martedì, dicembre 23, 2008








QUESTIONE MORALE E “DEBERLINGUERIZZAZIONE” DELLA SINISTRA

Il ciclone giudiziario che, dalla Campania all’Abruzzo, ha coinvolto alcune importanti amministrazioni di centro-sinistra ha contribuito ad alimentare ulteriormente la strisciante sensazione di sfiducia e disappunto che ha pervaso l’area democratica all’indomani della bruciante sconfitta elettorale del 14 aprile. Mentre Berlusconi si erge, tra lo sconcerto di buona parte dell’opinione pubblica internazionale, a paladino della concezione etica della politica , i principali leaders del PD agitano ancora una volta il fantoccio del “ma-anchismo”, nel disperato tentativo di promuovere il tanto auspicato rinnovamento della classe dirigente senza essere costretti a rinunciare al bacino di voti controllato, nelle varie realtà locali, dai tanti “capi – bastone” afferenti alle oligarchie post-democristiane e post-diessine.
Così, all’elettorato progressista non rimane che interrogarsi su quale perversa connessione di fattori dissolventi abbia potuto determinare la trasformazione del partito erede della migliore tradizione della sinistra italiana in una terra di conquista per un confuso manipolo di cacicchi assetati di potere, apparentemente più interessati ad assicurarsi lo stabile controllo di un feudo che a perseguire l’interesse generale.
La risposta a siffatto quesito può essere rinvenuta nell’infelice titolo di un pamphlet pubblicato alla fine degli anni’90, titolo che intendeva manifestare tutte le aspirazioni di cambiamento dei DS in marcia verso il Terzo Millennio: “dimenticare Berlinguer”. Che significato poteva riconnettersi a questa strana perifrasi? “Dimenticare Berlinguer” voleva dire superare l’idea di una sinistra capace di imporre il suo primato etico sui mostri prodotti dall’impero del CAF; voleva dire rinunciare al dogma dell’antiberlusconismo per favorire la stagione delle larghe intese e delle riforme condivise; voleva dire rimpiazzare il modello del partito “del popolo” con un modello di partito più capace di dialogare con i grandi centri del potere economico.
Insomma, in altre parole, dimenticare Berlinguer voleva dire dimenticare la sinistra; voleva dire immolare quel patrimonio di idee, valori e passioni che avevano attraversato il secolo breve sull’altare del pallidissimo (ed, al momento, ancora indefinibile) riformismo all’italiana.
Paradossalmente, questa fase di “deberlinguerizzazione” delle forze derivanti dallo scioglimento del PCI ha avuto inizio proprio nel momento in cui la stagione di Tangentopoli rilevava in tutta la sua evidenza la correttezza dei postulati su cui si fondava la “questione morale” posta dal Segretario nel 1981: i partiti di governo avevano infatti perso la loro tradizionale funzione di strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese, risultando ormai degradati al ruolo di supporto per quel sistema di corruzione istituzionalizzata destinato a crollare, pezzo dopo pezzo, sotto il maglio delle inchieste del pool di Mani Pulite. Il partito “anti-sistema” era ormai solo un ricordo: toccava agli eredi di Berlinguer proporsi agli occhi dei cittadini come credibile forza di governo, per assicurare il compimento di quell’opera di moralizzazione della res publica di cui il delfino di Togliatti aveva, per primo, avvertito la necessità.
