martedì, luglio 18, 2006


GENOVA, CINQUE ANNI DOPO
-20 luglio 2001: ricordo di un giorno di ordinaria follia-


La storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi è caratterizzata da una molteplicità di misteri destinati a rimanere insoluti: sono misteri inquietanti e terribili, animati da aerei improvvisamente esplosi in volo, banchieri deceduti a seguito di suicidi acrobatici, stragi rosse e stragi nere, magistrati vittime di brutali attentati, politici corrotti, poliziotti collegati ad occulti centri di potere, anarchici distratti accidentalmente volati da una finestra, persone comuni uccise in inspiegabili incidenti.
Ma tutte queste storie sono contraddistinte da un sinistro minimo comune denominatore: su di esse è calata, cupa ed implacabile, la macabra cortina d’oblio del politicamente corretto, della verità bipartizan, della diffusa consapevolezza che l’approfondita analisi di determinate vicende potrebbe portare alla luce verità incompatibili con la necessità di garantire il sereno funzionamento delle istituzioni democratiche. In questo senso, i “fatti di Genova” di cinque anni fa possono essere qualificati come l’ultimo grande mistero d’Italia.
L’estate del 2001 ricorda molto (dal punto di vista climatico) quella che stiamo vivendo attualmente, con le città attanagliate da un caldo secco ed opprimente: a rendere ancor più infuocate quelle giornate di luglio contribuiva peraltro l’insediamento di un Governo chiaramente intenzionato a dare agli oppositori una prima, inequivocabile dimostrazione di forza. L’occasione si presentò proprio con riferimento alle manifestazioni programmate a Genova in occasione del G8: un fiume di gente si preparava ad invadere le strade blindate del capoluogo ligure, abbacinato dall’idea di un mondo non più governato dalle consuete oligarchie.
Ma mentre il corteo procedeva, pacifico e chiassoso, una serie di piccoli gruppi di devastatori organizzati (tristemente noti come black blockers) iniziò a mettere a ferro e fuoco il centro cittadino: la reazione delle forze dell’ordine (che per lunghe ore erano rimaste inerti di fronte all’imperversare delle tute nere) si abbattè con improvvisa, scomposta ed ingiustificata violenza anche sulla componente pacifica della manifestazione, con la folla sgomenta squarciata dalle ripetute cariche dei blindati.
Ad interrompere per un lunghissimo istante quel turbine di grida, sassi e manganelli fu il rumore secco e metallico di un colpo di pistola: e quando i grandi della politica iniziavano a negoziare i futuri assetti del Pianeta, il sangue di Carlo Giuliani (vittima ma non martire di quei giorni di ordinaria follia) già si spandeva sul cemento arroventato di Piazza Alimonda.
Gli altri episodi che scandirono l’evolversi delle vicende oggetto di questa riflessione sono tristemente noti a tutti: la precostituzione di false prove, le torture praticate in confronto di individui inermi rei di avere esercitato un loro diritto costituzionalmente garantito spinsero la metà del Paese a gridare sdegno, odio e furore per rispondere all’ululato delle sirene che si elevava costante dal porto di Genova.
Ma, a distanza di cinque anni, la cortina d’oblio cui si è in precedenza fatto riferimento tende a calare ancora una volta su queste tristi vicende: forti dell’appoggio degli squadristi della Nuova Destra, impegnati allo spasimo nella difesa incondizionata del prestigio delle forze dell’ordine, alcuni dei funzionari responsabili degli avvenimenti appena descritti sono stati addirittura promossi a più alti gradi del corpo di riferimento, mentre il processo che vede imputati i carabinieri responsabili dell’irruzione alla scuola Diaz sembra destinato ad arenarsi nelle secche della prescrizione.
Tuttavia, in quanti non riescono a dimenticare le immagini di quelle giornate del luglio 2001, sopravvive il sospetto che essi fossero i meri esecutori di un disegno politico diretto a criminalizzare un movimento capace di costituire una voce di opposizione forte ed incessante nei confronti di un determinato status quo. E’un sospetto che emerge dai fotogrammi di documentari e reportage, che traspare dai libri e dagli articoli dedicati ai fatti che caratterizzarono il G8 del 2001: dinanzi all’incombere di un ennesimo mistero di Stato, la forza della memoria costituisce il migliore strumento per affermare il desiderio di verità.

