martedì, dicembre 14, 2010

L’ESTASI DEL PREDONE


Il finale di quello che alcuni commentatori hanno descritto come “il giorno più lungo dell’era berlusconiana” sembra davvero ispirata alla scena conclusiva de “Il Caimano” di Nanni Moretti: il Cavaliere si concede all’applauso della sua variegata platea di ministre, coordinatori, pontieri e cortigiani di vario ordine e grado; il suo governo è salvo grazie al ribaltone praticato da tre ex oppositori reclutati in tutta fretta attraverso pratiche di mala politica di cui spetta alla Magistratura verificare la legalità. Intanto, fuori da Montecitorio, Roma è messa a ferro e fuoco da una moltitudine di contestatori inferociti: siamo alla sintesi perfetta, Berlusconi regna su un Paese in fiamme. Siamo alla sintesi perfetta: La Russa ride e Pompei crolla; Letta ragiona e L’Aquila è sommersa dalle macerie; la Mussolini si agita e Napoli affoga nei rifiuti. Arrivano Razzi, Calearo e Scilipoliti: il Governo è salvo, dove non arriva la fedeltà al Capo arrivano le mediazioni di Denis il banchiere e la forza persuasiva di Silvio il tycoon che idolatra Putin ed imita Gheddafi. Razzi e Calearo, Scipoliti e le colombe finiane: è l’estasi del berlusconismo, l’estasi del premier che Giuseppe D’Avanzo ha efficacemente definito “Il Predone”.

Ma ora che l’aula è vuota e che la battaglia è finita, ora che le grida dei vincitori si perdono nel buio di questa ennesima Notte della Repubblica, cosa resta di questa folle giostra di incontri e scontri, vertici e caminetti, dichiarazioni e smentite, conversioni e riconversioni che da mesi alimenta il sempre più derelitto circuito della politica italiana? Resta un Governo appeso all’esile filo del consenso di tre acrobati dei banchi parlamentari, contorti nel linguaggio e spudorati nella ricerca di prestigio e potere. Resta un Presidente del Consiglio in crisi di consensi e di credibilità, in fuga dagli anni che passano e dai processi che incombono, disperatamente abbarbicato alla sua immagine di self made man ed allo scudo del legittimo impedimento. Resta un Paese pericolosamente anestetizzato nella sua capacità di indignarsi, in cui opportunismo, trasformismo, corruzione e meretricio vengono proposti agli occhi dell’opinione pubblica come le normali componenti di quella falsa realtà che trasuda ogni giorno dagli editoriali di Minzolini come dalle interviste di Straquadanio.

Resta soprattutto quel “Vergogna! Vergogna! Vergogna!” sparato a pieni polmoni da Bersani sulla folla riunita in Piazza San Giovanni, meravigliosa zattera di democrazia sulla quale si appuntano le residue speranze di quanti ancora progettano giorni migliori per questa Italia alla deriva. “Vergogna! Vergogna! Vergogna!”: tre parole per sigillare il giorno più lungo di Razzi e Scilipoti, dei cambi di casacca e dei mutui da pagare. “Vergogna! Vergogna! Vergogna!”: le ultime parole da spendere al crepuscolo dell’estasi del Predone.

Carlo Dore jr.

mercoledì, dicembre 08, 2010



PROSSIMA FERMATA: ARCORE. ROTTAMATE IL ROTTAMATORE.

Prossima fermata: Arcore. Il treno di Matteo Renzi, sindaco di Firenze nonché leader indiscusso ed indiscutibile del nuovo rinascimento democratico ispirato al rinnovamento ed all’archiviazione delle vecchie ideologie, fa tappa nel feudo del premier che della politica deidologizzata ed anti-ideologica è stato ispiratore e principale artefice. I quarant’anni di differenza che li dividono non impediscono a Silvio e Matteo di riconoscersi l’uno nell’altro. Berlusconi sorride e sospira: averne, di Renzi. Averne, di amministratori dalla battuta pronta e dal sorriso che cattura, capaci sempre e comunque di cavalcare la tigre del rinnovamento contro i vecchi parrucconi della politica. Averne, di oppositori che progettano di sacrificare le parole “sinistra”, “progressismo”, “giustizia sociale” sull’altare di internet, delle nuove tecnologie e della green economy, di rimpiazzare la polverosa icona di Berlinguer con le colorate immagini di Willy il coyote.

Renzi piace a Berlusconi, perché, politicamente parlando, Renzi è un prodotto di Berlusconi. E’ un prodotto di una politica semplificata ai minimi termini, radicalizzata a scontro tra tifoserie, dove lo spettacolo prevale sul contenuto, dove il carisma del leader basta a sopperire alla mancanza di contenuti appassionanti, di elaborazione programmatica, di proposte di alto profilo. Leaderismo, radicalismo, banalizzazione: in una parola, concezione anti-ideologica della politica. E’ questa l’idea di fondo di Renzi: la rottamazione come superamento di tutto ciò che sa di vecchio, di orientato, di ideologico; la proposizione di un modello fatto di parole semplici e gradevoli, in cui i concetti si alternano alle note sparate un po’ a caso dalla tastiera di una consolle. Matteo cresce e miete consensi, con la sua parlata toscana sa come bucare il video: è un Obama che sa un pò di Pieraccioni, un leader fuori dagli schemi, come il Berlusconi del 1994. Stessa strategia, identico percorso: la clava del rinnovamento utilizzata come strumento di potere.

Il rottamatore varca con passo sicuro i cancelli di Arcore: le critiche dei moralizzatori ad ore non lo sfiorano, per parlare di Firenze abbatte le barriere delle idologie. I passionari riuniti alla Leopolda si spellano le mani: scelta forse discutibile nella forma, ma ineccepibile nella sostanza; il problema è che in politica le forme contano eccome.

Pierluigi Bersani osserva e scuote la testa: lui ad Arcore non sarebbe andato. Ma Bersani è l’emblema della vecchia poltica, il primo rottamabile della lista di Matteo: è ancorato a quella fetta di popolo che - indifferente alla green economy, ad internet ed alle nuove teconologie - continua ad individuare nella concezione del partito strutturato, nelle battaglie sociali, nei temi del lavoro, nella lotta ad ogni forma di conflitto di interessi i presupposti imprescindibili per predisporre quell’alternativa in grado di assicurare giorni migliori ad un Paese alla deriva.

Bersani rappresenta un modello di politica che Renzi percepisce come lontano ed alieno: alieno come Obama rispetto a Pieraccioni, come Berlinguer rispetto a Willy il coyote. Un modello di politica che non rinuncia agli steccati ideologici, nella convinzione che il superamento del berlusconismo non passi necessariamente dalla riproposizione in chiave riformista dogma delle convention spettacolo, della contrapposizione tra vecchio e nuovo, del rapporto diretto tra leader e popolo. Un modello secondo cui le parole “sinistra”, “progressismo”, “giustizia sociale” non costituiscono soltanto simboli impolverati di un’epoca che non esiste più, ma continuano a rappresentare la chiave dell’alternativa, i punti di riferimento di quanti vogliono assicurare giorni migliori per l’Italia, senza individuare nel treno del rinnovamento la più comoda scorciatoia verso il potere.

Prossima fermata: Arcore. Berlusconi si specchia in Renzi. Prossima fermata: Arcore. Rottamate il rottamatore.

Carlo Dore jr.

lunedì, novembre 01, 2010


LE DUE ITALIE A CONFRONTO NELL’EPOCA DEL BUNGA BUNGA


Le due Italie dell’epoca del bunga bunga si fronteggiano a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, divise come sono dall’oceano di un breve tratto di autostrada, dalla trincea ideale che separa due tavoli da conferenza stampa. Da Napoli a Bruxelles, Berlusconi parla alla sua Italia di un Paese che non esiste, rivendica miracoli che non ha realizzato, gonfia il petto al pensiero di successi che non ha ottenuto, fa sparire quintali di spazzatura con uno schiocco di dita, risolleva l’economia mondiale con un battito di mani. E’ il Presidente del fare che risolve i problemi concreti, ama la vita e ama le donne: perfetta congiunzione tra il “ghe pensi mì” gettato in pasto alle telecamere del TG1 ed il bunga bunga che allieta le notti di Arcore.

Parla della sua Italia alla sua Italia: all’Italia di Bertolaso e di Caldoro, degli appalti di Anemone e del metodo - Boffo, delle cricche e delle logge coperte, del lettone di Putin e delle veline al potere. Terremoti e scudi fiscali, igieniste e legittimi impedimenti consumati tra Antigua e la tenda di Gheddafi: il Lodo Alfano diventa la priorità assoluta per realizzare il perfetto sogno di impunità, la “grande, grande, grande” riforma della giustizia è la clava da agitare contro magistrati sovversivi ed alleati riottosi. La santificazione del Capo si è rifatta ideologia politica, il consenso popolare viene individuato come il lavacro lustrale che emenda ogni ipotesi di conflitto di interesse, mentre l’amato bunga bunga appare come il mantra che esprime più una filosofia di governo che uno stile di vita.

Da Roma a Bologna, Pierluigi Bersani prova a parlare all’altra Italia del Paese che esiste nella realtà dei fatti, e che soffre, giorno dopo giorno, per il morso pungente di una crisi senza precedenti. Parla col tono pacato della persona seria che non vuole conoscere il mondo dorato della Costa Smeralda; parla di un mercato del lavoro caratterizzato da una costante attenuazione dei diritti dei lavoratori; parla della disoccupazione crescente e dell’impossibilità, per gran parte delle famiglie italiane, di programmare un futuro degno di tale nome; parla della scuola e dell’università, eternamente sospese tra la scure dei tagli e le incertezze collegate alle vaghe prospettive di una riforma elaborata da un ministro in palese crisi di credibilità

Parla, e picchia esasperato il pugno sul tavolo: possibile che le prime pagine di tutti i principali quotidiani nazionali siano occupate dal Lodo Alfano e dalla barzelletta del bunga bunga? Possibile che il premier di uno dei principali stati europei possa abusare in lungo ed in largo del suo potere istituzionale, ponendo sistematicamente le sue vicende personali al centro del dibattito politico? Possibile che nessuno abbia la forza di interrompere questa deriva egocratica che sta allontanando sempre più l’Italia dalle grandi democrazie occidentali? Bersani parla a quella parte di Italia che, ancora una volta, si indigna e protesta, e che grida a tutta forza quella parola ormai sparita dal lessico usato nelle aule parlamentari: dimissioni.

