lunedì, ottobre 27, 2014

RENZI, SORU E QUELLA FORZA SENZ'ANIMA

Renato Soru completa la sua scalata alla segreteria del Partito Democratico della Sardegna proprio nel giorno in cui Renzi, rottamando definitivamente gli ultimi presidi di quel che resta della sinistra italiana, si pone come unico riferimento del Partito della Nazione, forte della benedizione di finanzieri, imprenditori rampanti, seguaci della prima ora e novizi folgorati sulla via della Leopolda.

Soru completa la sua scalata tra le ovazioni dei soliti fedelissimi e gli applausi dei nemici di un tempo, riposizionatisi sotto le insegne del neo-segretario ora per rinnovata convinzione, ora per assecondare insondabili logiche di realpolitik, ora in quanto spinti dal naturale spirito di sopravvivenza. Completa la scalata ad un partito ormai “pacificato”dal culto dell’Uomo solo al comando, costretto a trincerarsi dietro uno strano unanimismo di facciata, utile a coprire la mancanza di un progetto politico di ampio respiro.
            
Esiste un’evidente sintonia tra le dinamiche proprie della “comunità di destino” a cui l’ex Governatore ha di recente fatto riferimento, nel tentativo di teorizzare il superamento della dicotomia capitale-lavoro,  e le logiche ispiratrici degli ultimi capitoli dal Vangelo secondo Matteo: muore la cultura della sinistra del lavoro e per il lavoro; viene superata la concezione del partito inteso come centro di formazione della classe dirigente e come strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese; la stessa idea di democrazia parlamentare delineata dalla Carta Costituzionale si riduce al vuoto simulacro di un’epoca che non esiste più.
            
Le ragioni dell’impresa prevalgono sulle posizioni del sindacato, i finanzieri che dissertano sul superamento del diritto di sciopero meritano più attenzione delle rivendicazioni di una piazza che invoca diritti e tutele, il dissenso viene liquidato come l’estremo tentativo di reazione di un gruppo di potere ormai privato di ogni massa di manovra, il refrain del 41% si impone sui riferimenti ad una cultura politica radicata in un secolo di battaglie democratiche. Una dimensione perfetta per esaltare la vena plebiscitaria di Renzi, forte di un crescente consenso da brandire contro gufi e rottamati; una dimensione perfetta per assecondare la “comunità di destino” teorizzata da Soru, prototipo del self made man dichiaratosi da sempre estraneo ai polverosi riti della politica tradizionale.
            
Eppure, mentre si spegne l’eco degli ultimi applausi sparsi tra Cagliari e Firenze, sulla scalata dei vincitori continua a gravare il peso di un interrogativo inevaso, l’ombra di un dubbio irrisolto, il fantasma di un equivoco troppo a lungo ignorato. Privato di una cultura di riferimento, disconnesso sentimentalmente dal cuore pulsante del proprio popolo, ridotto ad una sovrastruttura “capace di parlare all’intero Paese” e “di raccogliere consensi a destra come a sinistra”, il nascente Partito della Nazione non rischia di crescere come una forza senz’anima, destinata, prima o poi, ad essere risucchiata da quello stesso vuoto ideologico di cui oggi intende alimentarsi?
       
Gli oplites della Leopolda si limitano ad un’indifferente scrollata di spalle: il Partito della Nazione si sostiene sul mito del 41%, il Partito della Nazione guarda solamente al futuro, al successo di Renzi, al carisma di Soru. Leader discussi e mai discutibili, in diretta empatia con il popolo delle primarie, antepongono la loro individualità di uomini soli al comando a culture e progetti politici. Fino a quando il venire meno di quell’empatia non ne appannerà l’immagine di eterni vincenti; fino a quando spirito di sopravvivenza ed insondabili logiche di realpolitik non ritrasformeranno i fedeli alleati di oggi negli scatenati oppositori di ieri. Fino a quando la realtà della crisi sociale in atto non li costringerà a confrontarsi con l’assenza di un riferimento culturale a cui guardare, di un progetto politico a cui ispirare la loro azione: per non essere risucchiati dal vuoto ideologico su cui hanno cercato di costruire la loro forza senz’anima.

Carlo Dore jr.

(cagliari.gobalist.it)

venerdì, ottobre 24, 2014

“IL MONDO DI BERLINGUER”: STORIA DI NANI E GIGANTI


(Introduzione al dibattito pubblico: "Il Mondo di Berlinguer - Dialogo sulla politica internazionale del '900" svoltosi a Cagliari il 24 ottobre 2014. Sono intervenuti Antonio Rubbi, Vindice Lecis e Luisa Sassu)


Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio delluomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.
            
Dallinizio della militanza antifascista condotta tra le strade di Sassari e Roma fino alle ultime parole scagliate con disperata determinazione contro il cielo di Padova in quella maledetta notte di trentanni fa, la vita di Berlinguer si è risolta in un ostinato sforzo di comprensione delle dinamiche di un mondo in perenne evoluzione, nellincessante e pervicace tentativo di individuare la via per la costruzione di un mondo migliore.

Ecco, un mondo migliore: che mondo era quello di Enrico Berlinguer, figlio della borghesia sassaresse divenuto il riferimento costante dei comunisti italiani, democratico autentico destinato, suo malgrado, a combattere con un sistema paralizzato dagli opposti imperialismi, leader silenzioso e mai disposto a scivolare nella dimensione egocratica propria del capo carismatico?          Era un mondo terribile ed intricato, attraversato da muri e colonnelli, eroi e faccendieri, spie e uomini dello Stato, bombe e lacrime. Era il mondo in cui Jan Palak bruciava insieme alla primavera di Praga, ed in cui i militanti del PCI, che ancora non avevano del tutto metabolizzato il fantasma dellUngheria, cercavano un riferimento alternativo al mito della grande madre Russia,  una dimensione autonoma dal sistema di pesi e contrappesi partorito dal gelo di Jalta. 

