giovedì, aprile 25, 2013

LA COSTITUZIONE: FIGLIA DELLA RESISTENZA


Lo avrai, camerata Kesserling, il monumento che attendi da noi Italiani, ma con che pietra si costruirà deciderlo tocca a noi”. Il monumento che Calamandrei idealmente contrapponeva alle feroci incursioni delle camicie nere è stato elevato facendo ricorso ad un particolare tipo di pietra: alla pietra delle idee, alla pietra del sangue, alla pietra della speranza di un Paese diverso che sosteneva, ora dopo ora, i protagonisti della lotta di Liberazione. Quel monumento è la Costituzione: patto tra uomini liberi volto a stabilire le regole fondanti della convivenza democratica, manifesto politico ispirato ai valori di solidarietà ed eguaglianza che della Resistenza costituivano l'anima. Già, l'anima: nella Costituzione c'è l'anima della Resistenza, perchè la Costituzione è figlia della Resistenza.

Il rapporto che lega le scelte dei Costituenti alla stagione della lotta partigiana non emerge solo dalle disposizioni relative alla dignità della persona umana ed ai “diritti di libertà” – principi fondamentali di un ordinamento chiamato a superare l'onta delle leggi razziali - : quel legame traspare anche dalle norme che, attraverso un equilibrato sistema di checks and balances tra i vari poteri dello Stato, garantiscono il regolare svolgimento della dialettica democratica dinanzi al manifestarsi di eventuali rigurgiti di autoritarismo; traspare dal principio che, qualificando la magistratura come un ordine autonomo rispetto ad ogni altro potere, rifiuta la logica di un sistema giudiziario inteso come braccio armato del potere politico; traspare dalla previsione di efficienti istituzioni di garanzia, in grado di salvaguardare l'integrità del dettato costituzionale dai desiderata di una contingente maggioranza di governo.

Ecco, non è casuale che proprio la seconda parte della Costituzione sia stata oggetto di numerosi tentativi di revisione durante i vent'anni che hanno scandito l'evolversi della Seconda Repubblica; e non è casuale che la necessità di procedere ad una rielaborazione dei principi relativi alla forma di governo consacrati nella Carta Fondamentale (più volte definiti come il decadente retaggio di una cultura filosovietica) sia stata manifestata con particolare vigore dagli esponenti di quello schieramento politico che, attraverso la sistematica (e talvolta spudorata) riabilitazione del ventennio fascista, tuttora negano alla Resistenza il valore di momento fondante della nostra democrazia.

Ma proprio la capacità della Costituzione di resistere ai molteplici tentativi di revisione di cui è stata oggetto rappresenta la migliore conferma dell'attualità dei valori di cui la Carta è espressione: il valore dell'uguaglianza, destinato a prevalere sull'ossessiva ricerca del privilegio; il valore delle istituzioni intese come strumento per l'attuazione dell'interesse generale, affermato in confronto di quanti vorrebbero le stesse istituzioni asservite alle esigenze del princeps; il valore delle cariche pubbliche da esercitare secondo “disciplina e onore”, principi brutalmente sviliti dalle tristi vicende oggetto della cronaca recente; il valore dell'indipendenza della magistratura, opposto ai mille disegni di riforma diretti a sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del potere politico; il valore della democrazia come momento di confronto, destinato a prevalere sempre e comunque sul decisionismo efficentista che caratterizza il modello dello Stato-azienda.

Sono valori radicati nella storia del nostro Paese, sono i valori radicati nelle mille, meravigliose esperienze che rendono entusiasmante e commovente la nostra Storia: nell'esperienza di Antonio Gramsci, intelletto troppo elevato per rimanere sepolto nelle segrete di Turi; nell'esperienza di Emilio Lussu, vittima fieramente consapevole delle storture giudiziarie di un regime che non faceva prigionieri; e soprattutto nell'esperienza dello splendido, struggente ultimo discorso di Giacomo Matteotti, e del suo tentativo di riscattare “non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente” la dignità di una Camera dei Deputati già ridotta a bivacco di manipoli.

Uguaglianza, giustizia, dignità, passione: in una parola, Resistenza; in una parola, Costituzione. Anche in un epoca attraversata dalle violente pulsioni autocratiche di cui si alimentano le varie facce della “politica personale”, i valori della lotta partigiana hanno saputo superare le barriere del tempo, e continuano ad ispirare i 139 articoli della Carta Fondamentale. Per questo, mi piace credere che, proprio in calce all'art. 139, è possibile rinvenire un'ulteriore “norma di chiusura”, una norma di chiusura scandita dalle stesse parole incise nella pietra del monumento di Calamandrei:

Ora e sempre, Resistenza.

