mercoledì, novembre 27, 2013

GIORNI BUGIARDI - S. Di Traglia - C. Geloni; Editori Riuniti; 2013; pp. 236


Ahi che pessime orchestre, che brutta musica che sento: qui si secca il fiore e il frutto del nostro tempo. Sono giorni duri, sono giorni bugiardi: cara Democrazia, ritorna a casa, che non è tardi”.
Stefano Di Traglia e Chiara Geloni ricorrono ad una delle più famose liriche di Ivano Fossati per descrivere i duecento giorni che, dal 2 dicembre 2012 al 19 aprile 2013, vanno dalla vittoria di Bersani alle primarie per la premiership del centro-sinistra alla rielezione di Napolitano ed alla formazione del governo-Letta. Giorni bugiardi: di false promesse e di sogni spezzati, di vincitori condannati alla sconfitta, di rottamati diventati rottamatori, di professionisti dell’eversione reinventatisi paladini del civismo democratico. Comici e sindaci, dentisti e architetti, giovani parlamentari ed eminenze ingrigite: tutti spettatori non paganti del circo infernale scatenatosi nell’arena del Capranica, tutti registi inconsapevoli del misfatto consumatosi nella notte dei 101, e cristallizzato nell’inequivocabile titolo de Le Monde: “hanno abbattuto Prodi per colpire Bersani”.

Sì, erano giorni bugiardi quelli in cui credevamo che, una volta confinate le ambizioni del Rottamatore al di sotto del fatidico 40% dei consensi, “davvero non ci avrebbe più ammazzato nessuno”; in cui non riuscivamo a comprendere come la fatidica “agenda Monti” potesse in realtà costituire la pietra tombale sulle speranze di vittoria di una sinistra che, declinando il sogno di un’Italia giusta”, poteva quantomeno perseguire l’obiettivo di un’Italia migliore di quella uscita dalle secche del ventennio berlusconiano. Non avevamo capito che quelli erano giorni bugiardi: stretti tra il gelido rigore dei tecnici in loden e il populismo sgangherato di Grillo, tra il delirio mediatico di Berlusconi ed i soliloqui nostalgici di Ingroia, abbiamo visto svanire una vittoria che sembrava già nostra, e la speranza del “cambiamento” ridursi ad un beffardo miraggio.

Già il “cambiamento” era l’ossessione di Bersani, che, tra una tappa a Bettola e un colloquio con i ricercatori del CERN, già predisponeva le bozze dei decreti da sottoporre al primo Consiglio dei Ministri. Lavoro, diritti, legalità, moralità: c’era la nostra Italia in quei provvedimenti in nuce, destinati ad essere seppelliti in un armadio di Montecitorio; c’era la nostra Italia negli “otto punti” del Governo di cambiamento proposti alle Camere per sbloccare l’impasse istituzionale determinatosi all’indomani del voto del 25 febbraio. Nulla da fare: quelli erano giorni bugiardi, abbiamo detto dei “no” e ci siamo sentiti dire di “no”.

Quelli erano giorni bugiardi. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, e inseguivano le larghe intese con la benedizione di rottamati e rottamatori: alle larghe intese credevano i tanti montiani del PD, rimasti folgorati sulla via della Große Koalition; alle larghe intese credeva Renzi, che indicava l’accordo con il PDL come l’unica alternativa al ritorno alle urne. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, e proponevano un baratto scellerato tra Palazzo Chigi e il Colle. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, ma Bersani non voleva cedere: “la nostra gente non capirebbe le larghe intese” “Se sperano di convincermi ad eleggere un Presidente della Repubblica che garantisce la grazia a Berlusconi, se lo possono scordare”.

No, no. Due “no” che servono a spiegare l’evoluzione di quei giorni bugiardi. Servono certamente a spiegare la fuga di Grillo dalla responsabilità del governo di cambiamento, dall’intermediazione di Renzo Piano e dai contatti instaurati dal dentista pontiere: protestare è più semplice che governare, e le larghe intese costituivano lo scenario perfetto per rinnovare la parodia mediatica dell’assalto ai palazzi del potere. Servono probabilmente a spiegare il niet opposto dalla carica dei 101 innominati all’ascesa al Quirinale di Romano Prodi, prima acclamato e poi vilmente fulminato dal fuoco incrociato di rottamatori e rottamati, ritrovatisi fianco a fianco nelle tenebre della notte del Capranica. Hanno voluto colpire Prodi per colpire Bersani; l’ex segretario risponde con la forza di una battuta: “quelli avrebbero segato anche Papa Francesco”.

Il resto è mera cronaca: le dimissioni di Bersani segnano l’addio all’Italia giusta e al governo di cambiamento; le larghe intese nascono e muoiono nel giro di un’estate, seppellite dalla condanna del Cavaliere decadente e dalle mille polemiche per pasticci kazaki e ministri dal telefono bollente. Eppure, la lettura del libro di Di Traglia e Geloni riesce ad insinuare un dubbio nei militanti dell’area democratica, impegnati nell’ennesima battaglia congressuale: i giorni bugiardi potrebbero non essere finiti, rottamatori e rottamati sono ancora insieme sotto le insegne dell’Italia che cambia verso: a promettere giorni nuovi a quel che resta della sinistra all’alba della terza Repubblica.
No, i giorni bugiardi non sono ancora finiti, e quelli che ci aspettano potrebbero non essere giorni migliori.