La contraerea berlusconiana parte implacabile al contrattacco, nel consueto tentativo di trasformare la realtà in finzione. Ecco che le inchieste si trasformano negli ingranaggi della macchina del fango programmata per ribaltare l’esito delle elezioni; ecco che i processi vengono bollati come aggressioni premeditate, che i magistrati ed i giornalisti sono additati come terroristi mediatici alla mercé delle forze di opposizione; che perfino la menzogna e l’abuso di potere assumono i caratteri di un atto di umanità del Presidente del fare, che sa risolvere i problemi e godersi la vita. Al ritmo del bunga bunga, il conflitto di interesse è diventato normalità, il meretricio un titolo di merito, le contestazioni campagne d’odio ed i miracoli la semplice routine di un Paese che non esiste.

Nell’epoca del bunga bunga, due Italie si fronteggiano, così lontane e così vicine: la prima rivendica impunità, la seconda legalità; la prima chiede privilegi, la seconda diritti; la prima miracoli ed efficientismo ad ogni costo, la seconda moralità e normalità. Quella moralità e quella normalità che caratterizzano tutte le grandi democrazie occidentali, dove il bunga bunga rimane soltanto il finale un po’ abusato di una storiella di dubbio gusto, e non vuole esprimere una filosofia di vita inopinatamente elevata a stile di governo.

Carlo Dore jr.

sabato, ottobre 23, 2010



L’IRRAGIONEVOLEZZA DELLA DEMOCRAZIA DISEGUALE.


La nota attraverso cui il Presidente Napolitano ha espresso le proprie riserve circa la “ragionevolezza” del disegno di legge di revisione costituzionale che prevede la sospensione dei processi in atto nei confronti del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio costituisce la migliore conferma della fondatezza dei dubbi manifestati da alcuni eminenti studiosi del diritto costituzionale in ordine al tentativo di introdurre nella Carta Fondamentale una versione attenuata dello “scudo” già previsto dal Lodo Alfano, di cui la Consulta ha rilevato la manifesta incostituzionalità mediante la ben nota sentenza n. 262 del 2009.

Anche volendo, in questa sede, sorvolare sui molteplici profili di criticità che caratterizzano il ddl al momento sottoposto all’esame del Senato (il Presidente della Repubblica non necessità di garanzie più ampie di quelle già previste dall’art. 90 della Carta; il Presidente del Consiglio trae la propria legittimazione a governare dalla fiducia delle Camere e non da una diretta investitura popolare: risulta pertanto improprio ogni richiamo alla necessità di garantire “il sereno svolgimento delle funzioni di governo da parte di chi risulta titolare del mandato conferito dal corpo elettorale”; le molteplici incombenze collegate all’azione di indirizzo e coordinamento dell’attività dell’Esecutivo che impongono al premier di disertare le udienze non gli hanno però impedito di mantenere, per oltre quattro mesi, l’interim di un ministero centrale per le sorti dell’economia del Paese), la proposta di revisione della Costituzione al centro del dibattito politico presenta una zona d’ombra di cui forse lo stesso legislatore ha sottovalutato la portata.

Come ha autorevolmente osservato il costituzionalista Alessandro Pace, le leggi di revisione costituzionale hanno la funzione di aggiornare la Carta Fondamentale, di renderla sensibile al progresso della società ed alle trasformazioni che maturano in senoad essa. Di aggiornarla, non di sconvolgerla. Non di apportare al testo costituzionale emendamenti non conciliabili con quei principi fondamentali che sfuggono, per forza di cose, ad ogni possibilità di revisione; non di sostituire la sovranità popolare con il plebiscitarismo, la solidarietà con la devozione al princeps, l’eguaglianza con il privilegio.

Ecco, eguaglianza e privilegio. L’approvazione del lodo Alfano per via costituzionale non rappresenta semplicemente l’ultimo anello dell’interminabile catena di leggi ad personam costruita dall’attuale maggioranza di governo nel corso degli ultimi quindici anni, l’estremo tentativo di offrire al premier un salvacondotto che lo protegga dall’onta del banco degli imputati. No, è qualcosa di diverso: è la pietra angolare da cui procede la creazione di un sistema politico basato sulla delega in bianco conferita direttamente dal popolo al leader, sul potere concepito come insensibilità ad ogni forma di limite e di controllo, sul definitivo superamento del principio in forza del quale tutti i cittadini devono essere considerati eguali dinanzi alla legge, indipendentemente dalle loro condizioni personali o sociali. E’ la legittimazione della disuguaglianza come principio fondamentale dell’ordinamento giuridico, la costituzionalizzazione di una democrazia diseguale.

Di questo disegno, il Presidente della Repubblica non ha potuto non cogliere l’intrinseca irragionevolezza: l’irragionevolezza di una Costituzione degradata a mero strumento di attuazione delle contingenti esigenze della singola parte politica; l’irragionevolezza del potere inteso come somma di privilegi e non come funzione da esercitare nell’interesse della collettività. La profonda irragionevolezza che fatalmente accompagna ogni tentativo di legittimazione di una democrazia diseguale.


Carlo Dore jr.

mercoledì, settembre 15, 2010

WALTER, IL PREDESTINATO DELL’ETERNO RITORNO.

Mentre Berlusconi si prepara a ricompattare attorno ai fatidici cinque punti del suo nuovo programma di governo le varie anime di una maggioranza dilaniata dagli scandali e squassata dai boati della crisi interna, Veltroni sembra a sua volta sul punto di lanciare una nuova offensiva volta a destabilizzare una volta per sempre la leadership di Bersani. A meno di un anno dall’ultimo congresso nazionale, spirano nuovi venti di guerra nell’area democratica: il segretario viene accusato di avere, con la sua strategia delle alleanze di largo respiro, “tradito lo spirito originario del progetto”; di avere frettolosamente archiviato il modello di partito premiato dagli elettori nel 2008; di essere, in definitiva, caratterizzato da un profilo non compatibile con la filosofia ispiratrice del PD.

Esultano i teorici della vocazione maggioritaria, che vedono nel nuovo Ulivo una evidente sconfessione del dogma dell’autosufficienza; esultano gli ex popolari, da sempre diffidenti verso la figura di un segretario di stampo troppo post-comunista; esulta quella ristretta fetta di elettorato che – inseguendo ora la bandiera di Marino, ora quella di Renzi, ora quella di Civati – continua ad agitare affannosamente il mantra di un rinnovamento confuso e confusionario, e per questo destinato talvolta a scadere nello sfascismo più sterile. Ritorna il PD del Lingotto, e Veltroni può riprendere a studiare da candidato premier.

In verità - lungi dal costituire un momento di rottura rispetto ad un passato che forse meriterebbe di essere riletto in chiave meno critica - , il PD del lingotto rappresenta il punto più alto di una parabola politica avviata all’inizio degli anni ’90, la parabola di un eterno predestinato della sinistra italiana specializzatosi, con l’andare del tempo, nell’arte dell’eterno ritorno. Da alfiere della svolta della Bolognina a direttore de L’Unità, da esperto di cinema a vicepremier, da segretario dei DS a sindaco di Roma, da leader del PD a capo dell’opposizione interna: è la parabola del “I care” e della “politica lieve”, della sconfitta di Bologna nel 1999 e della beatificazione delle “notti bianche”, del “si può fare” e dei “ma anche”. E’ la parabola politica di Walter il predestinato, dell’americano a Roma che pretendeva di trapiantare il modello-Obama nella patria di Berlinguer.

Gli effetti della strategia del partito gazebo, della Forza Italia di stampo riformista, della politica deideologizzata imperniata sul mantra delle primarie ad ogni costo (debitamente corrette dall’odioso artificio delle liste bloccate) sono sotto gli occhi di tutti: in un colpo solo, il predestinato ha recitato il de profundis per il governo-Prodi, ha privato la sinistra diffusa di un referente credibile sulla scena istituzionale, ha consegnato senza colpo ferile al Cavaliere le chiavi di Palazzo Chigi, per poi essere costretto ad abbandonare in fretta e furia il loft con vista sui fori imperiali, lasciando a Franceschini e a Bersani l’ingrato compito di rimettere insieme i cocci di un partito mai nato.

La musica si abbassa, scorrono i titoli di coda: la parabola veltroniana ha finalmente conosciuto il suo epilogo? A quanto pare, no: ci sono ancora i teorici della vocazione maggioritaria, gli ex popolari e i pasdaran del rinnovamento sfascista. C’è un segretario da sfiduciare, un partito da riconquistare, una leadership da ricostruire: Walter scrive un altro libro, e nel frattempo studia da candidato premier, cercando di non pensare a Bologna e a Guazzaloca, al falco Calearo ed alla silente Marianna Madia.

Intanto, Bersani si rimbocca le maniche e attraversa l’Italia piazza dopo piazza, per denunciare la regressione democratica che Berlusconi ha imposto al Paese, per spiegare alla gente che la creazione di una coalizione ampia, aperta a tutte le forze democratiche, riformiste e di sinistra che si riconoscono nei valori consacrati nella Carta Fondamentale costituisce l’unica soluzione percorribile per contrastare l’incedere di un regime putiniano. Bersani si rimbocca le maniche e dimostra di avere un progetto: criticabile, di difficile realizzazione, pieno di punti oscuri, ma un progetto.