Ma il gruppo di comando del PDS prima e dei DS poi ha perseguito una diversa strategia, ispirata più ad una logica di moderata conservazione che ad una radicale vocazione al cambiamento. In tal senso, non solo si è scelto di non combattere con la necessaria energia il fenomeno berlusconiano - sotto le cui insegne si era nel frattempo riunito un variegato sottobosco di fascisti in doppio petto, squadristi in camicia verde e naufraghi della Prima Repubblica, abilissimi nel trasformare agli occhi dell’opinione pubblica le inchieste dei magistrati di Milano in una sorta di intifada condotta da un commando di toghe militanti -, ma si è anche deciso di non promuovere la formazione di quella nuova classe dirigente capace di restituire una dimensione “etica” alla politica frantumata dagli scandali della Milano da bere, giungendo persino il vertice della Quercia ad attribuire ad alcuni reduci del craxismo un ruolo di primo piano nella costruzione del nuovo centro-sinistra.
La deberlinguerizzazione dei progressisti è per forza di cose culminata nella affrettata creazione del Partito Democratico, nel tentativo di celare sotto una formula politica accattivante e sotto le parole fluenti di un leader dalla faccia pulita la palese mancanza di un programma chiaro, di un forte substrato ideologico di riferimento, di canali di comunicazione con la società civile. Tuttavia – è lecito domandarsi - se un partito risulta privo di questa minima base ideologica e programmatica, allora di questo partito cosa rimane? Semplice: rimane il potere. Rimangono i cacicchi a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nella sua ultima intervista rilasciata al Corriere della Sera; rimane la vocazione di questi ultimi a consolidare la loro influenza nell’ambito di un partito che al momento è terra di nessuno; rimangono quei “capi-bastone” a cui solo ora Veltroni sembra intenzionato a dichiarare guerra.
Ma dinanzi ad un simile status quo, non si può non chiedere: che ne è del popolo della sinistra? Quale sorte attende i tre milioni e mezzo di elettori che, non più di un anno fa, affollavano i seggi delle primarie, attratti ancora una volta dalla falsa speranza di un rinnovamento possibile? Come si può restituire fiducia nella politica a quella fetta dell’area democratica abruzzese, che ha disertato in massa le urne dopo le vicende che hanno portato alle dimissioni della giunta guidata da Del Turco?
La risposta è una sola: nel rapportarsi alla questione morale interna al PD, Veltroni si ricordi della lezione di Berlinguer, della lezione che adesso impone a tutte le forze progressiste di opporsi con fermezza ad una proposta di riforma della giustizia volta unicamente a sottoporre la magistratura requirente al giogo della politica, e di favorire (attraverso la formulazione di liste non riservate ai politici di professione ma finalmente aperte ai migliori settori della società civile) quel ricambio generazionale ai vertici dei partiti di cui il Paese dimostra di avere disperatamente bisogno. Nella piena consapevolezza del fatto che “la deberlinguerizzazione” dei progressisti ha già prodotto troppi danni alla sinistra italiana.