Berlinguer vedeva lontano, ed aveva intuito la necessità di risolvere la complessità del mondo che lo circondava, elaborando unalternativa allo scontro tra capitalismo e sovietismo; Berlinguer vedeva lontano, e fu il protagonista di quellalternativa. Unalternativa fondata sullinterlocuzione con Carrillo e Marchais, diretta ad affrancare i principali partiti comunisti doccidente dallorbita del PCUS; sul socialismo dal volto umano, da praticare sotto lombrello della NATO; sul confronto continuo e costante con Willy Brandt ed Olof Palm, primo abbozzo di costruzione di un modello di sinistra europea; sullidea del compromesso storico, del fronte comune tra forze democratiche da contrapporre alla minaccia di una deriva autoritaria che avrebbe potuto trasformare Roma nella Santiago di Pinochet. 

Un PCI proiettato nella dimensione della sinistra europea, espressione di un socialismo democratico e (come tale) non allineato alle determinazioni del Cremlino, capace di superare la conventio ad excludendum e di accreditarsi quale credibile forza di cambiamento per il governo del Paese: il terribile, intricato mondo di Berlinguer iniziava a trovare una sua logica; la terza via tra capitalismo e rivoluzione era lo strumento adatto per rileggere le storture, i limiti, le contraddizioni della società europea al crepuscolo del XX secolo. 

Ma quel terribile, intricato mondo conservava equilibri che non dovevano essere superati, e i depositari di quegli equilibri spezzarono lincedere del sogno berlingueriano: il compromesso storico fu seppellito insieme al cadavere di Moro in quella Renault rossa in via Caetani, nelle tenebre della più oscura tra le notti di questa disgraziata Repubblica; e lo strappo da Mosca non fu sufficiente ad integrare i comunisti italiani nella galassia delle forze progressiste europee. La morte del Segretario, in definitiva, arrivò troppo presto, talmente presto da impedirgli di replicare allaccusa di avere trascinato il PCI in mezzo al guado: né al governo né allopposizione, né con la socialdemocrazia né con gli eredi di quel che restava della Rivoluzione dOttobre. 

Eppure, anche a trentanni di distanza dallultima chiamata alla mobilitazione casa per casa, sezione per sezione, nel bel mezzo di unepoca caratterizzata da diseguaglianze sempre crescenti, in cui le fredde regole delleconomia e della finanza prevalgono sulla componente solidale di una politica disumanizzata proprio perché percepita come lontana dalle istanze provenienti dai settori più vulnerabili della società contemporanea, il tentativo di Berlinguer di individuare una terza via per costruire un mondo diverso riemerge in tutta la sua dirompente attualitàAffrancandoci per un attimo dalla dimensione di una politica post-ideologica, tutta concentrata sulla banale esaltazione delluomo solo al comando, il ricordo del Segretario continua infatti ad offrirci un punto di vista privilegiato per comprendere ed interpretare il terribile, intricato mondo in cui ci troviamo a vivere: un punto di vista che oggi cercheremo di sfruttare nel migliore dei modi, come dei nani a cui è concesso, per una volta, di salire sulle spalle di un gigante.

Carlo Dore jr.

giovedì, settembre 04, 2014

RENZI E I SEPOLCRI IMBIANCATI

Alcuni dei commentatori che hanno esaminato la prima fase della “svolta buona” che il Governo presieduto da Matteo Renzi avrebbe imposto alla politica italiana sono concordi nell’individuare nella forte carica di “novità” insista nel modus operandi del giovane premier il tratto distintivo della transizione verso la Terza Repubblica: novità nei protagonisti (con i quarantenni finalmente installatisi nella stanza dei bottoni), novità del linguaggio (con gli hastag che prevalgono sul politichese), novità nei processi decisionali (basta con i caminetti: si consolida il “patto di ferro” tra leader e popolo). Insomma: la generazione-Renzi costituirebbe la risposta all’istanza di rinnovamento più volte formulata dai militanti dell’area democratica, il tanto atteso elemento di rottura rispetto alle dinamiche perpetrate da una classe dirigente responsabile dei fallimenti dell’Ulivo e dell’Unione, la ventata di freschezza che spazza la polvere sedimentatasi sui sepolcri imbiancati della sinistra italiana.

Ad una più attenta analisi, tuttavia, siffatta carica di rinnovamento perde gran parte dell’incisività mutuata da slides e battute da seconda serata, per esaurirsi più in un banale cambio di corsia che in un’autentica inversione del senso di marcia. L’ascesa dei fedelissimi del Capo ai quartieri nobili di Palazzo Chigi, la semplificazione della comunicazione istituzionale –(con gufi, rosiconi, professoroni e frenatori individuati quali nuovi nemici della Patria, in luogo di toghe rosse, sindacalisti e giornalisti militanti), la concezione della dialettica politica come un referendum permanente sulla figura del leader, lungi dal costituire i capisaldi di una radicale rivoluzione culturale, rappresentano la semplice riproposizione in salsa new age degli schemi di esercizio del potere già collaudati nel corso del ventennio berlusconiano, il pervicace eterno ritorno dei fantasmi di un passato che codici e sentenze sembravano avere, una volta per sempre, consegnato ai libri di storia.
            
Ma vi è di più: la retorica della rottamazione non basta a coprire i molteplici punti di contatto tra la generazione – Renzi e quella classe dirigente che il premier-segretario ha più volte dichiarato di voler superare: Renzi non viene dalla luna, Renzi non è l’homo civicus che manda in pensione i boiardi della vecchia politica, il “papa straniero” che abbatte a colpi di tweet le antiquate liturgie partitocratiche, l’innovatore che si eleva al di sopra dei sepolcri imbiancati della sinistra italiana. No, Renzi è la logica conclusione della sequenza di eventi che ha condotto alla lenta eutanasia della sinistra italiana, il naturale prodotto delle determinazioni politicamente improvvide assunte da alcuni eredi del PCI dalla Bolognina in poi.
            
