domenica, gennaio 31, 2010


LA ROAD TO PERDITION DEL PARTITO CHE NON SA DECIDERE

In una delle ultime “mappe” tracciate da Ilvo Diamanti per “La Repubblica”, veniva evidenziato come il PD ha finito col disperdere, negli ultimi tre mesi, il piccolo ma incoraggiante patrimonio di consensi che l’ascesa di Bersani alla guida del Partito aveva alimentato in seno all’elettorato progressista.
Posto che questa valutazione è stata formulata prima che sul gruppo dirigente democratico si abbattessero sia il ciclone – Vendola sia le dimissioni del sindaco di Bologna Flavio Del Bono, le elezioni regionali in programma la prossima primavera si presentano già come una prova senza appello per il segretario in carica, diviso tra le difficoltà connesse all’individuazione di alcune candidature e le turbolenze della minoranza interna la quale – evidentemente esaltata dalla prospettiva di una sorta di campagna congressuale permanente – affila le armi, confidando in un rapido redde rationem.
Tuttavia, mentre Vendola trionfa e Del Bono si dimette, mentre Veltroni esulta, D’Alema polemizza, Franceschini tace, Marino osserva, Civati scrive, la Bonino si candida, Chiamparino protesta e Violante dialoga, i democratici marciano a capo chino lungo la road to perdition dell’ennesima sconfitta annunciata, la road to perdition di un partito che – sempre secondo Diamanti – ha smarrito di nuovo la propria capacità di infondere speranza ed entusiasmo nei suoi sempre più disillusi elettori: la road to perdition di un partito che non sa decidere.
Politico esperto, concreto e preparato, lontano anni-luce dall’american style proprio del PD del Lingotto, Bersani ha ricevuto tanto dagli iscritti quanto dai militanti una delega ampia finalizzata al conseguimento di un obiettivo preciso: archiviare una volta per sempre il ma-anchismo e la politica lieve; superare il dogma del partito liquido e della vocazione maggioritaria per favorire il ritorno al modello tradizionale del partito strutturato, in grado di costituire il cardine di una larga coalizione di centro-sinistra, costruita sul modello del grande Ulivo teorizzato da Prodi nel 1996.
Ebbene, finora il segretario ha utilizzato la forte leadership di cui è investito in maniera troppo prudente e forse poco incisiva, apparendo più proteso a fungere da camera di compensazione tra le varie correnti che attraversano il Nazareno che impegnato ad imprimere al partito la svolta progressista promessa durante la campagna per le primarie.
Questa incessante “ricerca dell’equilibrio” si è tradotta in una strategia politica incerta che gli elettori faticano a comprendere o, come nel caso della Puglia, tendono a rifiutare, dimostrando di recepire maggiormente i messaggi (forse non raffinati, ma) più netti e decisi trasmessi ora da Vendola, ora da Di Pietro. L’incertezza a cui ho appena fatto cenno riverbera tanto sulle scelte interne alla struttura del partito – il dibattito sull’uso delle primarie imporrebbe infatti una decisione definitiva sulle modalità di selezione dei candidati -, quanto sulla determinazione del tipo di opposizione da contrapporre allo strapotere berlusconiano, con il PD eternamente sospeso tra il badile dell’intransigenza verso le leggi-vergogna e la disponibilità ad un pericolosissimo dialogo su ancora non ben definite “riforme di sistema” con una destra che non perde occasione per manifestare quotidianamente la sua vocazione a-costituzionale.
In conclusione: per superare il clima da congresso permanente a cui la minoranza interna aspira, per scongiurare il pericolo dell’ennesimo redde rationem, per interrompere la road to perdition verso l’ennesima Waterloo dei progressisti italiani, Bersani deve usare il mandato di cui è titolare per costruire il PD che ha in mente, anche a costo di assumere qualche scelta dolorosa, di scontentare qualche potentato locale, di vincere qualche resistenza, di sopportare qualche altra nano-scissione.
In altre parole, Bersani deve iniziare a decidere, a proporre agli elettori un modello di partito chiaro, caratterizzato da un programma politico coerente verso cui la base possa scegliere se manifestare approvazione o diniego. L’elaborazione di una proposta politica non fondata su compromessi ed equilibrismi è il primo passo per procedere nell’attuazione della tanto invocata alternativa al dominio del centro-destra, il primo passo per invertire la road to perdition del partito che non sa decidere.

