mercoledì, maggio 30, 2018

CRISI ISTITUZIONALE E RUOLO DEL COLLE: TRA VALUTAZIONI GIURIDICHE E CRITICA POLITICA.


Le polemiche che hanno investito il ruolo del Presidente della Repubblica nella crisi istituzionale in atto costituiscono lo spunto per alcune considerazioni di carattere generale, presupposto necessario per offrire una valutazione equilibrata dell’esercizio, da parte del Capo dello Stato, del potere attribuitogli dall’art. 92 Cost. Valutazione che assume differenti connotati se condotta sul piano strettamente giuridico – formale, ovvero se proiettata su quello latamente sostanziale della critica politica.

Muovendo dalla considerazione, inopinatamente rilanciata da alcuni organi di stampa, in forza della quale il Capo dello Stato si sarebbe “opposto alla sovranità popolare”, impedendo la formazione del governo “votato dagli elettori”, non si può non segnalare come, anche a causa di una legge elettorale caratterizzata da molteplici dubbi di legittimità costituzionale, le elezioni del 4 marzo non abbiano determinato un vincitore, generando un Parlamento di fatto parcellizzato in tre minoranze, e dunque non in grado di esprimere (a differenza di quanto accaduto, ad esempio, nel 2006 e nel 2008) una maggioranza riconducibile ad uno schieramento politico ben definito.

I due partiti che hanno ottenuto il maggior numero di consensi (pur presentandosi in aperta contrapposizione tra loro al giudizio delle urne) hanno faticosamente avviato un dialogo orientato alla costruzione di un accordo politico - programmatico, cristallizzato nel “contratto per il governo di cambiamento”. Proprio il riferimento al “contratto” propone a sua volta due spunti di riflessione: da un lato, esso infatti evoca un vincolo giuridico logicamente incompatibile con un accordo di governo, basato esclusivamente su una comune visione di Paese ispirata all’attuazione dell’interesse generale. D’altro lato, individuandosi nel contratto lo strumento giuridico privilegiato di esercizio dell’autonomia privata, da tale riferimento traspare una concezione appunto “privata” e “proprietaria” delle istituzioni, una sorta di equazione (più volte applicata imperante Berlusconi) tra il consenso elettorale e l’insensibilità alle regole che governano la dialettica tra poteri dello Stato. Una logica proprietaria che ha indotto un partito di minoranza (rappresentativo del 17% dei voti espressi in occasione dell’ultima competizione elettorale) a imporre la nomina di un ministro al Capo dello Stato; una logica proprietaria alla quale il Presidente della Repubblica, nell’esercizio del suo ruolo di supremo garante degli equilibri costituzionali, aveva non solo il diritto, ma financo il dovere di opporsi.

Queste considerazioni costituiscono, si diceva, il presupposto necessario per interpretare correttamente l’art. 92 Cost., nella parte in cui esso assegna al Presidente della Repubblica il potere di nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri, e, su proposta di questi, i singoli Ministri. Nell’ermeneusi di tale norma, gli studiosi sono divisi tra quanti considerano la proposta del Presidente del Consiglio vincolante per il Capo dello Stato (riducendo di fatto la nomina dei membri del governo ad un atto solo formalmente presidenziale), e quanti viceversa descrivono la nomina dei Ministri alla stregua di un atto “complesso”, e dunque prodotto dalla concertazione tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio.
La prassi istituzionale ha favorito questa seconda lettura, assegnando alle determinazioni del Capo dello Stato un’incidenza talvolta molto netta in ordine alla formazione dell’Esecutivo: lettura peraltro supportata anche dal rilievo in forza del quale i vari progetti di riforma della Carta Fondamentale precedenti quello oggetto del referendum costituzionale del 2016 contemplavano proprio l’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di nomina dei singoli ministri, attribuzione che gli risulta dunque preclusa nell’assetto istituzionale vigente.
In questa prospettiva, la scelta del Presidente di non accogliere la proposta di nomina di un Ministro deve considerarsi pacificamente riconducibile ai poteri ad esso assegnati dalla Carta Fondamentale: non sfugge inoltre ad un’analisi obiettiva dei fatti che il mancato insediamento dell’Esecutivo presieduto dal Prof. Conte non è dipeso dal rifiuto del Capo dello Stato di procedere alla nomina del Governo, ma dal rifiuto di un partito di maggioranza, riconducibile alla logica proprietaria di cui sopra, di accogliere le indicazioni del Capo dello Stato rimanendo ferma nella propria imposizione.

