mercoledì, giugno 26, 2013

LA PARABOLA DEL PREDONE

La fase discendente della parabola del predone ha inizio in una strana serata di maggio del non lontano 2010, quando due funzionari della Questura di Milano – in violazione delle procedure vigenti – affidarono una minorenne marocchina fermata per furto nelle mani di una procace “consigliera ministeriale”, adempiendo così all’ordine impartito tramite una frenetica raffica di telefonate dal Presidente del Consiglio in persona: “liberatela, è la nipote di Mubarak”.

            Furono in pochi, allora, ad intuire la complessità del sistema che si celava dietro quella assurda sequenza di telefonate, dietro allo scomposto agitarsi di un premier dimostratosi ancora una volta incapace di abbandonare la sua naturale dimensione di mattatore del Drive In; furono in pochi a percepire quanto squallidamente pericolosa fosse la realtà in cui Silvio Berlusconi sfogava le sue pulsioni egocratiche, indifferente alle sorti di un Paese prossimo al default.

La parabola del predone procedeva indisturbata tra gare di burlesque e allegre schitarrate, maschere di Obama e buste piene di denaro, fanciulle da copertina ed improbabili sbornie di Sanbitter: era il mondo del Bunga-Bunga, l’iperbole di un leader che – a braccetto con Gheddafi, Putin e Ben Ali – si considerava depositario di un potere senza limiti. Già, il potere: l’inchiostro con cui era tracciata la parabola del predone, il fuoco della ubris berlusconiana, alimentato giorno dopo giorno dalla sfacciata commistione tra funzione istituzionale e tutela di interessi privati.

Investito del lauro dal consenso popolare, il predone impone e dispone, ad Arcore come a Palazzo Chigi: ecco le Olgettine marciare tacchi al vento verso il Pirellone, ecco Lavitola e Bisignani padroni assoluti della stanza dei bottoni, ecco fioccare processi brevi e legittimi impedimenti. E se una delle protagoniste delle cene eleganti finisce per caso in un commissariato di polizia, viene trasformata nella nipote di Mubarak e rispedita di gran carriera nel suo mondo dorato, in barba a magistrati, codici ed altri inutili orpelli da polverosi legulei. L’abuso diviene prassi, la menzogna si trasforma in verità di Stato, ratificata da un Parlamento umiliato nella sua alta funzione dalle determinazioni assunte in seno ad un bivacco di manipoli. Il predone non conosce limiti: come Gheddafi, come Putin, come Ben Ali.

Ma la curva discendente è inarrestabile, la parabola volge al termine: la forza della legge prevale sulla maniacale ricerca dell’impunità, e la condanna pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti di Berlusconi travolge anche quel sistema di piccole e grandi bugie, malcelate prevaricazioni e relazioni opache che del circo del bunga-bunga costituivano il meccanismo dominante.

“E’ una sentenza politica”, guaiscono feriti gli oplites del Cavaliere; “è una sentenza politica”, berciano disperate le Olgettine e le altre pasdaran capitanate da Daniela Santanchè, evidentemente ignare del fatto che l’accertamento della responsabilità penale cristallizzato in una sentenza può costituire un semplice corollario di una ben più ampia responsabilità politica. Nel momento in cui, dalle parole dei giudici, emerge la sconcertante debolezza di un uomo di Stato inerme dinanzi ai molteplici desiderata delle starlette del suo cerchio magico; nel momento in cui viene rilevata la palese incompatibilità tra la sua condotta e quei parametri di disciplina ed onore che la Costituzione gli impone di osservare nell’espletamento della sua funzione istituzionale, ecco che il verdetto del Tribunale non si limita ad affermare la colpevolezza del più eccellente tra gli imputati, ma rappresenta anche il tanto atteso momento conclusivo di quella che è stata la lunga parabola del predone.

Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su cagliari.globalist.it)

giovedì, giugno 06, 2013

GRILLO AD ASSEMINI: UNA RISATA LO SEPPELLIRA'.

