sabato, agosto 31, 2013

BERLINGUER NON ERA TRISTE Marina Addis Saba – Aliberti Editore, Roma, 2013 – pp. 88

Berlinguer non era triste: in ottantotto pagine scandite da una scrittura limpida e scorrevole, Marina Addis Saba (già Docente di Storia contemporanea nell’Università di Sassari) propone uno spaccato autentico della dimensione umana di quello che, a quasi trent’anni dalla sua improvvisa scomparsa, i progressisti italiani ancora considerano come il loro  leader di riferimento. Sono appunti di viaggio, quelli della Addis: gli appunti di un viaggio alla scoperta di una personalità complessa nella sua struggente semplicità; di un viaggio condotto al fianco di un uomo capace di affrontare i passaggi decisivi della storia recente con la stessa folle determinazione con cui sfidava le onde del golfo dell’Asinara.

Berlinguer non era triste: non era triste nelle partite di calcio disputate tra le piazze di Sassari, e non era durante le lunghe passeggiate per le strade di Roma; non era triste nelle lunghe estati spese accanto al mare di Stintino, e non lo era quando Paolo Sylos Labini iniziava a suggerire le parole destinate a cambiare per sempre la storia della sinistra, a rappresentare i caratteri di quell’endemica “diversità comunista” di cui il fango Tangentopoli ha in effetti confermato l’esistenza: “questione morale”.

Berlinguer non era triste: era un uomo curioso, silenzioso ed introspettivo, che non rinunciava mai a navigare verso il futuro. Ascoltava le ragioni di quei settori del mondo femminile che si opponevano al compromesso storico (rimarcando le incolmabili distanze culturali in essere tra la modernità delle donne progressiste e il conservatorismo delle donne cattoliche) con la stessa attenzione con cui tentava di comprendere il disagio delle realtà giovanili che non si riconoscevano nella strategia del PCI; rappresentava lo sgomento dei comunisti dinanzi al brutale assassinio di Aldo Moro, ma respingeva ogni accusa di collateralismo tra il PCI ed i gruppi dell’estremismo brigatista mosse da quanti attendevano dai comunisti un ripensamento sul loro modo di interpretare la sinistra. “Non si rinnega la storia: né la propria , né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità”. Aperto e orgoglioso, disponibile rigoroso: questo era Berlinguer, e non era triste.

No, Berlinguer non era triste: attraverso il suo ricordo del Segretario, la Addis finisce indirettamente col proporre una spietata denuncia dei limiti della politica personalizzata che sta segnando il lungo inverno della Seconda Repubblica, col rilevare la malcelata debolezza che contraddistingue ogni forma di leadership individuale, ora fondata sull’arroganza del potere economico, ora sulla retorica giovanilista del rinnovamento fine a sé stesso, ora sulla reiterazione dell’insulto sotto forma di verità rivelata per il cieco popolo del web. Berlinguer aveva carisma, ma la sua non è mai stata una leaderhip esclusivamente carismatica: Berlinguer era un figlio del partito, non muoveva grandi capitali, prediligeva la discussione al fidelismo senza se e senza ma.

No, Berlinguer ha conquistato il popolo della sinistra con la sua capacità di credere nella via europea al socialismo, con la sua visione solidaristica del Mondo quale alternativa allo scontro tra gli opposti imperialismi, con la sua idea di politica intesa quale ricerca dell’interesse comune e non come rete di privilegi e guarentigie affidata al controllo di “boss e sotto-boss”. Ma il popolo della sinistra si è riconosciuto anche in quella figura di uomo onesto dal sorriso appena accennato, che ritrovava la propria dimensione tra le strade di Roma e il mare di Stintino. E’ a quella figura che i progressisti continuano a guardare, nella disperata ricerca di un punto di riferimento da opporre a quanti ritengono che il concetto stesso di sinistra debba essere sacrificato sull’altare della modernità; è quella figura di uomo onesto dal sorriso appena accennato che i progressisti italiani continuano a considerare il loro leader di riferimento: perché Berlinguer non era triste.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

domenica, agosto 25, 2013

COSTITUZIONALMENTE INACCETTABILE.