Il discorso si sposta sulle ragioni individuate a sostegno della scelta del Presidente, apparse più ispirate a esigenze di politica generale che a motivazioni di stretto diritto. Nell’esercizio del suo potere di nomina dei ministri, il Capo dello Stato deve infatti trovare la sua stella polare nei principi della Costituzione: e in questo senso, più del generico richiamo alla tutela del risparmio ed alla necessità di rassicurare gli operatori economici internazionali, maggiore incidenza avrebbe assunto il riferimento agli artt. 11 e 47 della Carta, oltre che al principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato a cui si ispirano numerose pronunce della Corte Costituzionale.

Posto infatti che l’art. 11 valorizza le limitazioni di sovranità necessarie alla costruzione di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia fra le Nazioni, e che i trattati istitutivi dell’Unione Europea e dell’Euro trovano proprio nella disposizione da ultimo richiamata il loro fondamento costituzionale, le posizioni di un tecnico che mettono in discussione tali limitazioni di sovranità potrebbero collocarsi al di fuori del perimetro costituzionale, giustificando così la sua mancata nomina a un dicastero centrale nella costruzione dell’Esecutivo. Del pari, tutelando l’art. 47 Cost. il risparmio in ogni sua forma, al di fuori del perimetro costituzionale si porrebbe un ministro promotore di una politica economica potenzialmente contrastante con tale esigenza riconosciuta dalla Carta Fondamentale. Infine, se il Presidente della Repubblica, nella presente congiuntura politica, ha offerto alle forze presenti in Parlamento il più ampio margine possibile nella ricerca di un’intesa volta alla formazione di una maggioranza di governo, le imposizioni a cui ho precedentemente fatto cenno risultano antitetiche rispetto a quel principio di leale collaborazione che, nella prospettazione della Consulta, deve costantemente ispirare i rapporti tra poteri dello Stato.

Rivolgendo ora la valutazione dal piano giuridico – formale a quello più marcatamente politico, i rilievi appena proposti sembrano però vertere non tanto sulla posizione di un singolo ministro, quanto sul programma complessivo di cui quel ministro è espressione, inopinatamente cristallizzato nel “contratto per il governo di cambiamento” a cui si è in precedenza fatto cenno. Se questo è vero, più che limitarsi a non accogliere la proposta del Presidente del Consiglio incaricato relativa alla nomina del ministro, il Presidente della Repubblica avrebbe allora dovuto manifestare questi rilievi in sede di conferimento dell’incarico, rifiutando il conferimento di detto incarico al rappresentante di una maggioranza portatrice di un programma di governo caratterizzato da molteplici dubbi di legittimità costituzionale.

Inoltre - dinanzi alla fase di stallo in cui al momento versano le istituzioni, una volta esaurita la seconda fase delle consultazioni con il conferimento del “mandato esplorativo” ai Presidenti di Camera e Senato, e prendendo atto della difficoltà delle forze politiche di dare vita ad una maggioranza parlamentare degna di tale nome -,  è lecito domandarsi se non sarebbe stato preferibile per il Capo dello Stato procedere direttamente allo scioglimento delle Camere e restituire così la parola agli elettori, declinando una soluzione che avrebbe portato ad un radicale superamento della crisi istituzionale in atto, piuttosto che favorirne l’ulteriore aggravamento.

Carlo Dore jr.