sabato, aprile 28, 2012

IL CREPUSCOLO DEL "CERCHIO MAGICO": CRISI "DEI" PARTITI O CRISI "NEI" PARTITI?

I molteplici scandali che hanno coinvolto vari esponenti di primo piano dei principali partiti dell’arco costituzionale, unitamente al malcontento collegato agli effetti delle rigide misure assunte dal Governo per contrastare la crisi economica in atto, hanno contribuito ad alimentare la già crescente sfiducia dei cittadini verso il sistema politico nel suo complesso, a favorire il diffondersi di quella sensazione di lontananza della politica dalla società civile di cui si alimenta il tanto evocato fantasma dell’antipolitica.

Dinanzi alla desolante girandola di case acquistate “all’insaputa” del proprietario, di diamanti e lingotti d’oro in transito tra Pontida e la Tanzania, di vacanze offerte al potente di turno da imprenditori compiacenti, sotto accusa è finito non solo il “sistema dei partiti” – ormai incapaci di interpretare le istanze che si manifestano in seno alla società civile – ma l’idea stessa di partito, descritto come una vuota sovrastruttura da rottamare ora a favore di questa o quella “lista del sindaco”, ora a favore del tecnico illuminato, ora a favore del manipolo di indignados costituitisi in “movimento”, spesso ispirati dalle predicazioni di un ex giullare riscopertosi guru della protesta civica.

Ad essere messa in discussione è dunque l’idea di partito, nel quadro di una teorizzazione complessiva di una “politica senza partiti”. Ma, occorre chiedersi, quale modello di partito rischia oggi di implodere? O meglio, di quale modello di partito si invoca l’archiviazione?

Spostando le lancette del tempo indietro di vent’anni, è facile rievocare le “grandi speranze” che accompagnarono il tracollo del CAF e l’incedere di Tangentopoli: la speranza di liberare il Paese dalla zavorra di corruzione e malaffare che – allora come ora – rischiava di trascinare l’economia nazionale verso il baratro di una crisi irreversibile; la speranza di vedere spazzati via quei partiti che Berlinguer aveva descritto come “macchine di potere e di clientela”; la speranza di vedere realizzato il sogno affidato da Giorgio Ambrosoli alla sua struggente lettera testamento: fare politica per il Paese, e non per un partito.

Ma le grandi speranze che avevano scandito il crepuscolo della Prima Repubblica non si concretizzarono in un ritorno all’idea di partito inteso come strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica della Nazione, come struttura in grado di procedere alla formazione ed alla selezione della classe dirigente. No, quelle grandi speranze si infransero contro l’affermarsi del partito personale, lanciato da Berlusconi in una sera di gennaio dal grigiore di un supermercato della Bassa Padana.

Da Forza Italia alla Lega Nord, dall’IDV alla stessa SEL passando per lo schema “leggero” del PD di Veltroni (rinnegato in fretta e furia da Bersani), il modello del partito personale ha dominato la scena politica della Seconda Repubblica. La politica si è trasformata in un rapporto diretto tra leader e popolo, la partecipazione si è ridotta al rilascio di una sorta di delega in bianco, i militanti hanno finito col riconoscersi non in un’idea ma nell’icona del leader, secondo una fidelizzazione destinata spesso a scadere nelle logiche del tifo da stadio.

Anche a causa delle deformazioni di una legge elettorale inconcepibile presso qualunque democrazia occidentale, il rapporto tra partito e leader è stato radicalmente capovolto: il leader non è più la massima espressione del progetto politico di cui il partito è portatore, ma è il partito a rappresentare il “cerchio magico” preposto alla diffusione ed all’attuazione delle determinazioni del Capo. Ecco: con Scajola e Belsito, con Bossi e Formigoni, è proprio la logica del “cerchio magico” ad essere prossima all’implosione: la stessa la logica che paradossalmente ispira quanti – tra il sostegno a liste di sindaci e l’adorazione di guru improvvisati - oggi dei partiti invocano la rottamazione.

Ma se si tiene conto di questa contraddizione in termini, appare evidente come la crisi di cui “l’antipolitica” si alimenta non può essere definita come una crisi “dei” partiti (intesi come struttura preposte all’esercizio dell’attività politica), ma come una crisi che vive “nei” partiti, e che nasce proprio dalla tendenza alla destrutturazione degli stessi messa in atto dai teorici della politica lieve. Una crisi non di strumento, ma di (de)struttura, dalla quale i partiti stessi possono uscire solo ritornando alla Costituzione, riacquistando - attraverso misure volte a garantire l’assoluta trasparenza della loro gestione economica, attraverso l’adozione di codici etici rigorosi che impediscano la candidatura di soggetti rinviati a giudizio per delitti (diversi dai reati d’opinione) punibili con pena superiore ai due anni di reclusione, attraverso l’approvazione di una legge elettorale che attribuisca ai cittadini la possibilità di attribuire la preferenza ai candidati in lista – la loro funzione di apparati preposti a permettere ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Ritornare alla Costituzione, dunque: all’idea tradizionale del partito inteso come centro di formazione e selezione della classe dirigente, ad un idea “berlingueriana” di partito che può ancora prevalere sulle ceneri del cerchio magico.