Carlo Dore jr.

domenica, gennaio 10, 2010



CRAXI, BERLINGUER E IL “PANTHEON DELLA MEMORIA”

La proposta del Sindaco di Milano Letizia Moratti di intitolare una strada a Bettino Craxi ha contribuito a riaccendere, in seno all’opinione pubblica, il dibattito sulla figura dell’ex segretario socialista e sull'opportunità di procedere ad una “revisione” di alcune fasi della stagione politica in cui egli si trovò ad operare.
La posizione di quanti affermano la necessità di “riabilitare” la figura di Craxi, di scindere l'analisi politica dalle vicende giudiziarie, di riconoscerne il ruolo di leader indiscusso di una pretesa “sinistra moderna” si colloca in verità nella più generale ed italianissima tendenza a riscrivere la storia, nel tentativo di sovrapporne artificiosamente le pagine così da trasformare i colpevoli in innocenti, gli sconfitti in vincitori, gli eroi in carnefici, i corruttori in benefattori, i corrotti in integerrimi difensori dell'ordinamento democratico.
Al fine di eludere questa strana tendenza, si deve in primo luogo osservare come ogni analisi relativa alla figura dell'ex Presidente del Consiglio non può che muovere dalle due sentenze aventi l'efficacia del giudicato, mediante cui dei giudici terzi ed imparziali lo hanno condannato ad una pena complessiva di quasi dieci anni di reclusione. Posto dunque che i risultati delle indagini di quegli stessi Pubblici Ministeri di cui oggi si critica duramente l'operato – lungi dall'esaurirsi in un mero teorema ordito in danno di una classe dirigente illuminata da un manipolo di toghe militanti - hanno trovato ampi riscontri in sede dibattimentale, l'operazione (di chiara matrice berlusconiana) volta a gettare un'ombra sulle inchieste del Pool di Mani Pulite appare per certi versi poco obiettiva, per altri tremendamente pericolosa.
Poco obiettiva, in quanto riduce alla semplice condizione di “braccio armato” della sinistra post-comunista un gruppo di magistrati dimostratisi in grado di svolgere, a prescindere dalla particolare condizione degli indagati, le loro funzioni con l'indipendenza e l'autonomia richieste dalla Carta Fondamentale. Pericolosa, perché mira ad occultare sotto il fuoco della polemica politica il quadro complessivo che emerge dalle indagini della Procura milanese.
Testimonianza dopo testimonianza, perquisizione dopo perquisizione, verbale dopo verbale, il Pool di Borrelli e D'Ambrosio giunse a disvelare l'esistenza di un sistema di corruzione istituzionalizzata talmente da radicato nel Paese da diventare il volano stesso di parte della nostra economia; un sistema in cui risultavano coinvolti politici troppo disinvolti, imprenditori senza scrupoli, manager con patrimoni a dodici zeri, faccendieri, nani e ballerine oggi riciclatisi in massima parte sotto le insegne del “Partito dell'amore”. Di questo sistema tutte le forze del pentapartito (imperniato sull'asse Craxi – Andreotti – Forlani) erano parte integrante; a questo sistema il PCI di Berlinguer tentò strenuamente di opporsi, rilanciando la cultura della diversità che doveva caratterizzare la sinistra della questione morale rispetto ai protagonisti della Milano da bere.
Eppure, sotto il confuso cielo della politica deideologizzata che accompagna l'aurora del nuovo millennio, sono in tanti, anche nell'area democratica, a voler riscrivere questa strana storia, riscattandola dalle tenebre della Notte della Repubblica: Tangentopoli non è mai esistita, o se è esistita, rappresenta una stagione di furore giustizialista da dimenticare in fretta, in nome di una rinnovata concordia nazionale; Craxi era il geniale precursore della moderna socialdemocrazia, Berlinguer un grigio moralista votato all'eterna sconfitta; nel pantheon del PD, messo insieme nel 2007 da Veltroni e Fassino attraverso criteri di selezione quantomeno rivedibili, c'è posto per Bettino, non per Enrico.
Ma sempre, nell'area democratica, sono in tanti a credere nella forza della memoria, a continuare a mettere in fila i fatti per cercare di non perdere di vista il filo rosso che li tiene uniti, a rinnegare il revisionismo per poter ancora gridare, con le parole del poeta delle “Ceneri di Gramsci”, che loro sanno.
Sanno cosa è stata Tangentopoli, e cosa i giudici hanno accertato a seguito delle inchieste dei PM di Mani Pulite; sanno che Craxi non è un esule, e che Berlinguer non è uno sconfitto; sanno emozionarsi al ricordo della sinistra della questione morale, e sanno indignarsi di fronte alla degradazione di partiti dal passato glorioso alla triste condizione di macchine di potere, rimarcata dalla furia di una pioggia di monetine nel freddo di una notte di gennaio. Sanno che, nel loro personale Pantheon, tra Turati e i fratelli Rosselli, tra Gramsci e Pertini, Nenni e Amendola, c'è posto per Enrico e non per Bettino.
Sanno che la forza della memoria può superare la tendenza a “revisionare”, “rivedere”, “riscrivere”, “riabilitare”; sanno che dalla forza della memoria può sempre provenire un barlume di speranza: anche per questa povera sinistra, anche in questa povera Italia.

Carlo Dore jr.