E’ il prodotto del costante allontanamento dei vertici dei partiti dalle esigenze del mondo del lavoro e dalle battaglie intraprese dal sindacato, derivante dalla tendenza a descrivere il graduale detrimento di diritti e tutele come un inevitabile portato della modernità. E’ il prodotto della frettolosa archiviazione della concezione berlingueriana della “diversità”, e della accettazione delle larghe intese come fisiologia estrinsecazione delle dinamiche democratiche. E’il prodotto della scelta di accantonare la tradizionale forma di partito per abbracciare il modello del partito leggero e di fatto identificabile solo tramite l’icona del leader, scelta che Bersani ha osteggiato a tal punto da sacrificare segreteria e premiership, nella missione impossibile di riempire con un anima sociale il vuoto ideologico del gazebo veltroniano. Ma soprattutto, Renzi è il prodotto delle mille concessioni accordate dai progressisti a settori sempre meno nobili del moderatismo, della disponibilità della sinistra a rinunciare all’essenza stessa della propria identità culturale per conquistare nuovi spazi di consenso, per assicurarsi quella legittimazione democratica che la Storia stessa le aveva già ampiamente riconosciuto.
            
No, Renzi non viene dalla luna, e la retorica della rottamazione non impedisce di individuare il filo rosso che unisce la Leopolda alla Bolognina, lungo il percorso segnato dalla polvere che grava sui sepolcri imbiancati di quel che resta della sinistra italiana.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

mercoledì, agosto 06, 2014

IL PARADOSSO DELLA TESSERA STRAPPATA

“Domani mi iscrivo al PD per poter stracciare la tessera”. Le parole twittate da Gherardo Colombo costituivano l’ideale cassa di risonanza del ruggito della folla inferocita, riversatasi in Piazza Montecitorio nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica: per rimproverare a Bersani il tentativo di condividere con le opposizioni il nome del futuro inquilino del Colle, per manifestare indignazione e sdegno verso quella che veniva percepita come un’altra resa senza condizioni ai diktat della destra berlusconiana.
Anche a distanza di un anno da quelle folli giornate, non abbiamo dimenticato le piazze piene e le tessere del PD bruciate davanti alle telecamere, non abbiamo dimenticato le riunioni da EatItaly e le marcette degli occupy-PD, non abbiamo dimenticato i 101 a volto coperto e l’inferno del Capranica. Non abbiamo dimenticato l’indignazione scatenata ad arte su una materia che, per assurdo paradosso, la stessa Carta Costituzionale rende necessariamente oggetto di trattativa e condivisione tra le varie forze presenti in Parlamento.
“Domani mi iscrivo al PD per poter stracciare la tessera”: le parole di Colombo non possono non tornare alla memoria oggi, mentre un accordo perfezionatosi al chiuso di una segreteria minaccia di stravolgere gli equilibri dell’ordinamento costituzionale, mentre una trattativa anomala potrebbe elevare Berlusconi dal fango dei servizi sociali all’empireo dei padri costituenti. Dove sono ora i protagonisti di quella protesta? Dove sono ora, che davvero si riscontrano ragioni valide per strappare la tessera del PD?
La domanda è destinata a rimanere drammaticamente inevasa: perduta nel silenzio di una piazza vuota, obliterata dall’unanimismo imposto dalla trasformazione dei rottamatori in grigie sentinelle dello status quo, schiacciata dalle dinamiche schizofreniche e grossolane della “politica del fare”.
Le poche voci critiche rispetto ai capisaldi del Patto del Nazareno sono destinate a soccombere alla ridda di invettive contro gufi professori, gufi brontoloni e gufi indovini ed altre categorie ornitologiche inventate al solo scopo di appagare le pulsioni revansciste del piemier-segretario: viene riconosciuta l’importanza della presenza di Berlusconi al tavolo delle riforme, il dialogo tra Verdini e Guerrini assicura all’ex Cavaliere quel ruolo di primo piano che gli era stato sottratto da codici ed ermellini.
Le rassicurazioni sparate da Renzi a mezzo stampa assumono l’incidenza del più innocuo tra i temporali estivi: i democratici non intendono negare la centralità politica al fondatore della nascente Terza Repubblica, non possono non riconoscere la legittimazione di colui il quale viene quotidianamente indicato come l’interlocutore privilegiato del processo riformatore in atto. Sì, Berlusconi è di nuovo al centro della scena, impegnato direttamente nel superamento di quella Carta costituzionale da sempre percepita come un arcaico rigurgito di cultura filosovietica, nell’attuazione di una forma di governo in grado di esaltare le virtù salvifiche dell’uomo solo al comando.
E’ troppo. Dovrebbe essere troppo, per quella fetta di Paese che, nell’arco di un ventennio, del berlusconismo ha sempre avversato la vena egocratica, scollacciata e nemmeno tanto vagamente autoritaria. Adesso sarebbe lecito attendere una reazione: piazze piene, militanti inferociti, sedi occupate, tessere del PD bruciate a beneficio delle telecamere, minoranze interne pronte a sfiduciare la segreteria in carica. Invece, solo silenzio: tacciono i rottamatori di ieri, scientificamente insediatisi nelle odiate stanze dei bottoni; tacciono gli occupy-PD, dispersi nell’attuazione del tanto auspicato ricambi generazionale; tacciono i contestatori del Capranica, preoccupati di non pregiudicare il rinnovamento della politica finalmente in atto.
“Domani mi iscrivo al PD per poter stracciare la tessera”. Il tweet di Gherardo Colombo assume oggi un significato vagamente paradossale: l’indignazione scatenata contro un dialogo previsto dalla Costituzione viene meno dinanzi alla prospettiva di un patto volto a sabotare gli assetti delineati Carta. E’ il paradosso destinato a contrassegnare il DNA della Terza Repubblica: il paradosso della tessera strappata.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

venerdì, luglio 11, 2014

GRAZIE, NO.