Carlo Dore jr.

mercoledì, aprile 11, 2012

L’IGIENISTA, IL TROTA E LA MALEDIZIONE DI CALIGOLA



“Caligola? Non è l’Imperatore romano divenuto famoso per aver nominato senatore il suo cavallo?” La leggenda del regale quadrupede asceso, per l’improvvida volontà del suo princeps, dalla miseria della stalla alla gloria del seggio senatoriale costituisce la dannazione eterna dell’irrequieto figlio di Germanico, passato non a caso alla Storia come l’emblema del nepotismo spudorato e un po’ cialtrone che spesso caratterizza l’esercizio del potere in Italia.

Caligola, l’Imperatore che nominò senatore un cavallo: la memoria del Monarca non trova pace. Quel cavallo è la sua maledizione, una maledizione tramandata di era in era, che ha rischiato dall’oggi al domani di essere esorcizzata da una maledizione più potente, dalla leggenda di un nepotismo ancora più esasperato, dal mito di un potere ancora più arrogante e beota di quello che scandiva le ultime stagioni dell’Urbe: il mito dell’Igienista e del Trota.

Si tratta di una leggenda che ha pochi punti di contatto con i marmorei fasti della Roma imperiale, e che si dipana lungo il sentiero di nebbia tra Arcore, Gemonio e Pontida, nella terra in cui gli epigoni di Asterix hanno piegato lo spadone di Umberto da Giussano alle fredde logiche del Biscione di Mediaset. La Lega di lotta e di governo è stato il braccio armato del “ghe pensi mì”, le leggi ad personam il tributo versato al Dio Po’ per la conquista della Roma Ladrona.

Protagonisti di questa strana leggenda non sono imperatori, consoli e pretoriani, ma una bella igienista dentale dalle forme giunoniche e dal sorriso da copertina e l’immaturo rampollo di un politico di lungo corso, le cui velleità di carriera erano state in un primo tempo spazzate via da una battuta al curaro del lungimirante genitore: “Lui il mio delfino? Per ora è una Trota…”.

L’Igienista e il Trota: la leggenda comincia così. Insondabili infatti sono i sentieri del potere: le curve mozzafiato della bella igienista si rivelano un autentico toccasana per le ferite vere o presunte di un vecchio egoarca sempre in ballo tra Palazzo Chigi e il lettone di Putin, e le logiche del “tengo famiglia” si rivelano assai più pressanti della delusione paterna per un diploma più usucapito che conseguito. I rispettivi princeps guidano l’ascesa dell’Igienista e del Trota: non verso il seggio senatoriale già occupato dal regale quadrupede, ma verso un posto blindato nel parlamentino lumbàrd. Basta e avanza per rievocare il mito di Caligola: l’Imperatore chiede alla Storia la revisione del suo processo, magari contando su uno sconto di pena grazie al combinato disposto dell’indulto e della Cirielli. In fondo, un cavallo val bene un Trota.

Ma la leggenda lascia d’un colpo spazio alla fredda cronaca, e il Tribunale della Storia sa essere più inflessibile della Cassazione: l’Igienista si ritrova ben presto catapultata dal banco consiliare al banco degli imputati, con l’accusa di essere la disinvolta organizzatrice dei bunga bunga di Arcore, la prima ballerina del desolante can – can destinato ad allietare le cene eleganti dell’inquilino del lettone di Putin e dei suoi attempati sodali. Le bizze dello spread spazzano via il Biscione di Arcore e gli spadoni di Alberto da Giussano, mentre il Trota deve riguadagnare in fretta e furia la strada per Gemonio, inseguito dagli sberleffi di mezza Italia e dalle immagini che lo immortalano intento ad intascare banconote dal suo autista di fiducia, testimonianza inconfutabile di un uso quantomeno disinvolto del denaro degli epigoni di Asterix.

L’Igienista e il Trota: la loro leggenda finisce in miseria, la Storia li ha inghiottiti, insieme alla vecchia fola della Lega che combatte contro Roma Ladrona e del “ghe pensi mì” in salsa berlusconiana. L’Igienista e il Trota: due piccoli fantasmi della Seconda Repubblica che non sono riusciti a esorcizzare la maledizione di Caligola, condannato in via definitiva da un cavallo a rappresentare di era in era l’icona degli eccessi di un potere fuori controllo. Nonostante l’Igienista, nonostante il Trota, nonostante gli ultimi fuochi dell’arroganza spudorata e un po’ beota che per anni hanno animato le notti di Arcore e i raduni di Pontida, e che ora sono destinati a spegnersi poco a poco tra le macerie di questo Paese alla deriva.

