mercoledì, ottobre 22, 2008


RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E RIFORMA DEI GIUDICI:
IL PARADOSSO DI UNA MAGISTRATURA A “SOVRANITA’ LIMITATA”

In una serie di interventi pubblicati sull’ultimo numero di Micromega, alcuni tra i più noti magistrati italiani – da Felice Lima a Antonio Ingroia, da Piercamillo D’Avigo a Bruno Tinti, da Giancarlo Caselli all’ex PM Gherardo Colombo – si interrogano sulle prospettive della “controriforma” della Giustizia al momento all’esame del Governo.
Mentre il Presidente del Consiglio imperversa tra le principali discoteche di Milano, proponendo ai risparmiatori allarmati dall’improvvisa crisi dei mercati di investire i loro risparmi nelle azioni delle società del gruppo Mediaset (alla faccia di chi non ritiene più attuale la questione del conflitto di interessi), la strategia elaborata dal Guardasigilli Alfano con il placet dell’onnipresente avv. Ghedini per ridisegnare una volta per sempre il nostro sistema giudiziario sembra muoversi lungo tre direttrici fondamentali: superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, con conseguente attribuzione al Parlamento del potere di indicare i reati da perseguire prioritariamente; separazione delle carriere di giudici e PM – degradati al ruolo di “avvocati dell’accusa” -; revisione delle prerogative del CSM, reso più contiguo rispetto al sistema politico.
Di fronte ad un simile status quo, ogni giurista democratico dovrebbe porsi due interrogativi fondamentali: quali sono le principali carenze della giustizia italiana? E soprattutto, le misure proposte dal Ministro della Giustizia e dall’avvocato del premier contribuiranno ad individuare una soluzione ragionevole a tali problemi?
Muovendo dal primo degli interrogativi appena formulati, anche i non addetti ai lavori non faticherebbero più di tanto ad individuare i profili di criticità del nostro sistema giudiziario: la giustizia italiana funziona male perché i processi sono lenti (e sono lenti perché i reati da perseguire sono troppi, e la disciplina processuale si presenta talvolta come complessa e farraginosa), perché i magistrati sono pochi e spesso gravati da eccessivi carichi di lavoro, perché le strutture sono obsolete e spesso inadeguate.
La Giustizia italiana funziona male perché, come correttamente osservava Bruno Tinti, dovrebbe essere sottoposta ad una serie di profonde riforme strutturali, molte delle quali per giunta praticabili “a costo zero”: se infatti mancano le risorse per assumere nuovi magistrati, nuovi cancellieri e nuovi ufficiali giudiziari, perché non provvedere a trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati “bagatellari”, al fine di dare un minimo di respiro ad un sistema prossimo al collasso? Perché non provvedere a razionalizzare gli assetti degli uffici giudiziari, in modo da garantire un più equilibrato sfruttamento delle risorse disponibili? E perché, al limite, non ripensare il sistema delle impugnazioni, così da destinare ad altre funzioni i magistrati che attualmente operano come PM e giudici di appello?
Venendo quindi al secondo quesito oggetto di queste nostre riflessioni, nel momento in cui ci si domanda se le misure elaborate dal Governo possano contribuire ad eliminare le ataviche carenze del nostro sistema giudiziario, la risposta non può che essere di segno negativo. Scandita dagli stesso ritmi che caratterizzano l’incedere del Presidente – ballerino tra le discoteche di corso Como, la strategia di Ghedini e Alfano tende non “a riformare la giustizia”, ma a “riformare i giudici”, a paralizzare cioè l’azione delle presunte “toghe politicizzate” attraverso una definitiva “politicizzazione della Magistratura” in senso conforme alla volontà del potere politico. Insomma, la sensazione è che i luogotenenti di Berlusconi intendano superare il modello della Magistratura intesa come ordine indipendente ed autonomo rispetto ad ogni altro potere dello Stato per proporre un diverso modello di Giustizia, basato sul paradosso di una Magistratura “a sovranità limitata”.