Carlo Dore jr.

domenica, luglio 02, 2006


PARTITO DEMOCRATICO: LE RAGIONI DEL “NO”


In coincidenza con le prime tensioni manifestatesi nella maggioranza di governo in ordine ad alcune scelte assunte dall’Esecutivo in materia di politica estera e di strategia economica, il problema relativo alla collocazione del futuro partito democratico torna prepotentemente al centro del dibattito in corso all’interno della sinistra italiana.
Mentre Gavino Angius ha rilevato la gestione “eccessivamente oligarchica” dei principali momenti in base ai quali è stata scandita la transizione verso il nuovo soggetto politico, il leaders del Correntone Salvi e Mussi non hanno esitato a prospettare l’eventualità di una scissione qualora la suddetta fase di transizione non venga resa oggetto di un aperto confronto in sede congressuale.
Le preoccupazioni manifestate dalla componente più radicale dei DS non sono state però recepite dal Presidente della Provincia di Cagliari Graziano Milia, il quale, fedele al ruolo di moderato riformista che ormai lo contraddistingue, ha recentemente ribadito l’impegno del centro-sinistra sardo per l’attuazione del disegno volto a determinare la tanto sospirata fusione tra la Margherita e la Quercia.
Orbene, proprio i concetti di oligarchia e di progetto politico rappresentano, a mio modesto avviso, i cardini su cui risulta impostato il dibattito a cui si è fatto inizialmente riferimento. Da un punto di vista strettamente ideologico, molteplici sono i fattori che alimentano le perplessità relative alla realizzazione del progetto del partito democratico: in primo luogo, non si comprende infatti su quale base è possibile impostare la coesistenza, all’interno di una formazione unitaria, tra soggetti che sono espressione di realtà a tal punto distanti da rendere problematica persino la quotidiana stabilità di una semplice coalizione.
In secondo luogo, considerato che la guida del nuovo partito verrà fatalmente assunta da esponenti riconducibili all’ala moderata del centro-sinistra attuale, non si può non rilevare come l’operazione che si esamina priverebbe la politica italiana di un movimento saldamente ancorato ai principi del socialismo europeo, in grado di farsi portatore (con riferimento ai grandi temi della giustizia, della pace, del lavoro, della laicità dello Stato, dell’istruzione e della ricerca scientifica) delle istanze costantemente proposte da quell’ampia fascia di elettorato che, pur non identificandosi nelle degenerazioni estremiste proprie di alcune frange di Rifondazione Comunista, continua a riconoscersi nei valori della sinistra tradizionale.
Resa in questi termini palese l’assoluta mancanza di logica che caratterizza il disegno unitario perseguito con tanta ostinazione dai vertici diessini, la perdita di consensi subita dalla Quercia negli ultimi dieci anni sembra confermare la tendenza dei militanti non collegati ad alcun centro di potere a prendere le distanze dalla più volte descritta deriva moderata in cui il Partito sembra ormai irreversibilmente coinvolto.
Ma è proprio alla luce di quest’ultimo dato che il concetto di oligarchia riemerge in tutta la sua prepotente evidenza: l’idea del superamento dell’identità socialista, della creazione di un nuovo partito di chiara estrazione moderata sembra essere lo strumento perfetto per giustificare l’adesione ad una linea politica che si rivela ogni giorno sempre più lontana da quelli che sono i principi di solidarietà, rigore e giustizia sociale a cui la Sinistra da sempre si ispira.
Derivando da una serie di valutazioni assunte nel segreto delle tanto vagheggiate stanze del potere, il Partito Democratico è destinato ad abbattersi sul popolo progressista come una valanga: spetta ora alla base l’onere di prendere le distanze da una strategia che sembra allontanare in via definitiva la struttura dei DS dal popolo che la sostiene. Messi di fronte ad una scelta che rischia di determinare il venire meno del principale partito della sinistra italiana, i militanti hanno infatti il dovere di ribadire ancora una volta che l’identità socialista ed i valori su cui essa di fonda non possono costituire oggetto discussione.

Carlo Dore jr.