"Piaccia o meno a quelli che vogliono frenare, noi porteremo a casa il risultato. Faremo le riforme perché è giusto che l’Italia torni ad essere leader: non lasceremo l’Italia a chi dice solo no. Le parole di Renzi mettono il sigillo sul percorso di riforma della Carta Fondamentale nel quale il segretario del PD ha investito gran parte della sua leadership: il “patto del Nazareno” sembra destinato a reggere, un Berlusconi politicamente esangue e assediato da conti in rosso, aziende da salvare, servizi sociali da scontare e nuove condanne da schivare non può permettersi di abdicare dal ruolo di padre costituente che il Presidente del Consiglio gli ha inaspettatamente riconosciuto. Sì, il “patto del Nazareno” è destinato a reggere: alla faccia di gufi, rosiconi, frenatori e sabotatori vari ed eventuali. Alla faccia di chi sa solo dire “no”.

Epigono conclamato dei fautori di quel leaderismo plebiscitario che ha scandito il declino della Seconda Repubblica, il giovane premier affronta a petto in fuori dubbi, quesiti, giornalisti ed oppositori interni: trasformando la discussione politica in un continuo referendum sulla sua persona, rinnovando la visione di un Paese diviso tra guelfi e ghibellini, o meglio – secondo i neologismi propri del vangelo secondo Matteo – tra innovatori e frenatori. O con il rinnovamento, o con i sabotatori; o con Renzi, o rosicone. 

Eppure, anche dinanzi alla manifestazione di muscoli che quotidianamente si dipana tra Palazzo Chigi e Ponte Assieve, c’è ancora qualcuno che proprio non vuole rinunciare alla fastidiosa abitudine di porre domande, di interrogarsi sulle ragioni ispiratrici di una riforma destinata (nei fatti) a sconvolgere gli equilibri dell’ordinamento democratico, di determinare l’incidenza che questa riforma potrà assumere sul nostro sistema costituzionale. E di opporre, se del caso, agli aut-aut del Presidente del Consiglio una risposta tanto semplice quanto potenzialmente eversiva, alla luce del clima politico generale: grazie, no.
            
Sono tanti, i nemici nel mirino del premier: non tutti espressione dei “poteri forti” che lucrano sulla conservazione di privilegi e rendite di posizione; non tutti guelfi decisi a sabotare il percorso intrapreso dai ghibellini del cambiamento; non tutti rosiconi di professione che si ostinano a non voler cambiare verso.

Ci sono i tanti democratici autentici che, dopo essersi mobilitati per anni a difesa delle istituzioni di garanzia messe sotto attacco dallo strapotere berlusconiano, non sono disposti ad accettare il perpetrarsi della logica dell’Uomo solo al comando; ci sono gli ultimi esponenti di una sinistra orgogliosa della propria identità e del proprio sistema di valori, che non vogliono barattare le conquiste ottenute in mezzo secolo di battaglie civili con uno strapuntino sul carro del vincitore; e ci sono soprattutto coloro i quali, dopo avere ribadito nel referendum del 2006 l’attualità dell’impianto della Carta Fondamentale, non possono assecondarne passivamente lo stravolgimento.

Frenatori, rosiconi, gufi: le invettive di Renzi sono destinate a scivolare via, come pioggia sull’asfalto. Ad un patto costituente che di fatto assicura la sopravvivenza (forse, prima personale che politica) al Cavaliere decaduto; all’ipotesi di un Senato ridotto alla pletorica funzione di tribuna di rappresentanti delle varie realtà locali; alla prospettiva di un sistema che – tra premi di maggioranza, liste bloccate, fiducia monocamerale, potere del premier di nomina e revoca dei ministri – in pratica consegna al leader del partito di maggioranza il monopolio esclusivo delle istituzioni si può opporre soltanto quella semplice risposta, in controtendenza rispetto al verso che cambia: grazie, no.
Carlo Dore jr.

Cagliari.globalist.it

domenica, giugno 08, 2014

BERLINGUER ERA UN’ALTRA COSA

Berlinguer era un’altra cosa”. Lo penso sfogliando le pagine di un libro ingiallite dal tempo che passa, scorrendo le foto in bianco e nero che ancora ripropongono i frammenti di una stagione mai conclusa, le lacrime e i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato.
            
Berlinguer era un’altra cosa”. Lo dice un sorriso regalato dal balcone di Botteghe Oscure la sera della vittoria del 1975, la sera in cui un popolo intero sentiva che davvero la Storia stava per cambiare verso, la sera in cui la sinistra italiana bussava per la prima volta ai portoni dei palazzi del potere. Ci credeva, quel popolo, al modello del socialismo da far crescere nel cuore della Nato, all’eurocomunismo come risposta a blocchi e muri. Sì, ci credeva, quel povero popolo: alla stretta di mano con Moro ed al dialogo tra masse operaie e masse cattoliche, al Compromesso storico ed alla dialettica democratica come strade da perseguire per superare i limiti di una democrazia che Jalta aveva voluto imperfetta.

Berlinguer era un’altra cosa”. Lo sussurra il profilo pallido di un uomo solo nella bufera, sommerso dalle invettive dei craxiani inferociti durante il congresso di Verona: colpevole di avere intuito per primo il funzionamento delle logiche perverse che governavano determinati sistemi di potere, di avere opposto la barriera della questione al dilagare di quella stessa corruzione istituzionalizzata destinata a radicarsi ulteriormente all’ombra della Milano da bere.

Berlinguer era un’altra cosa”. Lo conferma l’applauso scagliato contro il cielo di Padova da una piazza piena di gente, costretta ad accompagnare le ultime parole di un leader morente, condannata, in quella maledetta notte di trent’anni fa, a tramandare all’infinito il suo testamento politico ed intellettuale: casa per casa, strada per strada, fabbrica per fabbrica, sezione per sezione. Lo gridano le parole spezzate di Sandro Pertini, in ginocchio davanti alla bara scura: lo gridano per rendere omaggio a quello che era prima di tutto “un amico fraterno, un figlio, un compagno di lotta”.