Tuttavia, dinanzi all’ennesima offensiva scagliata dal potere politico in confronto del potere giudiziario, un’altra domanda sorge spontanea: cosa accadrebbe se, in una qualsiasi altra democrazia occidentale, il premier in carica imponesse l’approvazione di una legge che di fatto paralizza tutti i processi in cui egli risulta essere al momento imputato, processi peraltro relativi a fatti del tutto privi di connessione con la sua attività politica?
E quale scenario si profilerebbe se, in un paese come l’Inghilterra o gli Stati Uniti, il Ministro della Giustizia paventasse la possibilità di attribuire al Parlamento ed al Governo il potere di indicare ai magistrati i reati da perseguire e quelli da lasciare impuniti, di dirigere l’azione dei Pubblici Ministeri e di erogare sanzioni disciplinari nei confronti degli stessi appartenenti all’ordine giudiziario? Anche la risposta sorge spontanea: opinione pubblica in rivolta, cittadini in piazza per invocare le dimissioni dell’intero Esecutivo, partiti di opposizione pronti a dare battagliain tutte le sedi istituzionali.
Ciò malgrado, la strategia finora seguita dal Partito Democratico in materia di giustizia risulta quantomeno contraddittoria. Alla rigorosa intransigenza propria di alcuni progressisti autentici come Gerardo d’Ambrosio o Furio Colombo, si contrappongono le posizioni dialoganti dei vari Enzo Bianco, Anna Finocchiaro ed Enrico Morando, i quali - nel ribadire che la principale forza di opposizione non deve assumere la funzione di “paladino dei giudici”, per evitare che Berlusconi appaia ancora come l’innovatore agli occhi dei cittadini – hanno addirittura auspicato che “sia il PD a proporre che il Parlamento, una volta l’anno, fissi degli indirizzi, indichi una lista di reati socialmente più pericolosi che devono avere la priorità”, considerato anche come sia ormai fuori luogo ogni discussione sull’opportunità di procedere alla separazione delle carriere di giudici e PM e come la “degenerazione correntizia” all’interno del CSM renda comunque necessaria una modifica del funzionamento dell’organo di autogoverno delle toghe.
Ma a questo punto, è necessario comprendere se il PD intende mantenere il ruolo – storicamente assunto dalle principali forze della sinistra italiana – di difensore della legalità costituzionale messa in pericolo dalla deriva autoritaria imposta dallo strapotere berlusconiano, o se invece intende proseguire nella linea morbida dell’opposizione riformista, lasciando a Di Pietro il monopolio assoluto della materia della giustizia e della questione morale. Forse, qualche risposta in questo senso potrà pervenire dalla manifestazione in programma a Roma il 25 ottobre: tastando gli umori dell’elettorato democratico, sarà infatti possibile intuire se il principale partito di opposizione riuscirà ancora a mobilitarsi a difesa dei valori consacrati nella Carta Fondamentale, o se invece finirà con l’abbandonare una volta per sempre i magistrati al loro destino, rassegnandosi ad accettare il paradosso di una Giustizia a sovranità limitata.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

