martedì, ottobre 03, 2006


D’ALEMA, BERLINGUER E IL PARTITO DEMOCRATICO

In un’intervista apparsa sull’ultimo numero di “Panorama”, Massimo d’Alema ha affrontato il problema relativo alla collocazione ideologica del futuro Partito Democratico, individuando, in base ad una linea di ragionamento sostanzialmente coincidente con quella proposta da Veltroni nel suo intervento alla Festa de “l’Unità” di Pesaro, nell’attuazione di siffatto progetto politico l’ideale completamento della strategia del compromesso storico avviata da Berlinguer nel lontano 1973.
Premesso che non può sfuggire ad un osservatore attento come l’attuale Ministro degli Esteri scelga sempre il periodico di casa Berlusconi per rivolgersi alle anime moderate della coalizione (emblematica in questo senso fu la dichiarazione in cui egli sosteneva la sostanziale ingiustizia dell’esecuzione di Mussolini in quanto non preceduta da un regolare processo), l’argomentazione diretta a dimostrare che “oggi Berlinguer vorrebbe il Partito democratico” costituisce, a mio sommesso avviso, un falso storico di dimensioni macroscopiche.
Se infatti si può ammettere che la politica del Segretario sassarese identificava nel dialogo tra masse operaie e masse cattoliche (presupposto imprescindibile per la configurazione del PCI quale forza rappresentativa del socialismo moderno, definitivamente affrancata dal giogo di Mosca) l’unica via italiana per l’affermazione della socialdemocrazia, non può del pari negarsi che siffatta strategia non imponeva in alcun modo alla principale realtà della sinistra di rinunciare alla propria identità e al proprio ruolo di protagonista nelle Istituzioni e nel Paese.
Queste considerazioni trovano conferma nei passaggi centrali della famosa intervista rilasciata a Repubblica nel 1981, laddove il delfino di Togliatti, nel proporre la questione morale in confronto delle varie componenti del nascente CAF, metteva in risalto le ragioni di quella diversità etica ed ideologica che precludeva l’assimilazione del Partito Comunista agli altri movimenti che allora imperversavano a Montecitorio.
Posto che, pur nel rispetto dello spirito collaborativo imposto dalla logica di coalizione, tali ragioni di diversità rimangono tuttora inalterate, appare evidente come la creazione di un unico soggetto politico derivante dalla fusione fredda tra DS e Margherita rappresenterebbe sotto un duplice aspetto una radicale negazione dell’appena descritta questione morale.
Da un lato, essa imporrebbe ai Democratici di Sinistra di dismettere una volta per sempre l’identità socialista - che ancora caratterizza la maggioranza dei militanti - per venire incontri alle istanze moderate proposte da realtà le quali, per cultura e tradizione, del socialismo non possono condividere principi e valori; d’altro lato, risolvendosi in un partito destinato a riconoscersi nell’ovattato modello stile liberal proprio dei Democratici statunitensi, gli eredi di Gramsci si precluderebbero la possibilità di esercitare quella funzione di punto di riferimento per tutti i progressisti d’Italia che Berlinguer intendeva attribuire al Partito da lui guidato.
Alla luce di queste considerazioni, tra i tanti dubbi che attualmente tormentano la sinistra italiana, una piccola certezza può considerarsi acquisita: se per avventura il Segretario sassarese si fosse trovato ad operare nell’epoca dei reality show e della globalizzazione, delle guerre preventive e del berlusconismo imperante, il Partito Democratico non sarebbe stato al centro del suo patrimonio ideologico.

Carlo Dore jr.