Da oggi, nella attuazione di questa sua strategia, non dovrà però soltanto fronteggiare le difficoltà collegate alla frammentarietà di un quadro politico eterogeneo all’inverosimile; non dovrà solamente imprimere al partito una linea politica chiara, al fine di restituire fiducia ad una base stomacata dai troppi tentennamenti manifestati dai Democratici in ordine ai fondamentali temi della legalità e della questione morale. Dovrà anche guardarsi dai venti di guerra che imperversano nel centro sinistra italiano: Walter il predestinato prepara il suo eterno ritorno, e il popolo progressista inizia a sentire, neanche tanto lontano, l’odore inconfondibile dell’ennesima sconfitta annunciata.

Carlo Dore jr.

mercoledì, settembre 01, 2010

IL “PROCESSO BREVE”: FIGLIO DEL RICATTO

All’indomani della decisione attraverso cui la Corte Costituzionale ha disposto l’annullamento del c.d. Lodo Alfano, della legge che prevedeva la sospensione dei processi in corso nei confronti delle “Alte cariche dello Stato, il premier ha conferito ai suoi consiglieri giuridici l’incarico di predisporre una nuova rete di salvataggio in grado di proteggerlo dal baratro costituito dal giudizio del Tribunale di Milano, di approntare un nuovo scudo utile a ripararlo dai processi sgraditi sempre sulla base dell’abusato assioma in forza del quale, se tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge, il cittadino investito del consenso popolare deve essere considerato “un po’ più uguale degli altri”.

Dopo giorni di intensa riflessione, ecco che l’infaticabile intelletto dell’avv. Ghedini – silenziosamente coadiuvato dal guardasigilli Alfano – ha generato un complicato marchingegno di ingegneria processuale caratterizzato dalla presenza di tre diversi momenti, definibili rispettivamente come la soluzione a lungo termine, la soluzione a breve termine e la fase del ricatto. In questa prospettiva, trova infatti la sua ragion d’essere la proposta (in cui appunto consiste la soluzione a lungo termine) di riapprovare un nuovo Lodo per via costituzionale, così da neutralizzare – seppure parzialmente – gli argomenti utilizzati dalla Consulta nella sentenza dell’ottobre 2009. Sempre in questa logica, appare evidente la ratio che ispira la “soluzione a breve termine”, ovvero la leggina sul legittimo impedimento – unico caso nella storia di legge ad incostituzionalità autocertificata – volta a garantire una paralisi dei processi milanesi per il tempo richiesto ai fini del completamento della procedura di revisione della Carta Fondamentale.

Ma tra le pieghe delle “grandi riforme condivise”, delle soluzioni di ampio respiro per superare la fase di conflittualità tra politica e giustizia, non poteva mancare la nota inquietante e vagamente minacciosa costituita dalla fase del ricatto, dalla formulazione di un disegno di legge (quello sul c.d. processo breve) la cui approvazione finirebbe col cancellare gran parte dei processi relativi a reati commessi prima del maggio del 2006, e per i quali siano decorsi oltre due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio.

Anche la logica che ispira il braccio armato del Presidente del Consiglio risulta facilmente intelligibile: viene minacciato un colpo di spugna su migliaia di procedimenti in corso (da quello relativo al rogo della Tyssen al processo ai “furbetti del quartierino”) per paralizzare i tre processi a carico dell’Utilizzatore finale. Non siamo nella Chicago degli anni’30 né in uno stato libero del Bananas: siamo nell’Italia del ventunesimo secolo, dove la democrazia fondata sul ricatto viene posta ad uso e consumo dell’uomo solo al comando.

Eppure, tra lo sconcerto di gran parte dei giuristi democratici, il meccanismo sembrava funzionare alla perfezione: non a caso, dopo l’entrata in vigore del provvedimento che ha sospeso per diciotto mesi le udienze a carico del Presidente, questa sorta di amnistia mascherata (approvata a ritmi serrati dal Senato, tra le grida di guerra rivolte dai berluscones all’indirizzo delle toghe militanti) è stata dall’oggi al domani seppellita in uno dei tanti binari morti lungo i quali si articolano le procedure parlamentari.

Ma, nel giro di pochi mesi, ecco che l’emergenza processuale ha ripreso a turbare la quiete dorata di Villa Certosa: la scure della Consulta sta per abbattersi anche sul legittimo impedimento, e le fibrillazioni innescate in seno alla maggioranza di Governo dalla repentina svolta legalitaria della componente che fa capo a Gianfranco Fini hanno messo in dubbio l’introduzione dell’immunità attraverso una legge costituzionale. Le udienze stanno per ripartire, le sentenze si avvicinano, le toghe militanti fanno paura: il premier parte al contrattacco, progetta iniziative ad effetto come improbabili discorsi alla Nazione o fantasiosi messaggi all’Unione Europea contro i giudici politicizzati. E soprattutto, ordina a Ghedini e alla Bongiorno: liberatemi dai processi.

Eppure, la maggioranza non è più coesa, e l’opposizione non sembra, almeno su questo terreno, disponibile ad aprire altre sciagurate trattative. E allora? E allora ricompare il ricatto insieme al ghigno del Caimano: il processo breve viene sdoganato dal binario morto e ritorna ad essere “una priorità nell’agenda dell’Esecutivo”. Fermare tre processi o cancellarne trecentomila? Cercare un’altra “soluzione finale” o correre il rischio di vedere trasformata in diritto vigente la minaccia dell’amnistia mascherata? Resistere o sottostare alla logica del ricatto? Questo è il dilemma che attanaglia il Parlamento agli albori dell’ennesimo autunno caldo sul fronte dei rapporti tra politica e giustizia.

No, non siamo nella Chicago degli anni ’30: siamo nell’Italia di Berlusconi, dove la logica del ricatto e la voluntas dell’Uomo solo al comando stanno alla base di quella Costituzione materiale troppo spesso invocata dagli esponenti del PDL. Ed è alla necessità di assecondare ad ogni costo la volontà del Princeps che risulta funzionale la legge sul processo breve: l’ennesima legge figlia del ricatto, l’ennesimo segno di debolezza di una democrazia alla deriva.

Carlo Dore jr.

venerdì, agosto 06, 2010



"C’E’ VITA NEL PD?" IL PAESE LEGALE E L’ASSE ARCORE-PONTIDA

“C’è vita nel PD?”, si sono chiesti Marco Travaglio e Antonio Padellaro in due interessanti editoriali recentemente pubblicati su “Il Fatto Quotidiano”; “C’è vita nel PD?”, si sono chiesti i simpatizzanti dell’area democratica che hanno assistito sgomenti ed indignati alla diretta televisiva del dibattito sulla mozione di sfiducia presentata nei confronti del sottosegretario Caliendo.

Mentre Franceschini completava il suo bell’intervento – in cui, per una volta, la sincera esasperazione dell’opposizione progressista prevaleva sui discutibili tatticismi dettati dalle varie esigenze di real politik - la maggioranza affogava rapidamente in un folle vortice di prese di distanza e genuflessioni, crisi di coscienza e botte da stadio, conversioni e astensioni, occhiate assassine e saluti romani. L’espressione terrea del Cavaliere disperdeva rapidamente le ultime gocce di fiele distillate dalle parole di Cicchitto: la favola è finita, la maschera è caduta. Berlusconi appare agli italiani per quello che è: un vecchio caudillo del tutto indifferente al triste destino che attende un Paese allo sbando.

Dinanzi ad un simile status quo, l’atteggiamento del centro-sinistra dovrebbe essere ispirato da un unico slogan: il Governo ha fallito, si proceda con le elezioni anticipate così da aprire agli uomini di Bersani le porte di Palazzo Chigi. Invece, nelle dichiarazioni dei principali leader democratici, ecco prendere corpo l’ipotesi di un governo tecnico o di transizione, di un “Esecutivo di responsabilità” capace di fronteggiare l’emergenza. Le argomentazioni individuate a fondamento della posizione appena espressa sono apparentemente inattaccabili: la particolare congiuntura economica non può essere affrontata da un Governo non nel pieno delle sue funzioni; inoltre, la riforma della legge elettorale costituisce il presupposto indispensabile per impedire che i perversi meccanismi del “porcellum” conducano ad una sostanziale distorsione della volontà degli elettori.

Ma, numeri alla mano, Bersani sembra avere compreso che un eventuale voto autunnale finirebbe col premiare ancora una volta l’asse Arcore – Pontida, istituzionalizzando una volta per sempre quella perfetta combinazione tra arroganza impunitaria, egocratismo esasperato, moderna xenofobia e pulsioni separatiste mediante cui il Cavaliere ha, giorno dopo giorno, trascinato il Paese verso le secche di una democrazia minore. E allora il problema è: perché il PD non è riuscito ad intercettare il malcontento che obiettivamente pervade gran parte della società italiana, avvelenata dalle tante promesse non mantenute e lacerata dalle troppe ragioni di disuguaglianza imposte dal preteso Governo del Fare? C’è ancora vita nel PD, la vita necessaria per proporre agli elettori un modello alternativo a quello sintetizzato nel mantra del “ghe pensi mì”?

A fronte di un lodevole impegno su alcuni specifici temi di politica economica, il Partito Democratico continua a pagare la scelta di rimettere nelle mani di Di Pietro e dello stesso Fini il monopolio esclusivo di quelle materie che da sempre costituiscono il “terreno di caccia” del Cavaliere: la lotta al conflitto di interessi (argomento ormai pericolosamente caduto in desuetudine); la difesa dei valori della legalità e dell’indipendenza della Magistratura contro gli attacchi sferrata da parte del potere politico; la costante affermazione dell’attualità della questione morale e la declinazione di una concezione rigorosamente “etica” della politica.

La decisione di favorire l’ascesa del centrista Michele Vietti alla vicepresidenza del CSM - e la correlativa rinuncia ad imporre alle altre forze di opposizione la candidatura di personalità del calibro di Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, Francesco Saverio Borrelli o Franco Cordero – è in questo senso indicativa delle difficoltà incontrate dal principale partito del centro-sinistra italiano nel rimarcare la contrapposizione in essere tra il Paese legale ed il Paese illegale, tra il Paese della trasparenza ed il Paese delle cricche e dei comitati di affari, tra il Paese della Costituzione ed il Paese dell’Uomo solo al Comando.

