venerdì, maggio 22, 2009


IL PAESE CHE HA PERSO LA CAPACITA’ DI INDIGNARSI


Solo pochi mesi or sono, il premier israeliano Olmert, implicato in un’inchiesta giudiziaria relativa ad alcuni presunti finanziamenti illeciti percepiti dal suo partito, ha rassegnato immediatamente le dimissioni, dichiarandosi fiero di rappresentare un Paese in cui anche un leader politico di primo piano può essere sottoposto ad indagini alla stregua di un qualsiasi cittadino.
Di certo, il ricordo di questa vicenda non ha nemmeno sfiorato la mente di Silvio Berlusconi mentre, dinanzi alla platea degli industriali, si produceva nell’ennesimo rabbioso ed un po’ sconclusionato monologo volto a contestare le motivazioni della sentenza attraverso cui il Tribunale di Milano ha condannato l’avvocato inglese David Mills, accusato di avere reso, dietro compenso, falsa testimonianza in alcuni dei processi in cui lo stesso Presidente del Consiglio risultava imputato.
Noncurante dello sconcerto di tutta la stampa internazionale, il Cavaliere non ha esitato a dare fondo al suo repertorio di integralista del pensiero unico, forte del consenso della componente più radicale del capitalismo italiano: accuse alle “toghe politicizzate”, colpevoli di utilizzare la clava giudiziaria nel vano tentativo di minare la sua popolarità sempre crescente; accuse a Nicoletta Gandus, il Presidente del collegio milanese che ha pronunciato la sentenza di cui sopra, da sempre descritta come una fanatica oppositrice dell’Esecutivo; accuse alla stampa indipendente, che rifiuta di rassegnarsi al ruolo di mera cassa di risonanza per i proclami del Capo; accuse alla pallidissima opposizione democratica, rea di avere semplicemente chiesto al Premier di sottoporsi a processo, rinunziando all’immunità confezionatagli su misura dal provvidenziale Lodo Alfano; accuse al Parlamento, organo “inutile e pletorico” che paralizza la governabilità del Paese.
Ora, sospendendo ogni giudizio sulla immancabile sequenza di invettive contro la “giustizia ad orologeria” offerta all’opinione pubblica dalla consueta ronda di avvocati – parlamentari in quota PDL, le ultime performance verbali del Presidente del Consiglio non possono che destare preoccupazione ed inquietudine circa lo stato di una democrazia i cui principi fondamentali vengono messi quotidianamente in discussione.
Sotto un primo profilo, dalle parole di Berlusconi traspare la profonda convinzione che l’investitura popolare possa essere di per sé sufficiente a sottrarre il soggetto titolare di una carica istituzionale dall’applicazione di qualsiasi regola o controllo, la concezione del potere politico non come “funzionalizzato” al perseguimento dell’interesse generale, ma come strumentale all’esaltazione della volontà del princeps ed alla legittimazione del più colossale conflitto di interessi configurabile nel Mondo occidentale.
Ma c’è di più: l’ossessiva riproposizione dell’adagio “gli Italiani sono con me!” non rappresenta il mero prodotto della vocazione alla grandeur di un leader incapace di interpretare il proprio ruolo con rigore e sobrietà. No, essa si fonda sulla tristemente esatta constatazione del fatto che la cultura berlusconiana ha a tal punto contaminato il Paese da far apparire, agli occhi della maggioranza dei cittadini, la costante compenetrazione tra potere politico e interessi privati, il continuo svilimento del ruolo delle istituzioni di garanzia, l’esaltazione dell’efficientismo dell’Uomo solo al comando non come minacciosi segnali dell’esistenza di una deriva autoritaria, ma come fisiologiche variabili intrinseche al corretto funzionamento della dialettica democratica. In altre parole, il consenso stratosferico di cui il Premier si dichiara portatore trae vita proprio dal fatto che il Paese sta perdendo, giorno dopo giorno, la propria capacità di indignarsi, giungendo a considerare il Lodo Alfano come la normalità e le dimissioni di Olmert come una inconcepibile anomalia imposta dall’imperversare di qualche toga militante.
Ancora non sappiamo se il Presidente del Consiglio si recherà in Parlamento per riferire “su ciò che pensa di certa magistratura”. Di certo, nell’aula di Montecitorio non risuonerà quella parola (“dimissioni”), che apparirebbe come un atto dovuto per qualsiasi leader dell’Occidente democratico coinvolto in una inchiesta giudiziaria delle proporzioni di quella su cui si è appena pronunciato il Tribunale di Milano. Ma, d’altro canto, le dimissioni di un Premier “troppo impegnato a governare per potersi occupare dei processi” sarebbero poco compatibili con le logiche di un Paese che ha ormai rinunciato alla propria capacità di indignarsi.