Berlinguer era un’altra cosa”. Il mio pensiero attraversa anni e storie, per poi perdersi in una piazza vuota, occupata solo dal frastuono assordante delle invettive vomitate sulla rete da uno sgangherato comico da strada, degli slogan ripetuti ossessivamente dai boy scout de “la musica è cambiata”, delle barzellette sempre più stanche di un vecchio venditore di sogni che ancora non vuole smontare il suo polveroso circo di menzogne e miliardi.

Berlinguer era un’altra cosa”. Lo ripeto, nella solitudine di questa piazza vuota. Lo ripeto a beneficio dei tanti che, come me, proprio non si riconoscono negli stereotipi della politica 2.0., e che ancora cavalcano i miti della partecipazione, della tutela dei valori costituzionali, delle grandi battaglie democratiche, delle idee che infiammavano piazze e cuori per non consegnarsi senza colpo ferile alla dimensione dell’Uomo solo al comando.

A noi, e solo a noi, rimane la forza di un ricordo lungo trent’anni, fissato tra pagine ingiallite e foto in bianco e nero: ci restano i frammenti di quella stagione mai conclusa, ci restano le lacrime per quello che potevamo essere e non siamo stati. Ci rimane l’immagine di un sorriso in una notte di vittoria, che allenta per un istante la solitudine di quella piazza vuota.

Ci rimane la consapevolezza di aver creduto in un sogno, e l’orgoglio di avere fatto bene a crederci. Perché Berlinguer era un’altra cosa.

Carlo Dore jr.

mercoledì, aprile 23, 2014

L'ESERCITO DEI MORTI

L’esercito dei morti sfilerà per le strade d’Italia come ogni 25 aprile, più forte di ogni tentativo di revisione, più forte di ogni operazione diretta a creare una memoria condivisa attraverso la promiscua sovrapposizione di vittime e carnefici, più forte di ogni colpo di spugna presentato come programma di pacificazione nazionale. L’esercito dei morti sfilerà ancora, con il suo insieme di bandiere, canzoni, storie e ricordi: sfileranno le immagini di Pertini e di Gramsci, di Lussu e Gobetti, dei fratelli Cervi e di Giaime Pintor; sfileranno di nuovo, lungo i grandi viali della storia: per ricordarci da dove veniamo, per ribadire ancora una volta come lo sguardo rivolto al futuro non può che risultare alterato dalla falsa rappresentazione del passato più o meno recente.
L’esercito dei morti sfilerà per noi, che saremo per le strade come ogni 25 aprile: per entusiasmarci ancora, con le bandiere e la Costituzione in mano; per entusiasmarci ancora, con il dolcissimo sapore che lasciano le note di “Bella ciao” intonate in punta di labbra. Sì, ci entusiasmeremo ancora, riappropriandoci della nostra dimensione di democratici autentici, figlia legittima di una storia che non vogliamo né rivedere, né dimenticare. Ci entusiasmeremo ancora, ma guarderemo quelle strade, e forse scopriremo di essere sempre in meno ad accompagnare l’incedere dell’esercito dei morti. Cercheremo i compagni di un tempo, quelli che sfilavano con noi quando il 25 aprile davvero riempiva piazze e cuori. Li cercheremo, e finiremo col chiederci: dove sono, ora? Dove sono, tutti quanti?
La risposta risuonerà come uno schiaffo, attraverso un manifesto flagellato dal primo sole della festa d’aprile, attraverso le pagine di un blog, o attraverso le parole affidate alle copertine dei TG: la risposta si tradurrà nel sorriso accativante di un giovane dal ciuffo ribelle, o negli occhi spiritati di un giullare prestato alla politica, che promette epurazioni di massa e che invoca la versione 2.0. della Marcia su Roma. Ecco dove sono finiti, i compagni di un tempo: inghiottititi dal culto dell’Uomo forte, risucchiati nel buco nero di un post-ideologismo che sacrifica ora sull’altare del rinnovamento sempre e comunque, ora su quello della protesta ad ogni costo le grandi passioni, gli slanci intellettuali, le radici culturali che da sempre animano i progetti politici di ampio respiro.
Le differenze si obliterano in ragione delle “nuove esigenze della società che cambia”, la fidelizzazione al capo politico travolge in un battito di ciglia il “metodo democratico” che dovrebbe contraddistinguere il funzionamento dei partiti dell’arco costituzionale, la stessa Carta Fondamentale – principale prodotto della lotta di liberazione -  rischia di essere “rottamata” dai protagonisti della nuova modernità. E la rivendicazione dei grandi ideali, il senso di appartenenza ad una storia comune, la necessaria ed irrinunciabile pratica del “vizio della memoria” vengono degradati a vuote astrazioni da professoroni alteri, a oziosa litania celebrativa dell’esercito dei morti.
Guarderemo quelle strade sempre meno affollate, allora: e non potremo non sentirci un po’ più soli, smarriti nel bel mezzo di questa maledetta epoca sbagliata. Guarderemo quelle strade, svuotate da comici rivoluzionari e da giovani depositari delle chiavi del futuro, ma forse la nostra solitudine troverà un minimo di conforto nella celebrazione dell’esercito dei morti: il buco nero del post-ideologismo non ci ha inghiottiti, abbiamo un ricordo da celebrare, abbiamo una storia da raccontare, abbiamo dei progetti da spendere in faccia ai diktat dell’Uomo forte. Perché l’esercito dei morti continua a sfilare per i viali della Storia, perché il pensiero e l’esempio dei Pertini, dei Gramsci, dei Lussu e dei Cervi risulta ancora più vivo e vitale dei tweet sparati sulla rete degli attori che calcano la scena della politica attuale. E perché noi siamo ancora in strada, ad entusiasmarci per il passaggio dell’esercito dei morti, e ad accompagnarne l’incedere gridando: “ora e sempre, resistenza”.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

domenica, marzo 16, 2014

LA CULTURA DELLA COSTITUZIONE NEL “TEMPO DEL CORAGGIO”.

