ben presto perso vigore dinanzi alla gestione familista ed egoratica imposta da Di Pietro; ecco apparire e scomparire la rottamazione di Renzi, ultimo prodotto della politica basata sul fascino del One man show.

Ma a vent’anni di distanza da quella notte di gennaio, la parabola del partito personale sembra avere iniziato la sua parabola discendente: l’implosione della stella berlusconiana ha trascinato nel suo declino quel che resta IDV - incapace per sua natura di trasformare la protesta in proposta -, mentre il fuoco innovatore che aveva animato Vendola e Renzi si affievolisce per la mancanza di un progetto degno di tale nome. A vent’anni di distanza da quella notte di gennaio, un clamoroso vuoto di rappresentanza pone di fatto la politica italiana dinanzi ad un bivio: abbandonarsi al nichilismo telematico di Grillo (e passare dal partito personale-reale ad un partito personale-virtuale, attraverso l’autodafè all’impalpabile guru di internet che riduce la partecipazione ad un semplice “click”) o tentare l’avventura del ritorno al tanto aberrato modello del “partito pesante”, quello delle sezioni e dei dibattiti, della lotta politica concepita come battaglia ideale e della selezione della classe dirigente basata sulla concreta valutazione dell’impegno di militanza. Tentare, insomma, l’avventura del ritorno alla “concezione costituzionale” del partito come strumento utile ai cittadini per concorrere con metodo democratico alla vita politica del Paese: un ritorno alla Costituzione per chiudere, una volta per sempre, la parabola del partito personale.

Carlo Dore jr.