Ma allora: c’è ancora vita nel PD? Forse, e in ogni caso bisogna credere che ce ne sia: se – abbandonando una volta per sempre pulsioni nuoviste e sterili riferimenti al moderatismo - il PD saprà mobilitare tutto l’elettorato progressista attorno a quei valori di eguaglianza, etica pubblica e giustizia sociale che da sempre costituiscono il DNA della sinistra italiana, allora l’alternativa al berlusconismo non apparirà più come una vaga chimera. C’è ancora vita nel PD: è la vita del Paese legale che vuole prevalere sulle grida di guerra, sui saluti romani, sugli atti di fede e sulle trame oscure proliferate sotto l’asse Arcore – Pontida.

Carlo Dore jr.

sabato, luglio 17, 2010

"C’E’ DEL MARCIO IN DANIMARCA”: IL PRINCIPE AMLETO E L’ITALIA DEL PICCOLO CESARE

“C’è del marcio in Danimarca”, osservava pensieroso il Principe Amleto mentre iniziava a subodorare la sottile trama di intrighi, inganni e tradimenti lungo la quale si dipana la celebre tragedia di Shakespeare. “C’è del marcio in Danimarca”: chissà a quali parole il Principe di Elsinore avrebbe fatto ricorso per descrivere la situazione italiana in questo strano 2010, all’alba di una crisi che si preannuncia devastante sul piano sociale e culturale, oltre che sul piano economico.

“C’è del marcio in Danimarca”: e in Italia? Come nel 1981, una serie di indagini hanno disvelato l’esistenza di un gruppo di potere esteso e ramificato, impegnato ad introdursi in alcuni settori nevralgici della struttura dello Stato (dalla Magistratura agli enti locali), al fine di orientare le scelte della politica nazionale. Come nel 1981, si richiamano sigle che rimandano a logge coperte, si parla di gruppi di potere occulto, di “Stato nello Stato”: ancora una volta, ecco un pezzo di passato riemergere, minaccioso ed inquietante, dalle tenebre della Notte della Repubblica. E’ il passato che ritorna, e non è un passato piacevole.

Ma nel 1981, la situazione era molto diversa: il gruppo di potere occulto non si identificava integralmente con il potere istituzionale, nel quale cercava invece di incunearsi per poterlo comandare ed orientare; lo Stato e l’Anti-Stato risultavano in competizione tra loro, con i capi del secondo che tramavano nell’ombra proprio per poter assumere il controllo del primo. Allora, lo Stato seppe però resistere a quell’offensiva esterna, grazie ad un sistema di anticorpi in piena efficienza, basato su un sindacato unito e coeso, capace di mobilitare le piazze a tutela del diritto al lavoro; su una stampa indipendente e non asservita; su una sinistra che, riunitasi attorno alla figura di Enrico Berlinguer, completava la sua evoluzione democratica, transitando dagli Sputnik all’eurocomunismo.

Oggi, questo sistema di anticorpi esiste solo in parte, riducendosi all’azione del Presidente della Repubblica, alle campagne condotte dalle testate non allienabili, alle determinazioni delle istituzioni di garanzia, alle inchieste di quegli ampi settori della magistratura capaci di resistere ad aggressioni, intimidazioni e tentativi di infiltrazione. Per contro, la vicenda di Pomigliano ha confermato tutte la preoccupante debolezza di un sindacato diviso e quasi impotente dinanzi ad una crisi che azzanna soprattutto il mondo del lavoro; gli editoriali di Minzolini costituiscono l’ennesima riprova dell’esistenza di un conflitto di interessi di dimensioni tali da risultare non configurabile nemmeno presso la più arretrata Repubblica delle banane; le vicende degli ultimi anni hanno infine contribuito a cancellare una volta per sempre la parola “sinistra” dal dizionario della politica italiana, mentre le forze dell’area democratica si vedono troppo spesso costrette – nelle varie realtà locali – ad ammainare la bandiera della questione morale dinanzi a discutibili esigenze di realpolitik.

Insomma, oggi lo Stato è più vulnerabile, e l’offensiva a cui è sottoposto risulta, se possibile, ancora più insidiosa. Se infatti nel 1981 l’Anti-Stato si contrapponeva allo Stato nella speranza di subentrare ad esso, attualmente riscontriamo come il potere occulto (lungi dall’esaurirsi nelle fantasticherie di un gruppo di pensionati affetti da manie di grandezza) risulti sostanzialmente contiguo rispetto ad un pezzo del potere politico, operando nell’ombra al solo scopo di rafforzare la leadership di quel piccolo Cesare sotto la cui deriva egocratica si sono moltiplicate cricche e comitati di affari. Non esiste più la contrapposizione tra Stato e Anti-Stato: l’Anti-Stato si è posto al servizio dello Stato, aderendo alla logica del “ghe pensi mì”.

Le dimissioni di Scajola, Brancher e Casentino sono, a vario titolo, lo specchio fedele di una realtà che inizia, pezzo dopo pezzo, a sgretolarsi sotto lo sguardo incredulo del Presidente del Consiglio, impegnato ad ostentare a reti unificate gli ultimi brandelli di una favola (quella del “Governo del fare”) in cui oggi anche i “Pretoriani della Libertà” forse faticano a credere: una realtà in cui l’abuso del potere era diventato norma, il malaffare efficienza, la collusione normalità, l’impunità regola. E’ la realtà dell’Italia del Piccolo Cesare, dell’Anti-Stato che è riuscito, almeno per due anni, a farsi Stato.

“C’è del marcio in Danimarca”. In fondo, il Principe Amleto può dirsi fortunato: il veleno da cui era intrisa la spada di Laerte gli ha impedito di dover esprimere un giudizio sulla situazione italiana in questo strano 2010, di dover assistere alla lenta deriva di un Paese in cui Stato e Anti-Stato sono riusciti ad andare a braccetto.

Carlo Dore jr.

domenica, giugno 27, 2010

IL LEADER E IL CAPOBANDA

Quando le tracce dei temi assegnati agli studenti impegnati negli esami di maturità sono state diffuse dai vari mezzi di informazione, un’improvvisa ondata di stupore e sconcerto ha pervaso l’animo di tutti gli intellettuali democratici del Paese.

La proposta di elaborato mediante cui si chiedeva ai candidati di esaminare il “rapporto tra giovani e politica nel pensiero dei grandi leader” partendo da una frase pronunciata da Mussolini (la cui posizione veniva artificiosamente equiparata a quella di Togliatti, di Moro e perfino di Giovanni Paolo II) all’indomani del delitto Matteotti non costituisce soltanto l’ennesimo prodotto del goffo revisionismo in salsa berlusconiana, già manifestatosi nella parabola del “dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza nelle località di confine”.

No, quel tema rappresenta qualcosa di peggio: rappresenta la definitiva conferma della volontà di attribuire la qualifica di leader al capo di una forza politica che – oltre a descrivere con oratoria marziale le imprese criminali di militi e gerarchi come la sana estrinsecazione del vitalismo proprio della migliore gioventù italica - si assumeva pubblicamente la responsabilità di un omicidio, certificando la totale immersione dell’Italia nella palude di un regime fatto di fuoco e camice nere, discorsi da operetta e sistematiche rappresaglie, sangue e olio di ricino. Rappresenta - come lucidamente ha osservato Adriano Prosperi nel suo articolo pubblicato su “La Repubblica” dello scorso giovedì - l’estremo tentativo di legittimazione della leadership di un capobanda.

Forse, anche nell’epoca dell’anti-ideologismo e del superamento dei partiti tradizionali, della rinnovata esaltazione dell’Uomo solo al comando e della trasformazione della militanza politica in tifo da stadio, sarebbe stato preferibile che i funzionari del ministro Gelmini avessero chiesto agli studenti di riflettere su altre parole che la storia italiana propone, di esporre il loro pensiero su un altro discorso: un discorso che si è elevato al di sopra delle grida delle squadre di azione, dei lamenti di un uomo morente, delle teorie volte a mettere sullo stesso piano vincitori e vinti per continuare a trasmettere lo straordinario messaggio di libertà in esso contenuto. Il discorso di un leader vero che riuscì, contrapponendo ancora una volta la forza della ragione all’ottusa pratica delle ragioni della forza, a disvelare in tutta la sua mostruosa enormità il castello di violenze, bugie, e sopraffazioni su cui si fondava l’autorità del Duce.

Quel leader si chiamava Giacomo Matteotti, e la sua storia è proprio la storia di un discorso. Un discorso che il deputato socialista chiese di pronunciare “né prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente”, nel vano tentativo di riscattare, seppur per pochi istanti, la dignità di una Camera dei deputati già troppo simile ad un bivacco di manipoli. Un discorso mediante il quale, oltre alle molteplici anomalie che caratterizzavano il funzionamento di una legge elettorale liberticida, venivano denunciate le sistematiche intimidazioni, le brutali ritorsioni e financo gli omicidi a sangue freddo che avevano caratterizzato le elezioni del 1924, mentre la parola “regime” iniziava a rimbombare, sinistra ed inquietante, tra i banchi delle forze di opposizione.

Un discorso la cui essenza è concentrata in poche e semplici battute, quasi gridate, con rabbia e disperazione, dal leader in faccia al Capobanda: «Noi deploriamo che solo il nostro popolo nel Mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza».

Popolo, libertà, dignità. Queste erano le parole di Giacomo Matteotti, le parole del leader dalla fine era già scritta: il bivacco di manipoli avrebbe ben presto fatto valere la sua legge, le ragioni della forza avrebbero soffocato la forza della ragione nel sangue di un uomo visto come una minaccia da un regime debole.