Si respira uno strano clima, mentre Renzi ed il Ministro Boschi elencano a beneficio delle telecamere i passaggi fondamentali della legge elettorale appena approvata dalla Camera dei Deputati: le mille criticità che hanno scandito il voto di Montecitorio vengono superate in un battito di ciglia, affogate in profluvio di riferimenti a svolte epocali, traguardi storici, sconfitte dei gufi e vittorie conseguite a tavolino sui cantori dell’eterno disfattismo. I protagonisti della presunta “svolta buona” gonfiano il petto, abusando scientemente del linguaggio da cine-panettone: in fondo, questo è il “tempo del coraggio”, non dei vuoti sofisimi praticati dai teorici della democrazia parlamentare.
            
Eppure, lo strano clima che aleggia nella sala stampa di Palazzo Chigi resta inalterato, malgrado frasi ad effetto ed impegni assunti a reti unificate, e continua a gravare sull’Italicum con tutto il peso di una domanda destinata a rimanere senza risposta: nel tempo del coraggio, c’è ancora spazio per la cultura della Costituzione?
            
Figlio legittimo dell’accordo concluso da Renzi e Berlusconi in quel di Sant’Andrea delle Fratte (e maledetto dall’immagine della partita a golf tra Che Guevara e Fidel Castro), l’Italicum dovrebbe costituire il primo passaggio di un percorso riformatore destinato ad includere anche il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma del titolo V della Carta Fondamentale: una vera e propria relecture dei pilastri del nostro sistema istituzionale, concordato al chiuso di una stanza da due leader accomunati dall’adesione alla logica de “L’Etàt c'est moi”.

E così, ecco apparire una nuova legge elettorale destinata ad operare per la sola Camera dei Deputati, mentre l’elezione dei senatori continua ad essere regolata dagli ultimi brandelli del Porcellum. A quanti segnalano i rischi a cui va incontro un Paese costretto a danzare sul baratro della sostanziale ingovernabilità, rilevando l’impossibilità di far coesistere due sistemi radicalmente antitetici (un proporzionale con sbarramento, liste bloccate, premio di maggioranza ed eventuale doppio turno; ed un proporzionale puro, senza premio di maggioranza e con le preferenze), il premier oppone una infastidita scrollata di spalle: che ci importa del Senato, se tanto lo dobbiamo abolire? Basta rallentare il rinnovamento ricorrendo a bizantinismi inutili: è il tempo del coraggio, non del disfattismo!

Ma le certezze del Presidente del Consiglio si infrangono contro quell’interrogativo inevaso: quale spazio rimane alla cultura della Costituzione nel tempo del coraggio? Già, la Costituzione: la Costituzione sfugge alla piena disponibilità degli uomini del fare, rimesso com’è il procedimento di revisione al doppio passaggio parlamentare, alla presenza di maggioranze qualificate, all’eventuale referendum confermativo. Un procedimento aggravato, e come tale non del tutto controllabile dalla maggioranza politica contingente; un procedimento aggravato, il cui esito non può considerarsi scontato per chiunque abbia acquisito un minimo di cultura costituzionale.

Di più: chiunque abbia acquisito un minimo di cultura costituzionale sarebbe in grado di rilevare l’anomalia collegata all’approvazione di una legge che di fatto considera già superato un principio (quello del bicameralismo paritario) ancora vivo e vitale in seno all’ordinamento tracciato dalla Carta Fondamentale. Siamo ben oltre la riflessione sui possibili profili di illegittimità costituzionale che potrebbero caratterizzare l’Italicum: siamo all’istituzionalizzazione della cultura dell’incostituzionalità.

E allora, la risposta a quell’interrogativo inevaso implica di fatto la soluzione dell’ulteriore quesito prospettato da alcuni esponenti della minoranza interna al Partito democratico all’indomani del patto di Sant’Andrea delle Fratte, suggellato sotto l’icona incredula del Che: per quale motivo non si è approvata una norma che, restituendo efficacia alla legge elettorale in vigore fino al 2006, avrebbe permesso all’Italia di superare le secche del semestre europeo, per poi affidare alla maggioranza uscita vincitrice dalle nuove elezioni il compito di intraprendere un percorso di riforme ispirato ad un programma politico ben definito?

Altra scrollata di spalle, altra battuta al vetriolo: basta con i gufi, basta con il disfattismo. Siamo gli uomini del fare, siamo quelli della svolta buona: siamo i protagonisti del tempo del coraggio. Già, del tempo del coraggio, in cui non c’è più spazio per la cultura della Costituzione.
Carlo Dore jr.
(cagliari.globalist.it)

            

domenica, marzo 09, 2014

CARO BEPPE, HAI MAI ASCOLTATO “ERNANI”?

"L’Italia è un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme”. Le parole di Grillo squarciano la quiete del web in una tranquilla domenica di fine inverno, ennesima puntata di un’invettiva senza fine: dopo la gogna ai giornalisti, le epurazioni di massa, gli attacchi rivolti a tutte le istituzioni operanti in seno all’ordinamento repubblicano, ecco l’affondo contro il valore stesso dell’unità nazionale, contro quell’idea di Italia “una e indivisibile” recepita dalla Carta Costituzionale.

E’ troppo. Mentre Maroni e Salvini si affrettano a rilanciare l’ultimo versetto dal vangelo del Dio del Blog – preconizzando forse una tanto improbabile quanto pericolosa santa alleanza tra i vecchi galli calati da Pontida e i novelli grillini inneggianti al ritorno del Regno delle due Sicilie – a quanti proprio non intendono rinunciare a difendere i valori fondanti della democrazia repubblicana non rimane che opporre la forza di un paio di domande ai sermoni del guru pentastellato: davvero siamo un popolo senza radice comune? Davvero gli Italiani non hanno più ragione di stare insieme?