Carlo Dore jr.

martedì, aprile 03, 2012

QUEL PARTITO NATO SENZA PAROLE

C’è un immagine che meglio di ogni altra descrive le lacerazioni prodotte sul PD dai progetti di riforma del mercato del lavoro elaborati dal Governo – Monti: quella di Bersani che attraversa a capo chino la bouvette di Montecitorio, spargendo amarezza sui microfoni della stampa parlamentare. “Se devo concludere la vita dando l’OK alla monetizzazione del lavoro, io non la concludo così. Non lo faccio: per me una roba inconcepibile”.

L’amarezza di Bersani sgorga dalle troppe contraddizioni di un partito mai con-diviso ma eternamente diviso: diviso tra componente labour e componente liberal; diviso tra l’esigenza di tutelare i diritti conquistati dai lavoratori in decenni di battaglie democratiche e l’esaltazione del freddo rigorismo montiano; diviso tra l’algido moderatismo che ispira i teorici della “grande coalizione” e l’infuocato grido di dolore che promana dalle avanguardie sindacali.

L’amarezza di Bersani dilaga, insieme ai dubbi degli elettori, alle prese con mille interrogativi quotidianamente rilanciati da blog e social network: il governo Monti rappresenta davvero “l’atto fondativo del PD” o costituisce solo una soluzione d’emergenza giustificata dalla necessità di offrire al Paese un riparo contro le intemperie di Sua Maestà il Mercato? Il PD si identifica nelle posizioni del socialdemocratico Fassina o dei mo-dem Letta e Fioroni? Dove va e con chi va il PD? Ma soprattutto: che cos’è il PD?

Bersani cerca una risposta convincente per questa batteria di domande in libera uscita, con la serena cocciutaggine del dirigente formato dalla vecchia scuola della sinistra italiana. Tra Parigi e Bruxelles, tratteggia con i leader delle altre famiglie progressiste del Vecchio Continente un nuovo modello di Europa: il modello di un’Europa più giusta e più solidale, capace di superare la crisi senza ricorrere all’ennesimo bagno di sangue. E fa i conti, giorno dopo giorno, con la scomparsa delle parole: quelle parole messe in cantina nella stagione del partito-gazebo, con Veltroni leader e Calearo capolista nel nord-est, quando il Lingotto sembrava l’inizio del New Deal e Marchionne veniva esaltato come il perfetto prototipo dell’industriale democratico.

Quante parole sono sparite in quella sciagurata stagione? Quante volte le parole “sinistra”, “diritti”, “giustizia sociale”, equità”, “sindacato” sono state descritte come il vuoto retaggio di una stagione morta e sepolta, da archiviare attraverso le plastificate circumlocuzioni che scandivano l’epoca del “ma-anchismo”? Il PD è nato così: come un partito senza parole.

Ma ora che Veltroni limita le sue sortite a qualche lenzuolata su “Repubblica” e che Calearo aggira i paletti del fisco dall’alto della sua Porche con targa straniera, ora che le luci del Lingotto si sono spente e che Marchionne appare come l’epigono della peggiore razza padrona, la gente per le strade invoca di nuovo quelle parole: “giustizia sociale”, “diritti” “tutele” contro il chirurgico gelo dei tecnici, chiamati a colmare il vuoto lasciato da una politica prossima a cadere nelle spire dell’antipolitica. Ma quelle parole, le parole del PD, le parole della sinistra italiana, sono paralizzate dalla contrapposizione tra componente liberal e componente labour, ostaggio del gioco di veti incrociati che ancora paralizza il partito nato senza parole.

Eppure, di fronte alle istanze di un elettorato sempre più sconfortato, con le primarie trasformate in una bieca resa dei conti tra cacicchi locali e nel trampolino di lancio per onesti professionisti della politica riciclatisi come campioni del civismo democratico, le risposte di Bersani devono arrivare, meglio se attraverso i capisaldi del manifesto di Parigi, meglio se attraverso l’elaborazione di una strategia in grado di rinsaldare i vincoli tra i progressisti europei.
“La monetizzazione del lavoro noi non la accettiamo, la monetizzazione del lavoro per noi è inconcepibile”. Una risposta per risolvere le troppe contraddizioni del partito diviso e mai con-diviso, per evitare che la scelta emergenziale dei tecnici chiamati a governare la bufera lasci stabilmente senza rappresentanza quelle fasce sociali che ancora guardano al PD come al loro interlocutore di riferimento, per evitare che gli ultimi refoli della stagione contrassegnata dalla scomparsa delle parole lascino senza voce il principale partito dei progressisti italiani. Per spezzare una volta per sempre la maledizione del partito nato senza parole.

Carlo Dore jr.