Carlo Dore jr.

giovedì, aprile 11, 2013

LE MILLE INSIDIE DEL “COMPROMESSO A-STORICO”


Proprio mentre viene data alle stampe una nuova antologia dei più importanti interventi di Enrico Berlinguer (corredata da un'illuminante prefazione di Miguel Gotor), il richiamo del Capo dello Stato all'esperienza del 1976 ed al tentativo di “desistenza” condotto da Democrazia Cristiana e Partito comunista riporta di nuovo la stagione del compromesso storico al centro del dibattito politico. E' possibile individuare in un nuovo patto di reciproca legittimazione tra le principali forze in campo (patto destinato a risolversi in un'intesa di ampio respiro che ricomprende la scelta del nuovo Presidente della Repubblica, la formazione di un “governo di scopo”, la revisione della seconda parte della Costituzione e la riforma della legge elettorale) la soluzione della crisi istituzionale che al momento paralizza il Paese? Sono davvero maturi i tempi per un nuovo “compromesso storico”, con Berlusconi e Bersani (sempre più isolato nella sua determinazione di rifiutare la prospettiva di un “patto col diavolo”) nei panni che furono di Moro e Berlinguer?

L'ottimismo degli sherpa berlusconiani e della sempre più nutrita schiera di pontieri democratici collide apertamente con lo scetticismo manifestato sul punto da storici, politologi e costituzionalisti, ai quali non sfugge il (per certi aspetti, maldestro) tentativo di decontestualizzare una delle più belle pagine della storia recente al fine di attribuire una parvenza di dignità morale ad un'operazione poco digeribile per gran parte dell'opinione pubblica.

Uniti dalla condivisione dell'esperienza dell'Assemblea costituente (e reciprocamente vincolati dal “patto tra uomini liberi” consacrato attraverso l'approvazione della Carta Fondamentale), DC e PCI avviarono un percorso di superamento del sistema di blocchi che caratterizzava il sistema politico dell'Italia del dopoguerra sulla base di una serie di presupposti comuni: l'anima popolare propria di entrambi i partiti; la vocazione solidaristica che animava tanto il socialismo quanto il cattolicesimo democratico; la concorde percezione della necessità di difendere la democrazia dalla minaccia di un'imminente deriva autoritaria, ispirata ora al modello greco, ora al modello cileno. DC e PCI erano figli della stessa storia, erano il prodotto di una matrice comune che giustificava e sosteneva il compromesso storico: la capacità di rappresentare le due anime della cultura democratica sviluppatasi dopo la lotta di liberazione.

Proprio la mancanza di una matrice culturale comune preclude, per contro, la configurabilità di un analogo compromesso tra il PDL e quel che resta dell'area democratica, protagoniste di uno scontro lungo vent'anni e tutto incentrato sulla figura di Silvio Berlusconi, icona di quella “politica personalizzata” che ha ridotto l'Italia alla triste condizione di democrazia minore. Non una storia comune, ma un conflitto tra storie, consumatosi tra leggi ad personam e cene eleganti, mercati impazziti e faccendieri senza scrupoli, logiche impunitarie e parlamentari precettati per l'occupazione dei palazzi di giustizia. Sulla base di queste riflessioni, ecco che le larghe intese invocate da Napolitano non possono che apparire incompatibili con le posizioni assunte dalla sinistra italiana nel recente passato, assumendo i connotati non di un nuovo compromesso storico, ma di un tanto illogico quanto pericoloso compromesso “a-storico”.

Se si segue questa linea di ragionamento, emerge dunque come l'accordo di ampio respiro prospettato da Berlusconi si esaurisca in un lucido baratto da consumarsi sulle ceneri di quegli stessi principi della Carta Fondamentale che tante volte ne hanno limitato le ambizioni: la fiducia ad un esecutivo di corto respiro – destinato per forza di cose a sgretolarsi tra le mille turbolenze di una legislatura di transizione - in cambio del tanto agognato salvacondotto, e della designazione di un Capo dello Stato “non ostile” alla futura approvazione di altre norme su misura. Una prospettiva che le forze progressiste sono oggi chiamate a scongiurare, sia per fedeltà ad una storia che non merita di essere sacrificata sull'altare del potere, sia per banale istinto di sopravvivenza.

Una prospettiva da scongiurare, procedendo alla nomina di un Presidente della Repubblica qualificabile – più che come figura “ampiamente condivisa” - come un autentico guardiano della Costituzione. Un guardiano della Costituzione capace di tutelare l'integrità delle istituzioni dinanzi ai rigurgiti reazionari che la crisi politica in atto rischia di produrre; un guardiano della Costituzione, in grado di difenderne i principi dalle mille insidie che si celano nelle pieghe del compromesso “a-storico”.

Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su cagliari.globalist.it)