Ma soprattutto: caro Beppe, tra uno show e l’altro, tra un’espulsione e l’altra, tra un anatema e l’altro, hai mai ascoltato “Ernani”?

Si, Beppe, hai mai ascoltato “Ernani”? La maggioranza dei fans del comico - normalmente lontana, per cultura e formazione, dalle nobili pagine del melodramma italiano – non potrà che accogliere questo interrogativo con un ruggito di infastidita indifferenza; i pochi militanti del Movimento che invece risultano più sensibili alle note del repertorio verdiano non esiteranno a gonfiare il petto, pervasi da un sano fremito di orgoglio: Ernani era il Robin Hood spagnolo, che lottava contro l’arroganza della Corona, proprio come Beppe combatte contro la Casta a colpi di comizi e post al vetriolo. Beppe è Ernani, e noi siamo il coro dei fidi che si preparano a dare l’assalto al palazzo del potere.

In verità, ben pochi sono i punti di contatto tra lo sgangherato vate genovese e lo sfortunato conte di Aragona: Ernani incarna infatti, più di ogni altro personaggio animato dalle note di Verdi, la capacità di un popolo di lottare per farsi nazione, l’esaltazione dell’unità tra princeps e collettività, l’orgoglio dei tanti che scelsero la morte dell’eroe alla prospettiva di una vita macchiata dal disonore. Ernani è Venezia soffocata dal tacco austriaco; Ernani è “La Fenice” che esplode in un tripudio di coccarde tricolori al termine del coro dell’atto terzo, nella grandiosità di una Nazione che sorge radiante di gloria; Ernani sono i soldati in divisa bianca che sbandano sotto gli applausi di un branco di banditi, accecati, per una sera, dallo sconosciuto orgoglio di sentirsi Italiani; Ernani è Verdi che abbandona il teatro con un sorriso, forse consapevole di avere legato per sempre il suo nome ad un sogno. Ernani è Verdi, e Verdi è l’Italia.

E allora, diviene ancor più necessario chiedere: caro Beppe, tu che pretendi di guidare una rivoluzione a colpi di tastiera; tu che, in quel che resta del tuo Movimento comandi, imponi e disponi; tu che descrivi l’Italia come un’arlecchinata di popoli di fatto privi di radice comune, hai mai ascoltato “Ernani”?

La risposta è: forse no. Se Grillo avesse ascoltato il coro del terzo atto, avrebbe forse sentito l’eco degli applausi de “La Fenice”, e avrebbe trovato nella forza di quelle note la radice comune che costituisce la ragione più autentica del nostro “essere popolo”, il vincolo fondante del nostro “stare insieme”.

No, Grillo non ha mai ascoltato Ernani, e piuttosto che vivere la luminosa fine dell’eroe tragico, rischia di affidare il momento conclusivo della sua esperienza politica da ad una scena differente: quella di un uomo solo nelle tenebre di un palcoscenico vuoto, abbandonato da cortigiani paludenti e nemici immaginari, schiacciato dal peso insopportabile della sua ultima maledizione. Un finale da buffone della sorte, più adatto a Rigoletto che a Ernani. Un finale da buffone della sorte: ma pur sempre un finale da melodramma.

Carlo Dore jr.

mercoledì, febbraio 05, 2014

“ITALICUM”: L'ESTASI DI BERLUSCONI



L'immagine che Silvio Berlusconi ha offerto di sé stesso alla platea di attempati fedelissimi accorsi lo scorso sabato ad acclamarlo alla fiera di Cagliari non rispondeva in alcun modo a quella del leader sfibrato da disavventure personali e rovesci giudiziari tratteggiata dai media di tutto il mondo all'indomani della sua decadenza dallo scranno di senatore.

Mentre Cappellacci era costretto a recitare ancora una volta il ruolo di semplice comprimario dinanzi al consueto florilegio di battute da caserma e barzellette di dubbio gusto che da sempre scandisce la diffusione del verbo berlusconiano, il fu Cavaliere poteva rinnovare il rito autocelebrativo del ritrovato ruolo di "padre della patria": la riforma elettorale gli ha restituito la centralità perduta tra cene eleganti e fondi neri, il dialogo con Renzi ne ha ribadito la condizione di azionista di maggioranza della politica italiana. L'Italicum è l'arma con cui ridurre al silenzio moralisti e pubblici ministeri; l'Italicum è la formula per riconquistare (seppure per interposta persona) il piano nobile di Palazzo Chigi e per assicurarsi, eventualmente, un Capo dello Stato in stato di grazia.
L'Italicum: l'estasi di Berlusconi.

In maniche di camicia sul palco del Nazareno, Renzi gonfia il petto a beneficio di supporter della prima ora e di novizi folgorati sulla via della Leopolda: la rottamazione ha funzionato, Matteo è riuscito ad ottenere in due mesi quei risultati a cui i suoi predecessori avevano aspirato per quasi un quarto di secolo. Modi da caudillo, toni da zingarata: lontano dagli schemi del politically correct, Matteo somiglia tanto al vecchio Caimano.  

Le graziose vestali della nuova segreteria suggellano con un sorriso i punti centrali dell'ennesimo patto scellerato: rimane il proporzionale con premio di maggioranza; rimangono le liste bloccate, per rendere la selezione delle candidature appannaggio esclusivo dell'Uomo solo al comando; compare la soglia di sbarramento sulla strada dei piccoli partiti; la disposizione sui partiti territoriali assicura la sopravvivenza a quel che resta della Lega Nord.