Chissà in quale modo uno studente prossimo alla maturità avrebbe interpretato quelle parole. Forse con rabbia, forse con una lacrima, forse con un sorriso, forse con un applauso. La rabbia, le lacrime, i sorrisi e gli applausi che i democratici di tutta Italia da quasi un secolo tributano al meraviglioso, indelebile ricordo di Giacomo Matteotti, al ricordo del leader che per primo trovò il coraggio di rivelare ad un Paese allo sbando come, sotto il doppio petto presidenziale da cui era incorniciata la volitiva mascella del Duce, continuasse in verità a pulsare l’anima nera del Capobanda.

Carlo Dore jr.

domenica, giugno 20, 2010

IL “PARADOSSO DI CRISTOFORO COLOMBO” E LA TRISTE DOMENICA DEL PROGRESSISTA SCETTICO


Quando, domenica scorsa, mi sono presentato al seggio per dare il mio voto al candidato del centro-sinistra alla Presidenza della Provincia di Cagliari, ho avuto la netta sensazione di essere chiamato, ancora una volta, a ricoprire un ruolo di secondo piano nell'ennesima, malinconica sconfitta annunciata delle forze progressiste in Sardegna. I risultati del primo turno tracciavano infatti un quadro a tinte fosche dello stato di salute dell'area democratica isolana: emergevano le troppe contraddizioni di un PD del tutto privo di canali di comunicazione con la società, l'afasia disarmante di candidati logori ed incapaci di proporre una credibile alternativa agli slogan strombazzati senza logica dai vari scherani del Cavaliere, la disaffezione crescente di un elettorato che continua a sentirsi senza guida.

Insomma, ho concepito il mio voto come un estremo (e forse addirittura inutile) atto di opposizione verso l'arroganza di un Governo che sta trasformando, giorno dopo giorno, l'Italia in una democrazia minore: un estremo atto di opposizione con cui mi accingevo a cominciare la mia triste domenica di elettore scettico.

Alla luce di questo status quo, non so descrivere il mio stupore di fronte alla realtà che ha iniziato a delinearsi dopo la chiusura delle urne: i berluscones si ritrovavano di colpo con le reni spezzate, i progressisti conquistavano Nuoro e l'Ogliastra, riuscendo persino, contro ogni pronostico, a confermarsi alla guida del Capoluogo. Insomma, il centro-sinistra sardo ha vissuto il classico “paradosso di Cristoforo Colombo”: partito alla ricerca dell'India di una sconfitta contenuta, si è ritrovato a celebrare le meraviglie dell'America di un trionfo insperato.

Tuttavia, mentre l’amministrazione regionale appena eletta rischia già di sprofondare nel baratro degli scandali orditi dalla “cricca” romana cresciuta all’ombra di Palazzo Grazioli, non posso non rilevare che questa vittoria risulta per me caratterizzata da un sapore diverso rispetto agli altri successi che hanno scandito la storia della sinistra italiana degli ultimi quindici anni: il sapore vagamente amaro ed incompiuto che nasce dalla consapevolezza di non poter andare oltre il classico sospiro di sollievo a cui mi sono abbandonato quando ho appreso che, per questa volta almeno, “avevano perso i peggiori”.

Cosa è mancato dunque a questa vittoria rispetto alla splendida cavalcata che, nel 1996, aveva trascinato l’Ulivo al governo del Paese, rispetto alla travolgente affermazione di Renato Soru del 2004, rispetto anche all’interminabile notte del 10 aprile del 2006, quando Romano Prodi si assicurò per la seconda volta la poltrona di Palazzo Chigi?

Semplice: è mancata la partecipazione della gente, è mancato l’entusiasmo che deriva dal sentirsi parte di un progetto comune, è mancata soprattutto quell’empatia tra rappresentanti e rappresentati in forza della quale la vittoria degli uni non può che essere interpretata come una vittoria degli altri. In altre parole, nel 1996, nel 2004 e nel 2006, un popolo vinceva attraverso il leader. Oggi no: oggi hanno vinto dei leader senza popolo.

Disertando in massa le urne, i sostenitori dell’area democratica non hanno infatti semplicemente dimostrato di preferire la spiaggia al seggio, ma hanno voluto dare un segnale che non può essere ignorato: un segnale di stanchezza verso una classe dirigente percepita come lontana e dannatamente autoreferenziale, un segnale di disagio verso una politica che non ne asseconda i bisogni e le istanze, un segnale di sofferenza verso la loro condizione di esuli nella terra straniera del post-ideologismo o dell’anti-ideologismo, di donatori di voti costretti periodicamente a fare muro contro la calata degli oplites inviati da Arcore per assicurare a Berlusconi il controllo del suo personale buen retiro agostano.

Le conseguenze che questa situazione rischia di generare sono sotto gli occhi di tutti: i partiti – smarrita la loro istituzionale funzione di catena di collegamento tra istituzione e società – stanno rapidamente assumendo la dimensione di “scatole vuote” idonee solo ad ammortizzare lotte interne e a delineare equilibri di potere; la militanza attiva si riduce ormai al solo esercizio del diritto di voto in occasione di processi decisionali dall’esito spesso scontato; i programmi vengono gradualmente soppiantati da slogan sparati sulla rete dai sostenitori di una piuttosto che di un’altra corrente; dirigenti e candidati vengono sempre più spesso descritti come generali senza truppe, incapaci di scaldare i cuori di una base liquefatta.

Ecco allora che, una volta smaltita l'euforia del post-voto, gli amministratori eletti la scorsa settimana saranno chiamati ad assolvere un compito che va ben al di là dei consueti riferimenti al buon governo del territorio e dei propositi di rinnovamento manifestati in campagna elettorale: essi dovranno restituire la voglia di partecipazione a quella vasta fetta di elettorato che ha manifestato la propria sfiducia attraverso l’astensione di massa. Nella consapevolezza del fatto che, se questa volta la prospettiva di una sconfitta contenuta celava l’El Dorado di una vittoria sonante, normalmente, per una forza politica non sostenuta dalla partecipazione della propria base, il paradosso di Cristoforo Colombo funziona al contrario, trasformando il miraggio tutto americano di un successo travolgente nella realtà di una sconfitta rovinosa sulle coste della povera India. E a quel punto, anche l’invito alla mobilitazione contro l’incedere della “cricca” berlusconiana potrebbe non essere sufficiente a squarciare il grigiore delle tante tristi domeniche che sembrano destinate a scandire il futuro del progressista scettico.

Carlo Dore jr.

lunedì, giugno 07, 2010

“C’E UN FILO ROSSO CHE LEGA TUTTI I GRANDI DELITTI: UN UNICO PROGETTO POLITICO”: L’ITALIA NELLE “MANI GIUSTE”?


“C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”. Così scriveva Rocco Chinnici, indimenticabile capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, poco prima di venire trucidato dal tritolo dei corleonesi. Un filo rosso che lega i grandi delitti, un unico progetto politico: chissà se le parole dell’eroico maestro di Giovanni Falcone sono tornate alla mente del Procuratore nazionale antimafia Grasso quando, nel commemorare la strage di via dei Georgofili, ha dichiarato che la strategia posta in atto dalla Mafia attraverso gli attentati del 1993 era finalizzata «a causare disordine per dare la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale di Tangentopoli», ad «agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire» le richieste di Cosa Nostra.

Bombe che esplodono, oscure entità che premono per emergere, eroi e barbe finte, coppole e colletti bianchi: tutte componenti di un progetto volto a far confluire un Paese allo sbando “nelle mani giuste”. Giancarlo De Cataldo ha già provato a raccontare questa storia in uno dei suoi ultimi romanzi, perché un romanzo è la storia d’Italia a partire dagli anni’60: un romanzo criminale, nel quale si fronteggiano guardie e ladri, bande armate e servitori dello Stato, complotti e grandi ideali, veloci strette di mano e compromessi storici. “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”. Ma quale progetto? Teso al perseguimento di quale obiettivo? Cosa accadde in Italia tra il 1992 e il 1993?

Accadde che un pool di magistrati molto coraggiosi e molto indipendenti riuscì a disvelare il sistema di corruzione istituzionalizzata che alimentava le forze del pentapartito, soffocando così nel suo stesso fango quella classe dirigente che, per quasi mezzo secolo, aveva governato le sorti di una Nazione drammaticamente sospesa tra est e ovest, ridotta a terra di confine nell’eterna guerra tra la CIA e i carri armati sovietici. Accadde che le tesi di Falcone vennero recepite nella sentenza con cui la Cassazione metteva fine al maxi-processo iniziato nell’astronave verde dell’Ucciardone, trasformando così in verità giudiziaria quello che fino ad allora veniva semplicemente liquidato come il “teorema Buscetta”. La Prima Repubblica era prossima al tracollo, la Mafia perdeva i suoi riferimenti tradizionali: la Mafia era ferita, la Mafia doveva reagire, rivoltandosi contro amici e nemici.

E’ in questo contesto che muore Salvo Lima, sindaco responsabile del “sacco di Palermo” descritto da più parti come il garante del patto tra gli uomini d’onore ed una classe politica rivelatasi alla lunga poco affidabile; è in questo contesto che muore Giovanni Falcone, simbolo per eccellenza della lotta alla criminalità organizzata capace di rappresentare tutto il desiderio di riscatto di una Sicilia non disposta a sottostare in eterno al dominio delle cosche; è in questo contesto che muore Paolo Borsellino, al quale non poteva essere perdonata la colpa di essere arrivato troppo vicino al cuore dei segreti di Cosa Nostra. Sono i giorni di Capaci e di Via D’Amelio; sono i giorni delle lacrime e delle lenzuolate dei palermitani in lutto; sono i giorni dell’attentatuni.

Ma ancora non bastava: c'era un Paese in movimento da riconquistare, animato da un'improvvisa spinta legalitaria che, da Roma a Napoli, da Bologna a Palermo, favoriva l'ascesa al potere di alcune forze politiche rimaste fino a quel momento confinate nel recinto dell'opposizione. Quella spinta doveva esaurirsi, quella stagione doveva finire, un nuovo ordine sociale doveva essere ricreato in tempi brevi. Ecco allora riaffiorare, nelle ricostruzioni di Pietro Grasso e del Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi, quelle tre maledette parole che troppo spesso hanno influenzato i momenti della storia italiana recente, dirigendo la trama delle pagine di svolta del nostro romanzo criminale: strategia della tensione.