Nel redigere il comunicato volto a ribadire l’intendimento del PDL di ostacolare l’applicazione della sentenza di condanna pronunciata nei confronti di Berlusconi, Angelino Alfano ha fatto ricorso ad una nuova (ed invero curiosa) categoria concettuale: quella della “inaccettabilità costituzionale”. La decadenza del Cavaliere dalla carica di senatore – conseguente alle disposizioni del d.lgs. n. 235/2012 (c.d. Legge Severino) – sarebbe “costituzionalmente inaccettabile” in quanto priverebbe di rappresentanza quella fetta di elettorato che, in occasione delle ultime elezioni, ha scelto di accordare ancora una volta la propria fiducia ai partiti di centro destra.
“Costituzionalmente inaccettabile”: la formula, nella sua semplicità, si presta ad una riflessione più approfondita. Come è noto, sul piano strettamente giuridico, la categoria della “inaccettabilità costituzionale” degli effetti di una norma non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, il quale viceversa impone di considerare costituzionalmente illegittima una legge (o un atto equiparato) che collida con il disposto della Carta Fondamentale. Tuttavia, sugli eventuali profili di illegittimità costituzionale della Legge Severino gli esponenti del PDL non sono andati oltre generiche enunciazioni di principio: forse in ragione dell’impossibilità, per il Parlamento, di fungere da giudice a quo, sollevando nanti la Consulta la questione di legittimità della norma indubbiata; o forse, per non affrontare dinanzi all’opinione pubblica l’imbarazzo derivante dalla contestazione della costituzionalità di una legge che lo stesso partito di Berlusconi, nella scorsa legislatura, ha contribuito ad approvare.
 
“Costituzionalmente inaccettabile”: la formula di Alfano suona come una dichiarazione di guerra rivolta all’intero sistema istituzionale. Berlusconi ha i voti, dunque non può decadere: pena il venire meno delle larghe intese, la certificazione delle crisi di governo, il concretizzarsi delle elezioni anticipate. Eppure, in quelle due parole, si annida un macroscopico paradosso, probabilmente sfuggito alla penna dello zelante segretario pidiellino: se infatti il concetto di “inaccettabilità costituzionale” non può valere a descrivere una categoria giuridica, esso risulta invece perfettamente idoneo a definire un orientamento culturale, un modo di agire, un disegno politico: l’orientamento culturale, il modo di agire, il disegno politico a cui il comunicato da lui redatto risulta funzionale. Costituzionalmente inaccettabile, in quando imbevuto di una cultura a-costituzionale.

Si pone infatti fuori dalla Costituzione quella forza politica che concepisce il consenso popolare come una sorta di lavacro lustrale in grado di cancellare le conseguenze di qualsiasi reato, neutralizzando financo le conseguenze di una condanna definitiva; si pone fuori dalla Costituzione quel partito che, agitando ossessivamente lo spettro dell’ingovernabilità, vorrebbe imporre al Parlamento, al Governo ed al Presidente della Repubblica di travalicare i limiti dei poteri ad essi conferiti dalla Carta Fondamentale, al solo scopo di assicurare “l’agibilità politica” (altro artificio retorico, utilizzato per delineare i caratteri di una indigeribile condizione di impunità) ad un eccellente pregiudicato; ma soprattutto, si pone  fuori dalla Costituzione quel leader politico che, dopo avere reiteratamente calpestato i fondamentali principi della Carta per assecondare i suoi personali interessi e le proprie esigenze processuali, pretende di rinvenire nella stessa Costituzione il percorso utile ad impedire l’applicazione nei suoi confronti di una norma che egli stesso ha concorso ad approvare.
Ecco allora che – come nel più beffardo dei deja vu – il paradosso insito nel comunicato del PDL emerge in tutta la sua enormità: aliene rispetto al dettato costituzionale non sono infatti le conseguenze derivanti dall’eventuale decadenza di Berlusconi dalla carica di senatore, ma le argomentazioni utilizzate da Alfano per delineare il baratto scellerato tra il salvacondotto al Cavaliere e la sopravvivenza dell’Esecutivo. Non a caso, costituzionalmente inaccettabile.

