giovedì, settembre 04, 2014

RENZI E I SEPOLCRI IMBIANCATI

Alcuni dei commentatori che hanno esaminato la prima fase della “svolta buona” che il Governo presieduto da Matteo Renzi avrebbe imposto alla politica italiana sono concordi nell’individuare nella forte carica di “novità” insista nel modus operandi del giovane premier il tratto distintivo della transizione verso la Terza Repubblica: novità nei protagonisti (con i quarantenni finalmente installatisi nella stanza dei bottoni), novità del linguaggio (con gli hastag che prevalgono sul politichese), novità nei processi decisionali (basta con i caminetti: si consolida il “patto di ferro” tra leader e popolo). Insomma: la generazione-Renzi costituirebbe la risposta all’istanza di rinnovamento più volte formulata dai militanti dell’area democratica, il tanto atteso elemento di rottura rispetto alle dinamiche perpetrate da una classe dirigente responsabile dei fallimenti dell’Ulivo e dell’Unione, la ventata di freschezza che spazza la polvere sedimentatasi sui sepolcri imbiancati della sinistra italiana.

Ad una più attenta analisi, tuttavia, siffatta carica di rinnovamento perde gran parte dell’incisività mutuata da slides e battute da seconda serata, per esaurirsi più in un banale cambio di corsia che in un’autentica inversione del senso di marcia. L’ascesa dei fedelissimi del Capo ai quartieri nobili di Palazzo Chigi, la semplificazione della comunicazione istituzionale –(con gufi, rosiconi, professoroni e frenatori individuati quali nuovi nemici della Patria, in luogo di toghe rosse, sindacalisti e giornalisti militanti), la concezione della dialettica politica come un referendum permanente sulla figura del leader, lungi dal costituire i capisaldi di una radicale rivoluzione culturale, rappresentano la semplice riproposizione in salsa new age degli schemi di esercizio del potere già collaudati nel corso del ventennio berlusconiano, il pervicace eterno ritorno dei fantasmi di un passato che codici e sentenze sembravano avere, una volta per sempre, consegnato ai libri di storia.
            
Ma vi è di più: la retorica della rottamazione non basta a coprire i molteplici punti di contatto tra la generazione – Renzi e quella classe dirigente che il premier-segretario ha più volte dichiarato di voler superare: Renzi non viene dalla luna, Renzi non è l’homo civicus che manda in pensione i boiardi della vecchia politica, il “papa straniero” che abbatte a colpi di tweet le antiquate liturgie partitocratiche, l’innovatore che si eleva al di sopra dei sepolcri imbiancati della sinistra italiana. No, Renzi è la logica conclusione della sequenza di eventi che ha condotto alla lenta eutanasia della sinistra italiana, il naturale prodotto delle determinazioni politicamente improvvide assunte da alcuni eredi del PCI dalla Bolognina in poi.
            
E’ il prodotto del costante allontanamento dei vertici dei partiti dalle esigenze del mondo del lavoro e dalle battaglie intraprese dal sindacato, derivante dalla tendenza a descrivere il graduale detrimento di diritti e tutele come un inevitabile portato della modernità. E’ il prodotto della frettolosa archiviazione della concezione berlingueriana della “diversità”, e della accettazione delle larghe intese come fisiologia estrinsecazione delle dinamiche democratiche. E’il prodotto della scelta di accantonare la tradizionale forma di partito per abbracciare il modello del partito leggero e di fatto identificabile solo tramite l’icona del leader, scelta che Bersani ha osteggiato a tal punto da sacrificare segreteria e premiership, nella missione impossibile di riempire con un anima sociale il vuoto ideologico del gazebo veltroniano. Ma soprattutto, Renzi è il prodotto delle mille concessioni accordate dai progressisti a settori sempre meno nobili del moderatismo, della disponibilità della sinistra a rinunciare all’essenza stessa della propria identità culturale per conquistare nuovi spazi di consenso, per assicurarsi quella legittimazione democratica che la Storia stessa le aveva già ampiamente riconosciuto.
            
No, Renzi non viene dalla luna, e la retorica della rottamazione non impedisce di individuare il filo rosso che unisce la Leopolda alla Bolognina, lungo il percorso segnato dalla polvere che grava sui sepolcri imbiancati di quel che resta della sinistra italiana.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)