La scena domina ormai da giorni le pagine social dei principali quotidiani
europei: Matteo Salvini in maniche di camicia che, livido in volto, declina la
sua legge a beneficio di like e tweet. Carola Rackete, la temeraria comandante della
Sea Watch 3, è una criminale: e pazienza se l’ordinanza del GIP non ha disposto
la convalida del fermo ravvisando le scriminanti dell’adempimento del dovere e
dello stato di necessità con riferimento alla condotta diretta a condurre la
nave – con il suo sanguinante carico di carne e disperazione – al sicuro nel
porto di Lampedusa. I giudici che applicano la legge in maniera non coerente
con i desiderata del potere politico sono appunto degli avversari politici del
potere; i giudici che non applicano la legge del Capitano dovrebbero dismettere
la toga e farsi eleggere in Parlamento. La separazione dei poteri non è
materiale da tweet, le letture di Montesquieu non appartengono al bagaglio
culturale del popolo del like: noi questa giustizia la cambiamo, perché un
giudice non può opporsi alla maggioranza degli Italiani, non può contravvenire
a quella che, post dopo post, viene di fatto percepita come la legge del
Capitano.
L’osservatore
mediamente attento si sente pervaso da una fastidiosa sensazione di già visto,
avviluppato da una canzone troppe volte ascoltata negli ultimi vent’anni:
quella dell’insofferenza verso una giustizia che proclama la sua indipendenza
dal potere politico; quella che vagheggia un sistema penale draconiano nei
confronti della criminalità stracciona e sostanzialmente indifferente alle
malversazioni dei colletti bianchi; quella dell’arbitraria sovrapposizione tra
diritto e consenso, cristallizzata nel ritornello: “chi vince comanda; chi
comanda decide”. Nulla di nuovo sotto il sole: Salvini veste di dimensione
social i vecchi videomessaggi di Berlusconi; il Capitano, in fin dei conti, ha
solo inglobato quel che resta del decadente Cavaliere.
Eppure
in quel volto livido, che si offre deformato alla videocamera di un cellulare,
c’è qualcosa di più e di diverso, capace di generare un’inquietudine più
profonda dell’indignazione collegata alle invettive contro le toghe rosse dal
Vangelo secondo Silvio. Quel qualcosa in più è l’odio, inoculato in dosi da
cavallo nelle vene del popolo dei social, che disprezza il corpo dell’immigrato
e invoca a voce piena lo stupro della Capitana. L’odio, che trasforma la
normale dialettica processuale in un assurdo derby tra patrioti e disfattisti;
l’odio, che impone di “andare a prendere a casa” il giudice a cui si rimprovera
un’interpretazione delle norme non gradita a chi comanda; l’odio, che assegna a
un anonimo cittadino lampedusano le fattezze della belva assetata di sangue.
L’odio verso un nemico che non esiste, dipendente dalla necessità di difendere confini
non minacciati; l’odio verso lo straniero, innervato dal grido “prima gli
Italiani!”; l’odio verso chi dissente, subito bollato come traditore; l’odio
verso l’Europa, la Magistratura, le istituzioni di garanzia, percepite come un
inutile freno alla ubris della
maggioranza politica contingente.
Ecco
allora che dietro quel volto livido e deformato inizia a rimbombare l’eco di
una domanda, destinata a tormentare l’osservatore mediamente attento più degli
oplites dei social: che Paese sta diventando, quello in cui l’odio di cui sopra
arriva a mettere in discussione, oltre alle regole fondamentali del sistema
democratico, gli stessi principi del vivere civile? Che Paese sta diventando,
quello in cui la razionale applicazione delle leggi si perde nel brutale
clamore della rissa da stadio? Che Paese sta diventando, quello che pretende di
reggersi unicamente sulla legge del Capitano?
Carlo
Dore jr.