giovedì, ottobre 09, 2008


“MIRACOLO A SANT’ANNA”:
VINCITORI E VINTI SECONDO SPIKE LEE

Il film di Spike Lee dedicato alla strage compiuta dai nazisti a Sant’Anna di Stazzema, attualmente in proiezione nelle sale di tutta Europa, è stato oggetto di molteplici rilievi critici da parte di alcuni autorevoli storici ed opinionisti, rilievi critici resi ancor più penetranti dal rifiuto – sbrigativo ed un po’ sprezzante – del regista di Atlanta di scusarsi con i rappresentanti delle associazioni dei partigiani per la sua personale rivisitazione di una delle pagine più nere dell’occupazione nazifascista in Italia.
Premesso che, come correttamente è stato osservato, la principale funzione di un film è “raccontare una storia” e non “raccontare la Storia”, la sensazione che mi ha procurato la visione di “Miracolo a Sant’Anna” è quella di una pellicola di buona qualità, che cerca di proporre due messaggi diversi con esiti diametralmente opposti. Efficace e crudele nel rilevare la triste condizione in cui i soldati di colore versavano nell’America degli anni’40, l’ultima fatica di Spike Lee scade rapidamente di tono nel momento in cui cerca di “revisionare la Resistenza”, nel tentativo – in verità assai frequente nell’Italia del “nuovo che avanza” – di obliterare la linea di confine che separa vincitori e vinti della guerra di Liberazione.
Narrando di un partigiano traditore a cui viene di fatto imputata la responsabilità della strage di Sant’Anna, di un soldato tedesco che cerca di salvare due bambini dalle pallottole della Panzer Division, di un capitano delle SS che non si piega alla follia sanguinaria del Reich e di un bandito della montagna costretto ad ammettere che “davanti a Dio saremo tutti eguali, partigiani e fascisti”, l’acclamato regista de “La venticinquesima ora” prova a convincere lo spettatore che “il bene ed il male non stanno mai da una sola parte”, e che gli eccessi, i tradimenti, le vessazioni che ogni conflitto fatalmente genera finirono con l’intaccare anche l’anima di coloro i quali si sono accreditati come liberatori agli occhi della Storia. La Russa e Alemanno non possono che esultare: la prospettiva di un convinto sostenitore di Barack Obama che sembra attestarsi sulle posizioni di Giampaolo Pansa costituisce un’autentica benedizione per i tanti cantori del revisionismo presenti nelle fila della destra berlusconiana.
Forse Spike Lee avrebbe dovuto dedicare qualche ora alla lettura di “Tango e gli altri”, l’ultimo (bellissimo) romanzo di Francesco Guccini e Loriano Machiavelli, in cui anche il mitico maresciallo Santovito (personaggio amatissimo da tutti gli appassionati del noir italiano) si trova ad indagare sulla sommaria esecuzione di un partigiano, giustiziato dai suoi commilitoni in quanto ritenuto responsabile di una strage mai commessa. Avrebbe infatti rilevato come da quelle pagine traspare una morale diversa da quella che ispira il suo film: la morale secondo cui c’è ancora chi rifiuta che un’indagine su un crimine di guerra, su un singolo fatto di cronaca nera venga utilizzata per gettare fango sull’intera Resistenza. Insomma, per usare le parole dello stesso Guccini, la Resistenza non si tocca.
Ma allora basta la storia di un tradimento – in realtà mai avvenuto – a rimescolare le posizioni di vincitori e vinti? Bastano le immagini di un partigiano assassino divorato dal desiderio di vendetta e di un soldato della Panzer Division con la vocazione dell’eroe a rendere partigiani, fascisti e SS “tutti uguali dinanzi al giudizio di Dio”? No, non bastano. In questo convulso intersecarsi di storie, abbiamo rischiato di perdere di vista i protagonisti più importanti: abbiamo rischiato di perdere di vista i seicento morti di Sant’Anna di Stazzema, abbattuti a sangue freddo e poi divorati dai lanciafiamme dei militari del Reich, nella complice indifferenza di quegli stessi repubblichini che oggi qualche improvvido politico propone di commemorare.
Per avere lasciato i martiri di Sant’Anna sullo sfondo del suo tentativo di “raccontare una storia”, Spike Lee farebbe bene a chiedere scusa. E farebbe bene a chiedere scusa per avere ignorato la morale del romanzo di Guccini e Machiavelli: l’Italia non è ancora soltanto il Paese del revisionismo e delle croci celtiche, è anche il Paese di chi non accetta che singoli episodi (reali o fantasiosi che siano) vengano usati per mettere in discussione la Resistenza nel suo complesso. In questo Paese, c’è ancora chi sostiene che la Resistenza non si tocca.

Carlo Dore jr.