Carlo Dore jr.

lunedì, dicembre 01, 2008


IL METODO DEMOCRATICO E LA “TEORIA DEL CALCIONE”

Le dimissioni del Presidente Soru costituiscono l’ennesima conferma della frattura che da mesi divide il centro-sinistra sardo, frattura venuta in essere a seguito della vittoria di Antonello Cabras alle primarie per la leadership del PD svoltesi nell’ottobre del 2007, ed ulteriormente alimentata dalla “guerra delle carte bollate” divampata dopo elezione di Francesca Barracciu alla segreteria regionale del nuovo soggetto politico.
Indipendentemente da ogni valutazione relativa al merito del provvedimento in ordine al quale si è consumato l’ultimo (e forse definitivo) strappo tra il Governatore e l’ala riformista della maggioranza di governo, una seria analisi dei fatti che stanno animando la fase conclusiva dell’attuale legislatura non può che muovere da due considerazioni fondamentali.
In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto da Paolo Maninchedda nel suo intervento sul “Giornale di Sardegna” dello scorso giovedì, le dimissioni del Presidente della Giunta non devono essere interpretate come la reazione incontrollata ed un po’ isterica di un monarca ormai senza corona, urtato nel suo smisurato ego dall’atteggiamento di quei sudditi che si sono, per una volta, rifiutati “di fare la Sua volontà”. Al contrario, queste dimissioni rappresentano un atto dovuto, alla luce delle regole che presiedono al funzionamento di una democrazia degna di tale nome: posto che l’Esecutivo risponde al Consiglio delle scelte che ispirano il suo operato, il Presidente della Giunta è tenuto a dimettersi se riscontra una rottura del vincolo fiduciario in relazione ad un profilo qualificante del suo programma come il governo del territorio.
In secondo luogo, si deve rilevare come una parte consistente dell’area democratica isolana sembra avere ormai sposato quella che potremmo definire “la teoria del calcione”: in base a questa corrente di pensiero, per la sinistra sarda sarebbe preferibile sopportare cinque (o dieci) lunghi anni di opposizione piuttosto che sostenere la corsa di Soru verso la riconferma a Villa Devoto. In altri termini, sarebbe auspicabile che l’elettorato tirasse il classico calcione a Mr. Tiscali ed alla sua vocazione di Uomo solo al comando, e pazienza se questa operazione finirà con lo spianare alla destra la strada verso il Governo della Regione. Le responsabilità della sconfitta non sarebbero imputabili a chi ha manifestato dissenso verso la politica dell’Esecutivo, ma a chi ha generato questo dissenso deludendo puntualmente tutte le aspettative maturate dopo la travolgente vittoria del 2004.
Premesso che, specie in questa particolare fase storica, tutte le opinioni meritano di essere esaminate con grande rispetto e senso dell’equilibrio, quella fetta di popolo progressista che ancora dispone della forza necessaria per non voltare le spalle alla politica ora ha il dovere di domandarsi: possiamo accettare una simile costruzione? Possiamo chiudere gli occhi e contribuire, seppure tramite una mera omissione, a riconsegnare la Sardegna nelle mani dei sodali del Caimano?
La risposta è: no, non possiamo. Lo impedisce la nostra storia, la storia delle tante battaglie combattute dalle forze della sinistra sarda (in cui rientra a pieno diritto anche quella componente del Partito Sardo d’Azione che tuttora rifiuta di recepire l’assunto in base al quale la differenza tra destra e sinistra sarebbe definitivamente venuta meno) a difesa dei valori della democrazia, del lavoro e della giustizia sociale. Lo impedisce ancor più il nostro presente, un presente in cui siamo chiamati a mobilitarci contro la destra delle leggi ad personam e del razzismo strisciante, della demolizione dell’istruzione pubblica e dello smantellamento di ogni forma di welfare state.
Tutto ciò premesso, la crisi del centro-sinistra in Sardegna non può essere risolta con la costante delegittimazione del Governatore in carica, con la guerra delle carte bollate o con la teoria del calcione: questa crisi si risolve, più semplicemente, operando con metodo democratico. Al termine di un’esperienza di governo caratterizzata da ombre e luci, Soru si propone per il secondo mandato, sulla base di un progetto politico non condiviso da parte della sua attuale maggioranza. Bene: le varie anime del fronte anti-soriano riflettano sull’opportunità di avanzare una candidatura credibile, capace come tale di declinare una proposta alternativa rispetto a quella prospettata da Mr. Tiscali.
Se questa alternativa esiste, ben vengano le primarie di coalizione, se aperte ai soli tesserati dei partiti di riferimento e soprattutto se regolate in modo tale da risultare impermeabili alle eventuali azioni di disturbo di qualche manipolo di berluscones in libera uscita. Ma se questa alternativa non è al momento configurabile, allora la leadership di Soru deve essere riconosciuta come l’unica strada percorribile per affrontare una tornata elettorale che i democratici potrebbero paradossalmente vincere, una volta superate divisioni e lotte intestine.
Dinanzi ad un simile status quo, anche i principali oppositori del Presidente sarebbero chiamati a favorire quel “ritorno alla politica” di cui la Sardegna avverte disperatamente bisogno, concorrendo all’elaborazione di un programma di governo in grado di ricompattare l’elettorato progressista sulle grandi questioni di rilevanza regionale, e contribuendo soprattutto alla formazione di liste finalmente aperte ai principali settori della società civile, presupposto indispensabile per avviare un effettivo rinnovamento di quella classe dirigente che da troppo tempo regge le sorti dell’Isola. Nella piena consapevolezza del fatto che il metodo democratico risulta, alla lunga, poco compatibile con la “teoria del calcione”.

Carlo Dore jr.