Carlo Dore jr.
Cagliari.globalist.it

sabato, novembre 09, 2013

IO STO CON GIANCARLO CASELLI


Io sto con Giancarlo Caselli: lo scrissi nel 2005, quando la più infame delle leggi ad personam sbarrò di fatto l’accesso alla procura nazionale antimafia al magistrato che più di ogni altro aveva saputo interpretare la sete di “reazione civile” di un Paese lacerato dalle stragi di Capaci e Via d’Amelio. Io sto con Giancarlo Caselli: lo scrivo oggi, mentre il Procuratore della Repubblica di Torino formalizza le sue dimissioni da Magistratura democratica. La nota di Erri De Luca sull’edizione del 2014 dell’agenda di MD (fino ad oggi, oggetto immancabile sulla scrivania di ogni giurista democratico) è stata troppo per lui; un peana della sinistra extraparalmentare, a firma di uno dei più accesi sostenitori del movimento NO TAV, proprio sull’agenda della corrente che aveva contribuito a fondare è risultata indigeribile per il PM che della lotta al terrorismo aveva fatto la sua prima bandiera.
Penna dissacrante e intellettuale sognatore, De Luca ricorre al mito di Orfeo ed Euridice per descrivere il percorso culturale compiuto da alcuni eredi del ’68: la volontà di perseguire un puro ideale di giustizia avrebbe spinto una generazione intera a scontrarsi con il potere costituito, ad esporsi ad una brutale criminalizzazione di massa, a dare vita persino ad una “guerra civile a bassa intensità”, figlia illegittima del tentativo di cambiare “i connotati del nostro paese nelle fabbriche, nelle prigioni, nei ranghi dell’esercito, nelle aule scolastiche e delle università”.
Dagli accessi più reconditi di un passato mai del tutto dimenticato, riaffiorano i miti delle BR rappresentate come Zorro, Robin Hood e compagni che sbagliano: Orfeo attaccava il cuore dello Stato, per sacrificarlo su quell’altare di giustizia in cui identificava la sua Euridice, l’Euridice di una “generazione di politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”.
E’ troppo, per chi di quella stagione è stato non semplice testimone, ma principale protagonista; è troppo, per ogni giurista democratico che trova nell’ordinamento costituzionale la risposta alla sua sete di uguaglianza. E’ troppo: Caselli lascia MD, l’agenda scompare dal suo e dal mio tavolo. Perché io sto con Giancarlo Caselli.
E’ complessa, la realtà dell’Italia proiettata verso gli anni ’70, e Zorro, Robin Hood e i “compagni che sbagliano” raccontano una storia molto diversa da quella cristallizzata nel mito di Orfeo e Euridice: è una storia di fuoco e di regole, di pallottole e processi, di guardie di ladri, di eroi e carnefici. E’ la storia della dignità di Fulvio Croce, presidente dell’ordine degli avvocati di Torino assassinato per la sua scelta di svolgere il ruolo di difensore d’ufficio nel primo processo contro le BR; è la storia di Adelaide Aglietta, e del suo coraggioso tentativo di spezzare il clima del terrore imposto dalle P38 espletando il compito di giudice popolare nell’ambito di quello stesso processo; è la storia di Emilio Alessandrini e Guido Galli, caduti entrambi con il codice in mano sotto i proiettili di Prima Linea; è la storia di Bruno Caccia e di Carlo Alberto dalla Chiesa, e della loro capacità di imporre la forza dello stato sullo stato della forza; è la storia di tutti i giuristi democratici che sempre hanno condiviso le battaglie per la legalità e per l’indipendenza della magistratura intraprese da MD. E’ la storia di Giancarlo Caselli: ed io sto con lui.
Le parole di De Luca fanno pensare e fanno sognare: la ricerca dell’Euridice di un Paese diverso, più giusto, più eguale. In una parola, più democratico. Quel Paese che l’Italia non è stata ma che forse avrebbe potuto essere, se il dialogo tra masse socialiste e masse cattoliche avesse trovato il suo normale epilogo; se la strategia di cambiamento elaborata da Moro e Berlinguer non fosse stata seppellita sotto il sudario insanguinato della Renault rossa in Via Caetani; se Zorro, Robin Hood e i compagni che sbagliano non si fossero rivelati parte integrante di quel grumo di potere che – seguendo le trame dipanatesi tra Roma, Mosca e Washington – si mobilitò per salvaguardare le logiche del mondo spaccato in blocchi, gli equilibri che presiedevano al funzionamento della democrazia incompiuta.
Le parole di De Luca fanno pensare e fanno sognare: ma il mito di Orfeo ed Euridice può valere solo a descrivere la condizione di quanti, per amore della giustizia, sono pronti ad impugnare il codice, non le armi; di quanti, condividendo le posizioni di MD, si sono sempre battuti per inseguire il sogno di un Paese liberato dalla rete di privilegi ed impunità che costituiva la ratio delle leggi ad personam; di quanti, dal 2005 ad oggi, non hanno mai smesso di affermare: “Io sto con Giancarlo Caselli”.

 
Carlo Dore jr.
cagliari.globalist.it