E così, nel buio dell'ennesima notte della Repubblica, esplode la basilica di San Giovanni in Laterano, esplode la chiesa del Velabro, esplode il museo di via Palestro a Milano. E mentre l'Italia tremava sotto la minaccia di altre deflagrazioni programmate per mietere “centinaia di vittime”, lo stesso Presidente Ciampi ricorda come, di fronte all'improvviso black out che aveva lasciato per ore Palazzo Chigi nel più totale isolamento, un unico pensiero aveva iniziato a farsi largo nella sua mente: la democrazia era in pericolo, il rischio di un golpe era concreto.

Poi, dopo il fallito attentato allo Stadio Olimpico, di colpo cala il silenzio: di bombe non ce ne sono più. Perchè? Forse la Mafia aveva capito che la strategia stragista non era indicata per portare avanti le rivendicazioni contenute nel famoso “papello” consegnato da don Vito Ciancimino al generale Mori, che il progetto di Riina di “procedere alla corleonese”, facendo la guerra per fare la pace, avrebbe finito con l'aprire un conflitto con lo Stato alla lunga insostenibile anche per l'ala più estremista di Cosa Nostra.

O forse, sempre utilizzando le parole del procuratore Grasso, la Mafia voleva effettivamente favorire quella “entità esterna” che premeva per «proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale di Tangentopoli» . C'è stato davvero un nuovo patto tra coppole e colletti bianchi? La mafia ha davvero cercato di “agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”? Con la fine di Mani Pulite, con l'avvento della Seconda Repubblica, l'Italia è effettivamente confluita “nelle mani giuste”, come ipotizzato nel bellissimo libro di De Cataldo?

A questi interrogativi, al momento, non è possibile dare risposta. “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”: chissà se qualche giornalista indipendente e curioso, qualche magistrato rigoroso e determinato, qualche politico animato dal più autentico spirito democratico riuscirà un giorno ad individuare la logica di questo progetto, a ripercorrere la trama che lungo quel filo si snoda. Per ora, è solo la pagina di un romanzo: l'ennesima pagina nera di quell'incredibile romanzo criminale in cui si identifica la storia italiana del dopoguerra.

Carlo Dore jr.

giovedì, maggio 27, 2010


DRAQUILA: L'ITALIA CHE TREMA

Quando, sullo schermo di una delle poche sale cinematografiche che ne hanno programmato la proiezione, hanno iniziato a scorrere i titoli di coda dell'ultimo film di Sabina Guzzanti, ho finalmente capito il motivo per cui contro “Draquila” si era scatenata l'ira incontrollabile di alcuni membri del Governo, puntualmente sostenuta dalla consueta girandola di trombettieri senza ritegno, starlette ormai avanti con gli anni, intellettuali più o meno credibili e censori improvvisati che ormai da quindici anni imperversa nell'Italietta berlusconiana.

Ho capito perché Bondi ha scelto di disertare di punto in bianco il Festival di Cannes, perché Capezzone ha dovuto denunciare a reti unificate “la vergognosa mistificazione dell'eccezionale opera dell'Esecutivo”, perchè persino la Brambilla è riuscita a manifestare “profonda indignazione per la pessima immagine dell'Italia che certi cineasti offrono all'estero”. Ho capito perchè Draquila ha fatto tremare l'Italia.

Privo della tagliente ironia propria di “Viva Zapatero” e lontano anni-luce dalle lucide ed impietose indagini di Michale Moore, il film della Guzzanti presenta una caratteristica che lo rende incompatibile con le logiche del Primus super pares: rappresenta la realtà dei fatti, mettendo in evidenza la spaccatura in essere tra il Paese virtuale ed il Paese reale, tra il Paese descritto dagli editoriali di Minzolini ed il Paese percepito dalle vittime del terremoto nell'inferno delle tendopoli o nell'anonimo grigiore degli alberghi della costa adriatica. La spaccatura che divide l'Italia che ride dall'Italia che trema.

Dimostrandosi ancora una volta indifferente alle regole del politically correct, Sabina spiega con dovizia di particolari come – anche a causa della disarmante debolezza di un'opposizione attenta più a salvaguardare gerarchie ed equilibri interni che a svolgere con la dovuta incisività la propria funzione istituzionale - un Presidente del Consiglio in crisi di consenso e di credibilità è riuscito a trasformare il dramma del terremoto aquilano nell'occasione per rilanciare agli occhi del Mondo intero la propria immagine di “uomo del fare”, di leader capace di dare soluzione ai problemi più intricati volando allegramente al di sopra del sistema di lacci e lacciuoli imposti all'Esecutivo dai bizantinismi di un ordinamento canaglia.

Ecco allora che le televisioni propongono l'immagine del Premier in caschetto che marcia impettito tra le rovine abruzzesi, disponendo dell'imminente G8 come di una sua festa privata; ecco l'esaltazione della figura di Bertolaso, icona del berlusconismo efficentista pronto ad ascendere ad un seggio ministeriale; ecco l'istituzionalizzazione dell'emergenza, la mortificazione dei controlli, la trasformazione della Protezione Civile in braccio operativo del Governo. Degli scandali che ciclicamente investono gli uomini del Presidente, dell'abnorme dispendio di risorse pubbliche che ha fatto seguito all'annullamento del G8 in programma a La Maddalena, della limitazione delle libertà di riunione e di manifestazione del pensiero nell'ambito delle tendopoli è meglio non parlare: meglio non spargere pessimismo sulla marcia degli uomini del fare, meglio che l'Italia continui a sorridere.

Ma cosa succede quando il discorso di un politico non allineato, l’inchiesta di un giornalista troppo curioso, il film di un regista scomodo squarcia la patina azzurra in cui è avvolto il Paese virtuale, per offrire al pubblico un, seppur piccolissimo, squarcio di realtà? Succede che il miracolo dell’uomo del fare appare in tutta la sua effettiva inconsistenza, che l’efficientismo dei professionisti dell’emergenza assume i tristi connotatati del sistematico abuso di potere, che la perfetta macchina di moltiplicazione del consenso su cui si fonda il sistema – Berlusconi rischia di incepparsi e di non poter più essere ravviata.

Ecco perché Draquila viene descritto come una vergogna nazionale, come un atto di vilipendio delle istituzioni, come un momento di cattiva propaganda dell’immagine dell’Italia all’estero: perché riesce a descrivere la condizione in cui versa il Paese reale, a dare spazio a quei sempre più rari sussulti di dignità democratica che il Cavaliere tenta di obliterare nel marasma dei finti successi e dell’ottimismo ad ogni costo. Insomma, Bondi, Capezzone e la Brambilla devono partire all’attacco della Guzzanti: al cinema c’è Draquila, e l’Italia di Berlusconi trema.

Carlo Dore jr.

martedì, maggio 04, 2010



IL PD E LA GIUSTIZIA: LUCI E OMBRE DELLA “BOZZA ORLANDO”


In un lungo editoriale pubblicato sul “Foglio” lo scorso 9 aprile, Andrea Orlando ha tratteggiato quelle che dovrebbero essere le posizioni del Partito Democratico in ordine all’attualissimo e controverso tema della riforma della giustizia.

Premesso che la scelta di affrontare una materia di questa rilevanza proprio sulle colonne di un quotidiano da sempre in prima linea contro quelle che il centro-destra definisce “le frange politicizzate della magistratura” non può non destare più di una perplessità, l’articolo del responsabile per la giustizia della segreteria di Bersani impone comunque una riflessione approfondita, nel tentativo di individuare, tra le tante proposte avanzate dal parlamentare spezzino, quelle che possono considerarsi effettivamente idonee a risolvere i molteplici problemi della giustizia italiana.

In questo senso, mentre meritano assoluta ed incondizionata condivisione la denuncia delle troppe disfunzioni che caratterizzano il processo civile, la proposta di rivedere il sistema delle impugnazioni nel processo penale (restringendo drasticamente le maglie del ricorso per Cassazione) e l’intendimento di procedere ad una più razionale distribuzione degli uffici giudiziari, le aperture sulla “rimodulazione” del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale – da praticarsi “attraverso l’individuazione di priorità che non limitino l’indipendenza del PM - e sulla ridefinizione delle prerogative e dei criteri di composizione del CSM appaiono francamente poco comprensibili.

Posto infatti che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 114 Cost. – il quale impone al Pubblico Ministero di indagare su tutte le notizie di reato da lui ricevute – va interpretato alla luce del più generale principio dell’eguaglianza formale consacrato nell’art. 3 della Carta Fondamentale, il superamento dell'azione penale obbligatoria potrebbe implicare l’assegnazione al Parlamento o, peggio ancora, al Governo della prerogativa di indicare i reati da perseguire con priorità. Allo stato delle cose, è fin troppo facile ipotizzare quale posizione finirebbero con l’occupare, nell’ambito di questa speciale graduatoria, i reati connessi alla c.d. criminalità economica e quelli contro la P. A.

Del pari, una compressione dell’indipendenza dell’autonomia dell’ordine giudiziario rispetto al potere politico farebbe inevitabilmente seguito ad una rivisitazione delle norme che disciplinano la composizione e le attribuzioni (con particolare riferimento alla materia disciplinare) del CSM, il quale, in questi anni, si è più volte dimostrato perfettamente in grado di assolvere alla funzione di organo di autogoverno delle toghe e di garante dell’indipendenza della Magistratura ad esso riconnessa dal nostro ordinamento costituzionale.