Carlo Dore jr.

venerdì, maggio 01, 2009


IL REGIME DEL “GRANDE FRATELLO”:
CHE PAESE STIAMO DIVENTANDO?

Se qualche opinionista votato all’autolesionismo avesse avuto cura di esaminare le pagine de “Il Giornale” e di “Libero” degli ultimi tre giorni - magari dopo avere consultato quei blog dove le peggiori pulsioni dell’elettorato berlusconiano trovano libero sfogo – avrebbe facilmente compreso che le polemiche innescate dalle dichiarazioni al vetriolo di Veronica Lario sulla “Vallettopoli” del marito Presidente non possono essere semplicemente liquidate come la solita bufera familiare innescata dalla consorte piccata di un politico dai modi genuinamente disinvolti.
Il leitmotiv che traspare da quelle pagine è più o meno il seguente: non disturbate il Premier con questioncine di basso profilo. Lui risolve i problemi del Paese col sorriso, e pazienza se i suoi modi spicci e chiassosi lasciano a bocca aperta persino la Regina di Inghilterra; se promuove attrici, veline o letterine varie al rango di Ministro o di sottosegretario, se pensa di imporre, insieme al sempreverde Mastella, la cantante di Villa Certosa come parlamentare europeo; se decide di spostare il G8 da La Maddalena a L’Aquila come se si trattasse della sua festa privata. Agli Italiani lui piace così, quindi chi se la prende con il Presidente se la prende con la maggioranza degli Italiani.
Tuttavia, mentre l’organizzazione internazionale Freedom House ha retrocesso l’Italia al rango di “paese potenzialmente libero”, l’intera vicenda sopra richiamata impone la formulazione di una domanda, già rilanciata da Curzio Maltese attraverso le colonne di “Repubblica”: che Paese stiamo diventando?
La risposta a questo interrogativo può essere rinvenuta proprio nell’indagine della Freedom House: stiamo diventando un Paese non totalmente libero ma solo “potenzialmente” libero, un Paese del tutto appiattito sulla figura del Capo, che vive, discute, si divide e si unisce esclusivamente in funzione delle vicende che il Capo decide di dare in pasto all’opinione pubblica. Insomma, siamo tutti spettatori non paganti di un continuo reality show ambientato tra Arcore e Palazzo Grazioli, monopolizzati da quello che potremmo definire come una sorta di “regime del Grande Fratello”.
Questa affermazione non costituisce l’ennesimo prodotto dell’antiberlusconismo militante: al contrario, trova conferma in una serie di circostanze obiettive. Ad esempio: mezza Italia si commuove per il fatto che il Premier, per la prima volta dopo quattordici anni, si è deciso a celebrare la festa del 25 aprile, senza attribuire rilievo al fatto che l’azione dell’attuale maggioranza di governo risulta costantemente orientata al superamento dei principi di quella Carta Costituzionale che della Resistenza e della Liberazione rappresenta appieno i valori.
Ancora: il Premier tuona contro quei (pochi, in verità) esponenti dell’opposizione che si permettono di criticare i criteri alla luce dei quali vengono completate le liste del partito di maggioranza - magnifica combinazione tra sorrisi da copertina e vecchi professionisti della politica in servizio permanente effettivo -, invitandoli, con l’eleganza propria dello statista consumato, a pensare a quei “parlamentari antiestetici e maleodoranti” che talvolta occupano i banchi a sinistra dell’Emiciclo.
Infine, maggioranza e minoranza applaudono alla decisione unilateralmente assunta dal Presidente di portare il G8 lontano dalla Sardegna, nel silenzio assordante di un’Amministrazione regionale che – eletta pochi mesi fa proprio grazie alla contiguità politica rispetto al “governo amico” – accetta ora che venga inflitto un colpo mortale alle aspirazioni di crescita di una terra in difficoltà.
Ma se un Paese rinuncia alla propria coscienza critica, alla propria vocazione democratica, alla propria capacità di autodeterminazione, allora di quel Paese cosa resta? Resta il sultanato del Presidente, debitamente corredato dal tremebondo circo di veline, politici di professione e vari yes-man di cui le dichiarazioni di una first lady prossima alla pensione hanno solo confermato l’esistenza. Restano le pulsioni autoritarie, le ostentazioni di efficientismo e le battute sparate a reti unificate per intrattenere i protagonisti dei vertici internazionali. Resta la profonda tristezza di chi, fedele ai valori democratici consacrati nella Costituzione nata dalla lotta al fascismo, assiste impotente alla lenta deriva del sistema Italia verso il regime del Grande Fratello.

Carlo Dore jr.