Beppe Grillo cala in Sardegna accolto dagli applausi di quanti vedono nell'ex comico  l'unica opposizione al magma delle larghe intese, l'estrema speranza di rinnovamento di un sistema politico sempre più arroccato all'interno dei palazzi del potere.
Sembra inarrestabile, la marcia dei barbari illuminati dal Dio del Blog: nell'arco di tre mesi, hanno mandato al macero Bersani ed il suo commovente tentativo di dare vita ad un “governo di cambiamento” che prometteva legalità e lotta al conflitto di interessi; hanno gettato il PD nell'abbraccio mortale del PDL, riconsegnando a Berlusconi la golden sahre di un Paese sull'orlo del baratro; e hanno garantito ai manipoli guidati da Crimi e dalla Lombardi la possibilità di insistere nel loro assalto al Parlamento, liberi da ogni possibile responsabilità di governo. Magro bottino di guerra, per chi si riproponeva di “aprire Montecitorio come una scatoletta di tonno”.
            Gli oplites di Beppe non fanno una piega e tirano dritto: zainetti vintage e ipad di ultima generazione sono il simbolo della loro personalissima nueva alvorada, l'insulto generalizzato a compagni e avversari diviene il marchio di fabbrica di una non ben definita riscossa civica, perfino lo strafalcione più grossolano viene bonariamente giustificato come un’innocente dimostrazione di sana onestà intellettuale. D'altronde, vogliono essere barbari: i barbari di Grillo, pronti a seppellire il Mondo con un coro di matte risate.
            Eppure, le ultime amministrative hanno denunziato l'esistenza di un bug nel sistema, di una bestemmia nel Vangelo secondo Casaleggio, di una mela bacata nello zainetto: il Movimento è rimasto fuori dai ballottaggi, la marcia dei barbari si è trasformata  in marcetta da gita scolastica, Attila si è riscoperto Asterix. I “cittadini” sono spariti di colpo, e di colpo Grillo è rimasto solo: solo nella rete di post e likes, alle prese con la rabbia di militanti e avatar; solo nel silenzio assordante di una piazza vuota, pronta a seppellirlo sotto un coro di risate.
            Beppe non si rassegna: il Movimento sul territorio non esiste, lui vince e perde da solo. Da solo, espelle i dissidenti come Berlusconi al culmine del delirio bulgaro; da solo, liquida le critiche di Stefano Rodotà e le domande di Milena Gabanelli con la stessa sprezzante arroganza con cui aveva messo in discussione l'autorevolezza scientifica di Rita Levi Montalcini, altra mente libera e non disposta a genuflettersi dinanzi all'icona dell'Uomo solo al comando. Beppe vince e perde da solo, ma la batosta l'ha sentita eccome. E allora anche la piccola Assemini, sperduta nel cuore dell'entroterra cagliaritano, diventa importante come una nuova Chalon per i barbari riconfinati tra le pieghe di un fumetto.
            Ecco perchè Beppe cala in Sardegna con tutto il suo repertorio di invettive e sberleffi, cercando l'applauso di chi ancora vagheggia una riscossa civica. Chissà se, dinanzi
all'eco di un'altra piazza vuota, dinanzi ad un'altra raffica di “vaffa” sparata dai frequentatori del blog, il comico reinventatosi Capo politico capirà che la logica dell'opposizione ad ogni costo non è compatibile con una concreta prospettiva di rinnovamento, che gli elettori non gli hanno perdonato di avere rivitalizzato il Cavaliere attraverso quei “no” ossessivamente opposti agli otto punti del governo di cambiamento, che il fantasma di Bersani umiliato in streaming consumerà presto o tardi la sua vendetta, aleggiando, sconfitta dopo sconfitta, su quel che resta delle cinque stelle.
            E chissà se riuscirà a prendere consapevolezza del fatto che il destino di ogni guru intenzionato trasformare il Parlamento ora in un bivacco di manipoli, ora in un ricettacolo di zainetti, ipad e strafalcioni appare irrimediabilmente tracciato dagli ineluttabili sentieri della storia: da solo in una piazza vuota, dove una risata lo seppellirà.


Carlo Dore jr.
( cagliari.globalist.it )