A ben vedere, dunque, le “aperture” di Orlando risultano caratterizzate da un duplice profilo di irrazionalità: da un lato, esse non sembrano funzionali ad assecondare le principali esigenze del cittadino che “chiede” giustizia, esigenze individuabili nella rapida attuazione dei mezzi di tutela, nell’applicazione di pene certe nei confronti degli autori dei reati, nell’efficiente impiego delle poche risorse di cui il sistema giudiziario dispone. D’altro lato, queste aperture si basano sull’artificiosa astrazione costituita dall’intendimento di “riformare la giustizia italiana nel modo più possibile condiviso”, a prescindere da Berlusconi, dai suoi processi da aggiustare, dalle sue vendette da consumare.

Ma in un Paese in cui il legislatore si è spesso trovato ad assumere la scomoda veste di principale avvocato difensore di alcuni imputati eccellenti, il principale partito di opposizione non può limitarsi ad indicare qualche pallido temperamento alle più irricevibili proposte di una maggioranza nell’ambito della quale la vox principis prevale da sempre sulla cultura della legittimità. Il PD è chiamato a delineare un modello di giustizia radicalmente antitetico rispetto a quello vagheggiato dal Presidente del Consiglio: un modello di giustizia imperniato proprio su quei principi dell’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, dell’autonomia della Magistratura rispetto ad ogni altro potere, dell’obbligatorietà dell’azione penale troppo spesso messi in discussione da riformatori più o meno illuminati.

Un triste destino attende infatti il Paese in cui anche l’opposizione, per assecondare la necessità di “riforme il più possibile condivise”, finisce col conformarsi alla Voce del Principe, rinunciando – come correttamente ha osservato Gian Carlo Caselli – a differenziarsi in maniera netta dalla maggioranza politica contingente: quel Paese assisterà, presto o tardi, al declino della cultura della legittimità.

Carlo Dore jr.

giovedì, aprile 15, 2010



RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E SINDROME DI “DON BASTIANO”

Nelle intenzioni manifestate dai principali esponenti dell'attuale maggioranza di governo all'indomani delle elezioni politiche del 2008, la legislatura in corso doveva assumere i caratteri propri di una “legislatura costituente”: forte di un'ampia base di consenso in Parlamento e nel Paese, il Presidente del Consiglio si proponeva infatti di dismettere i panni del leader di parte per assumere quelli dello statista illuminato, e di procedere ad una serie di riforme di ampio respiro che dovevano riguardare in particolare la materia della giustizia, nel quadro di una complessiva revisione dell'architettura costituzionale.
Questa strategia sembrava peraltro incontrare il consenso di alcuni partiti di opposizione, i quali, in passato, troppo spesso avevano rinunciato a recepire le istanze avanzate da autorevoli settori della magistratura, finendo così con il deludere le aspettative di parte importante del proprio elettorato.
Ciò malgrado, in questi primi due anni, in Italia non ha operato un legislatore “riformatore”; ha operato semmai un legislatore affetto da quella che alcuni commentatori hanno acutamente definito come “la sindrome di Don Bastiano”. Ricordate il personaggio del bellissimo film di Mario Monicelli? Il sacerdote ridotto dal Pontefice in stato laicale che, dinanzi al rifiuto del Papa di restituirgli la tonaca, minacciava di auto-assolversi dai propri peccati?
Ebbene, coinvolto in una serie di procedimenti dall'esito quantomai incerto, il Presidente del Consiglio ha imposto l'approvazione di una serie di leggi volte non a risolvere i problemi della giustizia, ma a paralizzare alcuni processi in corso. Più o meno come Don Bastiano: “i Giudici non mi vogliono assolvere? E io mi assolvo da solo!”.
Ecco quindi approvato in fretta e furia il Lodo Alfano, poi annullato dalla Consulta in ragione dell'esistenza di quei manifesti difetti di costituzionalità più volte denunciati dai principali studiosi del diritto pubblico; ecco la legge sul Legittimo impedimento, la quale può essere definita come l'unico caso di legge ad incostituzionalità autocertificata. Posto infatti che l'interesse al sereno svolgimento dell'attività di governo è interesse di rilevanza costituzionale, lo stesso legislatore ha precisato che la legge de qua cesserà di operare quando lo “scudo” per i processi contro il premier ed i ministri verrà inserito nella Carta Fondamentale. In altre parole: sappiamo che il legittimo impedimento deve essere approvato con legge costituzionale, ma per adesso – finché non riusciremo a mettere mano alla Costituzione, magari con l'appoggio di qualche oppositore dialogante - lo approviamo attraverso una legge ordinaria, pur essendo consapevoli dell'incostituzionalità della stessa.
Tuttavia, in base alle dichiarazioni rese in questi giorni dal Guardasigilli Alfano, la “grande riforma” della Giustizia sta per arrivare, e sarà una riforma basata su due direttrici fondamentali: azzeramento del CSM nella sua configurazione attuale (sezioni disciplinari autonome, divieto di formulare pareri non richiesti, revisione dei criteri di composizione); separazione delle carriere tra giudici e PM, così da imporre agli “avvocati dell'accusa di recarsi dal magistrato giudicante con deferenza e con il cappello in mano”.
Ma, è lecito domandarsi, questa riforma del processo penale contribuisce a risolvere i problemi della Giustizia? Assicura, in altri termini, processi più rapidi, certezza della pena per gli autori di un reato, un più razionale sfruttamento delle (poche) risorse di cui il nostro sistema giudiziario dispone? La risposta è evidente: si tratta (volendo utilizzare le parole di Franco Cordero) non di una riforma della giustizia ma di una riforma dei giudici, di una riforma volta a costringere la magistratura requirente a rinunciare all'autonomia che ad essa è attualmente riconosciuta dalla Carta Fondamentale per abbandonarsi una volta per sempre alla logica del “cappello in mano”.
Ed ecco dunque che un ultimo interrogativo inizia a tormentare il giurista democratico: le forze di opposizione presenti in Parlamento devono accettare l'invito ad aprire un “tavolo delle riforme” con una maggioranza che, risultando più impegnata a tutelare esigenze individuali che ad assecondare l'interesse generale, sembra disposta ad anteporre la “Voce del Principe” alla cultura della legittimità? In altre parole: dianzi ad un legislatore dimostratosi finora affetto dalla sindrome di Don Bastiano, che speranza si può avere di Giustizia?

Carlo Dore jr.

lunedì, aprile 05, 2010


LE TRE VERITA' DEL PD E LA SINDROME DELL'ANATRA AZZOPPATA

All'indomani della sconfitta di Emma Bonino e Mercedes Bresso nella corsa alla presidenza di due regioni “strategiche” come Lazio e Piemonte, è partito l'attacco della minoranza interna del PD alla segreteria di Pierluigi Bersani, la cui leadership rischia di subire dunque un brusco ridimensionamento dopo appena cinque mesi dalle primarie che ne hanno consacrato l'ascesa al vertice del Nazareno.
Mentre quarantanove senatori democratici hanno scritto una lettera al segretario in carica invocando un non meglio precisato “cambiamento d'anima”, Franceschini e Veltroni – sempre in procinto di salpare a vele spiegate alla volta delle coste africane – hanno occupato le prime pagine dei principali quotidiani nazionali per riproporre la loro “visione del riformismo”: riecco dunque tornare in auge il leit motiv della vocazione maggioritaria, dello spirito del Lingotto, del partito gazebo costruito sulla perenne girandola di primarie e doparie. Insomma, l'assalto a Bersani è partito di nuovo, e il PD rischia di trovarsi, per la seconda volta in tre anni, con un leader ridotto alla non facile condizione di “anatra azzoppata”.
Tuttavia, attraverso un'analisi attenta del voto della scorsa settimana, è possibile cogliere tre importanti verità, in cui risiede la principale ragione giustificativa dell'ultima (non clamorosa, ma certamente dolorosa) sconfitta dei progressisti italiani. Prima verità: la sconfitta di cui ora si esaminano cause e proporzioni non deve essere interpretata come una sconfitta del segretario, di cui invece è giusto riconoscere i meriti. Il merito di avere aperto – attraverso il continuo e costante richiamo ai temi del lavoro e delle emergenze sociali – uno squarcio di realtà nel libro dei sogni della politica berlusconiana; il merito di avere cercato di recuperare al PD una fetta di qual voto operaio che, al momento, costituisce una componente decisiva della base di consenso della Lega Nord; il merito di avere, più in generale, iniziato a dare una forte identità progressista ad un partito dalla spina dorsale ancora indefinibile. In altre parole, riprendendo il pensiero affidato da Massimo Cacciari alle pagine di Repubblica, Bersani non ha perso, ma ha limitato i danni; Bersani è ancora un segretario vero, non un'anatra zoppa.
Seconda verità: esiste una profonda spaccatura tra la dimensione “nazionale” del PD – costituita da personalità di alto profilo, in grado come tali di declinare le linee guida della famosa alternativa allo strapotere del Cavaliere – e la dimensione del partito stesso nelle sue articolazioni locali, terra di conquista per l'imperversare dei vari “cacicchi” di cui Gustavo Zagrebelsky ha più volte denunciato l'esistenza. Il PD paga infatti la mancanza (triste retaggio del modello del “partito leggero” di veltroniana memoria) di una struttura organizzativa solida e ramificata, presupposto indispensabile sia per attutire le tensioni, i contrasti ed i personalismi che fatalmente si registrano a livello territoriale, sia per garantire la necessaria continuità programmatica ed operativa tra il vertice ed il territorio.
Terza verità: la mancanza dell'appena descritta struttura organizzativa genera a sua volta due ulteriori conseguenze negative. In primo luogo, essa riduce la capacità dei dirigenti nazionali di interpretare correttamente gli orientamenti che la base assume nelle varie realtà locali, ed espone il partito stesso ai macroscopici errori di valutazione che hanno caratterizzato la campagna per le primarie in Puglia. In secondo luogo, la mancanza del partito strutturato impedisce l'attuazione di un rigoroso procedimento di selezione della classe dirigente, favorendo così– dal Lazio alla Calabria - il tanto anomalo quanto pericoloso fenomeno delle auto-canidature o delle candidature imposte dai potentati locali (e talvolta colpevolmente ratificate dagli elettori attraverso lo sterile passaggio delle primarie dall'esito scontato).
E' l'assenza di una candidatura credibile la causa della sconfitta nel Lazio, con Emma Bonino paracadutata a Roma dalle valli del cuneese grazie alla manifesta mancanza di alternative; è l'assenza di un partito in grado di incidere sulle scelte per la determinazione dei candidati che ha costretto il PD calabrese a garantire il proprio sostegno a Loiero, a discapito di una figura del carisma e dello spessore di Pippo Callipo, capace, da solo, di catalizzare su di sé quasi il 15% dei voti.
Tutto ciò premesso, le tre verità appena enunciate indicano come, respingendo gli assalti di quella minoranza che intende metterne in discussione la leadership, Bersani deve sfruttare il consenso di cui è stato investito da elettori e militanti per procedere alla ricostruzione di un partito serio e credibile, capace di recuperare consensi a sinistra ripartendo dal modello delle sezioni, dei rigidi procedimenti di selezione di dirigenti e candidati, del radicamento sul territorio prima che sui social network e sulla televisione satellitare. In altri termini - al di là delle pulsioni nuoviste e dei richiami al cambiamento d'anima, delle dissertazioni su primarie e doparie –, Bersani è chiamato a costruire il partito dell'alternativa, a svolgere una missione per la quale serve un segretario vero, non l'ennesima anatra azzoppata da una battaglia di potere che sembra non conoscere epilogo.