Dal Porcellum all'Italicum: la grande riforma è tutta qui.  I più attenti commentatori non risparmiano giudizi al veleno: questo accordo suona come una resa incondizionata, la leadership di Renzi rischia di esaurirsi nella retorica del "furbo-stolto", l'Italicum è l'estasi di Berlusconi. Protestano i giuristi democratici, lamentando la sostanziale elusione delle indicazioni fornite dalla Consulta nella sentenza demolitrice del congegno di ingegneria giuridica partorito dai saggi di Calderoli; protesta l'opposizione interna al PD, estrema ridotta di un progressismo costituzionale incompatibile con la logica della "proposta che non si può rifiutare". Matteo fa spallucce e tira dritto, tra un "Fassina chi?" e uno sberleffo a Cuperlo: le primarie vengono concepite come una sorta di delega in bianco, la grande riforma è la prima fiche da giocare sul tavolo di quelle scadenze elettorali attese, forse con un eccesso di ottimismo, come l'ennesimo successo annunciato.

Il resto è fredda cronaca: da Alfano a Casini, da Maroni a Fitto, l’intero centro-destra si ricompatta attorno al suo vecchio leader, risorto dalle ceneri dei servizi sociali con tanto di stimmate da padre costituente; mentre il PD, smarrito ogni alleato nelle strettoie dell’Italicum, potrebbe ritrovarsi prigioniero di quella stessa “vocazione maggioritaria” che, ispirando il progetto veltroniano del “partito gazebo”, fu la principale causa della più rovinosa sconfitta mai subìta dalla sinistra italiana.

Cinque anni dopo, la storia sembra ripetersi: anche allora il fu Cavaliere imperversava sul palco della Fiera di Cagliari, imponendo a Cappellacci di lasciare mestamente campo libero alla sua girandola di invettive, promesse mancate, menzogne prodotte in serie; anche allora il “dialogo sulle riforme” gli aveva permesso di trasformare il predellino della Brambilla nel trono di Palazzo Chigi. Ora come allora, l’eterno ritorno dell’uguale: come nel peggiore film di seconda visione, tra liste bloccate, premi di maggioranzee norma salva-Lega, l’Italicum rischia infatti di produrre un solo vincitore. L’Italicum: l’estasi di Berlusconi.

Carlo Dore jr.
(cagliari.globalist.it)


giovedì, gennaio 16, 2014

MA "KELLEDDA" NON E' L'ALTERNATIVA

In un lungo articolo pubblicato il 15 gennaio sul “Fatto quotidiano”, Lorenzo Fazio descrive la candidatura di Michela Murgia alla carica di Presidente della Regione Sardegna come l’ennesimo momento di riscossa del civismo democratico in confronto del “sistema marcio” da cui anche “la sinistra non è immune”, come un esaltante frammento di “politica partecipata” che i media collusi con i palazzi del potere tentano in ogni modo di occultare allo scopo di “non togliere spazio al PD”.



Al netto di qualche errore di impostazione (l’autore forse ignora il fatto che alcuni candidati presenti nelle liste collegate alla scrittrice di Cabras hanno a lungo ricoperto incarichi di primo piano nell’ambito di quel “sistema marcio” dei partiti di cui oggi invocano il superamento) e di una lettura quantomeno discutibile degli orientamenti dei principali media isolani (certamente non “allineati” alle forze del centro-sinistra), l’interessante scritto di Fazio costituisce lo spunto per proporre alcune considerazioni sulla politica sarda alla vigilia del voto.


Il ragionamento dell’editore di Chiarelettere muove da un presupposto accettabile: la critica alle troppe incertezze manifestate dal PD nel tentativo di contrapporsi, nel corso della legislatura appena conclusa, allo strapotere di quella che probabilmente è stata la peggiore espressione della destra berlusconiana, incertezze drammaticamente palesatesi nella scelta di non precludere la presenza nelle liste a tutti i soggetti coinvolti nelle indagini relative alla gestione dei fondi destinati ai vari gruppi presenti in Consiglio regionale.


Le incertezze del PD imporrebbero la ricerca di un’alternativa: ecco allora che il riferimento dei tanti indignados sparsi per il Campidano viene individuato nel sorriso della scrittrice reinventatasi guru di una politica de-ideologizzata che non vuole essere né di destra, né di sinistra; nella leadership carismatica della self made woman che attraversa l’Isola con il rituale artificioso della nomina degli assessori virtuali; nella retorica ruspante ed un tantino naif della “rinascita del sogno indipendentista”. “Il sistema è marcio” tuonano i novelli epigoni di Braveheart in salsa barbaricina; il sistema è marcio, e “Kelledda” Murgia è l’unica alternativa.


Ma è davvero così? Davvero le forze dell’area democratica hanno smarrito la loro capacità di individuare nella questione morale il substrato essenziale della propria strategia politica? Davvero il centro-sinistra ha perso ogni canale di collegamento con la società sarda, dimostrandosi non in grado di valorizzare le eccellenze che vivono in seno ad essa? Forse no: forse un barlume di speranza è rimasto, forse il “sistema marcio” ha ancora degli anticorpi. E’ infatti nella prospettiva della riaffermazione della questione morale che si giustifica il “passo indietro” richiesto a gran voce a Francesca Barracciu da quella fetta di elettorato progressista che non si stanca di rivendicare “liste pulite”, e di pretendere trasparenza e rigore nella formazione della classe dirigente. Ed è nel quadro della valorizzazione delle eccellenze che trova la sua ragion d’essere la candidatura di Francesco Pigliaru, economista di chiara fama formatosi tra Milano e Cambridge, profondissimo conoscitore della realtà locale e delle cause che hanno frenato lo sviluppo di una terra prossima al collasso.


Centralità della questione morale, valorizzazione delle eccellenze: la rispettabile critica di Fazio al sistema esistente non può condurre al venire meno di ogni speranza, non può impedire ai democratici sardi di proporre un’alternativa al basso impero della destra berlusconiana. Un’alternativa che non si esaurisce nello sterile indipendentismo dei seguaci di Kelledda, un’alternativa che intende favorire il rilancio della Sardegna non isolandola in logiche identitarie, ma restituendole centralità a livello nazionale ed internazionale. Centralità della questione morale, valorizzazione delle eccellenze: sì, malgrado la crisi del “sistema marcio” una speranza è rimasta. Per la Sardegna, e per i progressisti sardi.



Carlo Dore jr.