Carlo Dore jr.
cagliari.globalist.it

domenica, agosto 04, 2013

FALCHI, COLOMBE E FACCETTE NERE


E alla fine, la “guerra civile” annunciata tra squilli di tromba dagli house organ di casa Mediaset si è risolta in una mesta adunanza di attempati aficionados del berlusconismo ante litteram, stoicamente irremovibili nel loro proposito di sfidare il caldo torrido del primo agosto romano per mettere in piazza l’estrema autodafé in onore del Capo ferito a morte dagli ermellini rossi.
Non sono arrivati i cinquecento pullman invocati da Daniela Santanché, non hanno fatto presa i cartelloni grondanti del sudore di Giuliano Ferrara, non ha trovato seguito il rigurgito nostalgico di Gasparri, asceso ad una copia del fatal balcone per arringare una folla immaginaria.    Falchi e colombe sono rimasti confinati all’ombra di un palco forse non autorizzato, mentre le facce lunghe di Cicchitto e Verdini descrivevano bene il clima della kermesse: facce livide di rabbia per una decisione che priva il Cavaliere dello status di incensurato; facce scure di delusione per una sentenza che rischia di far tramontare una volta per sempre la sciagurata stagione delle larghe intese; facce semplicemente stravolte dal bollore dei sampietrini. Faccette nere, intonerebbero in punta di fez gli oplites di un altro (e tristemente noto) Uomo della Provvidenza.
Bondi prova a recuperare il piglio da pretoriano dopo la sonora rampogna ricevuta dal Quirinale, gli inni da campagna elettorale disturbano la quiete dei romani ancora confinati tra le mura dell’Urbe, la guerra civile può cominciare. Berlusconi conquista il palco tenendo per mano la sparuta fidanzatina, mentre il suo sguardo vaga lungo la strada semideserta: l’esercito di Silvio, alla fine, ha dimostrato la stessa capacità di mobilitazione di un plotone di boy scout.
Un sorriso per i fotografi, e parte il copione del video-messaggio tra bandiere e scrivanie immacolate, seguito da un’imbarazzante sensazione di deja vu: la frode fiscale non c’è mai stata; la condanna è la conseguenza di un complotto ordito da toghe rosse e stampa ostile; la Cassazione – fino a ieri, descritta come il “Giudice a Berlino” del mugnaio di Potsdam – si è rivelata la quinta colonna dei congiurati armati di codici e pandette. Tutto già visto, tutto già sentito. Ecco allora il coupe de theatre in grado di destare dal torpore il migliaio di fans accalcati sotto Palazzo Grazioli, il titolo ad effetto per i cronisti a caccia di uno straccio di notizia degno di tale nome: la magistratura non è un potere dello Stato, in quanto sprovvista di legittimazione popolare.
E’ troppo: mentre il fantasma del barone di Montesquieu minaccia di occupare in pianta stabile il quartiere nobile di Palazzo Grazioli per vendicare l’ennesima lesione arrecata al principio della separazione dei poteri, le tante anime democratiche sparse in giro per l’Italia tirano il classico sospiro di sollievo, vagheggiando la conclusione dell’indigeribile fase della pacificazione ad ogni costo: davvero il centro-sinistra vuole continuare a riconoscere responsabilità di governo al leader di uno schieramento che dimostra di non accettare le regole basilari della convivenza democratica? Davvero il Pd intende procedere ad una riforma della Costituzione di comune accordo con un piccolo egoarca che della Carta ignora persino i principi fondamentali?
Il comizio finisce, tra lacrime di cartone ed applausi di ordinanza: Silvio riguadagna in tutta fretta la via di Arcore, seguito dal peso di una condanna inevitabile e schiacciato dallo spettro della conseguente incandidabilità; gli aficionados abbandonano a capo chino via del Plebiscito: la guerra civile è ufficialmente rinviata a data da destinarsi. Rimane solo spazio per la disperazione di Bondi rampognato dal Quirinale e per le doglianze della Santanché, ancora in attesa dei cinquecento pullman con cui dare l’assalto al palazzo della Cassazione: falchi e colombe dispersi nel caldo del primo agosto, faccette nere smarrite nel silenzio assordante della strada deserta.

Carlo Dore jr.