Carlo Dore jr.

lunedì, marzo 22, 2010


IL CAIMANO HA PAURA, ATTENTI AL CAIMANO!


Nella magica luce di un tramonto romano, il vecchio Caimano, per la prima volta, ha iniziato a sentirsi solo. Ha osservato a lungo la grande piazza piena di banchetti e gazebo, ha studiato ancora una volta la struttura del grande palco più adatto ad un ritrovo di rock star che ad un semplice comizio politico, ha seguito passo dopo passo l’incedere dei tre cortei che confluivano verso San Giovanni. Quindi, quella domanda stizzita “Ma quanti sono?”La fiesta è cominciata, con tamburelli e tromboni: risuonano alte le note della colonna sonora di Guerre Stellari, con La Russa in formato Skywalker e Brunetta perfettamente a suo agio nei panni del piccolo capo della setta Jedi. Ci sono Cicchitto e Gasparri, la Carfagna e la Gelmini; mancano i finiani? No, ecco Ronchi a rappresentare l’ala irredentista del PDL. Ci sono tutti, nessuno ha disertato l’appello. Verdini tuona dal microfono: “siamo più di un milione”; al Caimano si incrina il sorriso di cartapesta: “Un milione? Ma dove?”Un’altra occhiata alla Piazza: non è piena come nel 2006, quando il jngle “Meno male che Silvio c’è!” spopolava tra gelatai e casalinghe da copertina, quando il mantra dei magistrati politicizzati scaldava cuore e fegato dell’elettorato post-fascista, quando il mito del “Governo del Fare” trovava nell’efficientismo decisionista di Bertolaso la sua più alta rappresentazione.La Piazza non è piena come nel 2006, Verdini ha toppato di nuovo: stavolta, bisogna fare i conti con il malessere crescente di un Paese al collasso, stanco di sentirsi ripetere che “la crisi non esiste”; con il mito del Governo del Fare che affonda nel magma gelatinoso degli scandali e delle veline, delle liste non presentate e dei decreti-truffa, della corruzione e delle intercettazioni; con una opposizione che recupera fiducia e consensi grazie alle scelte di un leader finalmente capace di parlare delle vere emergenze nazionali, senza fare concessioni alla logica del “ma anche”.La Piazza non è piena, l’incubo dell’astensione di massa è sempre più minaccioso: il Caimano sente, lontano lontano, il fastidioso odore della sconfitta, ed inizia ad avere paura. Poi, mentre La Russa non ha ancora esaurito le presentazioni, prende il microfono e parte all’attacco con la grinta dei giorni migliori: contro i giudici comunisti, i giornalisti faziosi, l’opposizione che genera pessimismo, le Questure che rifiutano di confermare i numeri di Verdini.Quando infine i tredici potenziali Governatori in quota PDL sono costretti a salire al centro del palco per sottoporsi ad un giuramento degno della cerimonia inaugurale di un campo delle Giovani Marmotte, tutti gli osservatori imparziali non riescono a trattenere un moto di stupore: l’epopea del Grande Comunicatore sta per concludersi come un filmaccio di quart’ordine; questo è il crepuscolo del Caimano, il crepuscolo di un uomo solo con la sua paura.Ma se la paura davvero è la via che conduce al lato oscuro, allora attenti a sottovalutare la paura del Caimano. La colonna sonora di Guerre Stellari potrebbe infatti essere il preludio più adatto per un ultimo, disperato, violentissimo attacco dei cloni, basato su una riforma della giustizia volta a sottoporre la magistratura requirente al giogo dell’Esecutivo, e su una revisione della Costituzione diretta ad attuare quel presidenzialismo forte che consentirebbe al Premier investito dal consenso popolare di governare senza la fastidiosa intermediazione del Parlamento e delle altre Istituzioni di garanzia.Per questo, indipendentemente dall’esito delle prossime elezioni amministrative, è necessario che la mobilitazione dell’area democratica mantenga il livello di rigore e di incisività osservato negli ultimi venti giorni: perché il Caimano impaurito difficilmente rinuncerà all’ultimo colpo di coda, all’ultimo passaggio della deriva cesarista che più volte ha rischiato di trasformare l’Italia in una democrazia minore.Il Caimano adesso ha paura: ora come non mai, bisogna avere paura del Caimano.


Carlo Dore jr.

domenica, marzo 07, 2010


PICCOLA STORIA IGNOBILE

"Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare: così solita e banale come tante. Che non merita nemmeno due colonne su un giornale, o una musica, o parole un po' rimate: che non merita nemmeno l'attenzione della gente, tante cose più importanti hanno da fare..."
Le parole di Francesco Guccini, provenienti dal lontano 1976, introducono il racconto di questa ennesima piccola storia ignobile dell'Italietta berlusconiana, solita e banale come tutte le altre vicende a cui siamo stati costretti ad assistere in questi anni, ora manifestando sconcerto, ora rassegnazione, ora speranza, ora un disperato desiderio di reazione.
E' la storia di una lista presentata, ritirata, e poi ripresentata fuori tempo massimo, quando l'ufficio elettorale aveva già chiuso i battenti. E' la storia di una candidata sull'orlo di una crisi di nervi che apostrofa con un inequivocabile “manica di imbecilli” gli autori del colossale papocchione; di firme non riscontrate e di timbri non visibili; di una piazza gremita di neo-fascisti urlanti che scandiscono ossessivamente lo slogan “boia chi molla!” sotto la pioggia gelida da cui sono sferzati i tetti di Roma.
L'epilogo di questa storia dovrebbe essere scontato: ci si aspetta che le liste irregolari risultino escluse dalla competizione elettorale; che il leader del partito estromesso dalle elezioni pretenda la testa dei dirigenti dimostratisi incapaci di assolvere al loro compito se non con efficienza, quantomeno con dignità; che i responsabili dell'autogol vengano identificati ed esposti alla reazione degli elettori inferociti.
Tuttavia, questo lineare percorso logico collide con la strana realtà di fatto che al momento caratterizza un Paese alla deriva: le liste indubbiate non sono liste qualsiasi, sono le liste del Partito del Capo, di un partito che da anni declina una concezione della politica in forza della quale la cultura delle regole, il rispetto degli equilibri tra le Istituzioni, l'autonomia dei garanti sono costantemente sopraffatte dal risuonare della voce del Princeps, sempre amplificata dall'immancabile coro a bocca chiusa condotto da giornalisti asserviti, solerti scherani, intellettuali fasulli, sottoposti più o meno ambiziosi. Le regole si cambiano, la Costituzione si aggira, le garanzie si sabotano, le Istituzioni si attaccano: conta solo la voce del Princeps, conta solo ciò che lui impone o vieta.
E così, al termine dell'ultima delle tante notti dai lunghi coltelli che hanno scandito l'evoluzione della Seconda Repubblica, ecco che il Princeps promette e minaccia, programma e smentisce, e alla fine vede e provvede: arriva il decreto che sana le irregolarità, che cancella i ritardi e le omissioni, che consente a dirigenti e candidati di tirare il classico sospiro di sollievo, che restituisce il fiato ai neofascisti congelati dall'incessante pioggia romana. Il tutto, come da copione, in ragione della suprema necessità di tutelare il supremo diritto (invero, mai messo in discussione) dei cittadini di esprimere correttamente il loro voto.
Ora, mentre quest'ultima piccola storia ignobile trova rapidamente il suo epilogo, mentre il popolo viola invade le piazze e mentre l'opposizione si prepara all'ennesima battaglia democratica, non è forse più il caso di evidenziare ancora una volta i molteplici profili di illegittimità che contraddistinguono un provvedimento volto semplicemente a realizzare l'ennesimo abuso di potere. Per quanti individuano nella Costituzione il substrato fondamentale del proprio pensiero politico, rimane spazio solo per un ultimo, disperato grido di indignazione: di quella indignazione sottile e fastidiosamente abituale accumulata in occasione della vicenda di Eluana Englaro e dell'approvazione del Lodo Alfano, dello scandalo della Protezione Civile e della Vallettopoli del potere.
E' l'indignazione di chi fatica a riconoscersi in un Paese ormai privato dei tradizionali punti di riferimento che governano la normale convivenza democratica, dove – volendo riproporre le parole di Gustavo Zagrebelsky – “le Leggi con la maiuscola” sono state “piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri anche il più pubblico degli atti”.E' l'indignazione di chi proprio non si rassegna a dover fungere da silente comparsa in una delle solite, banali, piccole storie ignobili che il risuonare della voce del Principe quotidianamente impone agli assuefatti reduci di questa povera, triste Italietta berlusconiana.

Carlo Dore jr.