domenica, agosto 31, 2008



RIFORMA DELLA GIUSTIZIA:
LA DERIVA AUTORITARIA E “SOSTIENE LATORRE”


In una lunga intervista rilasciata in esclusiva al direttore de “Il Giornale”, il Ministro della Giustizia Alfano ha indicato le linee – guida della proposta di riforma del sistema giudiziario destinata ad essere sottoposta all’esame del Consiglio dei Ministri entro la fine di settembre. Dichiarando di ispirare le proprie scelte alle idee di Giovanni Falcone, il Guardasigilli ha individuato una volta ancora nella separazione delle carriere dei magistrati, nella radicale ridefinizione dei criteri di composizione del CSM, nel superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale i passaggi fondamentali per restituire efficienza e credibilità ad una giustizia prossima al collasso.
Mentre l’ANM non ha esitato a denunciare il rischio di una deriva autoritaria volta a mettere la Magistratura sotto tutela, alcuni settori del principale partito di opposizione lasciano aperto più di uno spiraglio al dialogo con l’Esecutivo. In particolare, Nicola Latorre (che già aveva espresso il proprio gradimento con riguardo all’iniziativa diretta ad ottenere la nomina di Berlusconi alla carica di Senatore a vita, nell’ambito di una non ben precisata strategia di “pacificazione nazionale”) sostiene che le posizioni del sindacato delle Toghe esprimono «una preoccupazione corporativa a prescindere dal contesto e dalle ipotesi di riforma. Ci si muove sulla base di parti in commedia che abbiamo conosciuto in questi anni e che non hanno mai fatto fare un passo avanti alla discussione sui temi della giustizia».
Proprio le dichiarazioni del Senatore del PD rendono però necessaria la formulazione di alcuni interrogativi in ordine alla linea di azione che, sul delicatissimo tema della giustizia, l’area democratica deve contrapporre allo strapotere berlusconiano. Posto che – sostiene Latorre - «le riforme non le faranno né gli avvocati né i magistrati. Entrambi saranno ascoltati ma sarà il Parlamento ad agire» e che – sostiene sempre Latorre - , ferma restando la centralità della separazione dei poteri, «possiamo discutere di tutto, anche di obbligatorietà dell’azione penale», non possiamo non chiederci: le misure elaborate dal Guardasigilli potranno contribuire a risolvere gli eterni problemi della giustizia italiana? In altri termini: la seperazione delle carriere dei magistrati, la sostanziale sterilizzazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’incremento del numero dei componenti laici del CSM, la creazione di una sezione disciplinare “sganciata” dal CSM, e per finire la boutade del PM eletto direttamente dai cittadini (singolare disegno di politicizzazione della magistratura elaborato dai più irriducibili oppositori delle “toghe militanti”) potranno favorire la realizzazione di un sistema giudiziario più rapido ed efficiente, tale da garantire un effettivo punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza dei cittadini e la necessità di garantire i diritti dell’imputato?
Allo stato delle cose, la risposta a siffatti quesiti non può che tradursi in un secco niet. Come correttamente ha osservato Gerardo D’Ambrosio, se da un lato la separazione delle carriere è finalizzata soltanto a «scoraggiare i magistrati che indagano sui potenti» (imbrigliandoli nella tagliola costituita da un’azione disciplinare riconnessa ad un soggetto sottoposto al potere politico e da progressioni di carriera dipendenti da non ben precisate valutazioni di competenza), d’altro lato il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale di fatto attribuisce al Parlamento il potere di individuare quei reati “socialmente allarmanti” da perseguire in via prioritaria. E’ quindi facile ipotizzare come, mentre Procure e Tribunali rimarranno sommersi dai processi per reati contro la persona e contro il patrimonio (con buona pace di quanti reclamano a gran voce provvedimenti diretti a contrastare le lungaggini del sistema processuale), i fatti riconducibili alla c.d. “criminalità economica” saranno destinati a restare nella sostanza impuniti.
Premesso che le argomentazioni dirette ad attribuire a Giovanni Falcone la paternità morale della riforma che si esamina (lo stesso Pietro Grasso ha ribadito che mai Falcone avrebbe accettato l’idea di una magistratura asservita alla volontà dell’Esecutivo e della maggioranza che lo sostiene), la “bozza Alfano” non sembra prendere in considerazione quelle riforme strutturali - assunzione di nuovi magistrati; revisione e razionalizzazione degli assetti dei vari uffici giudiziari; eliminazione di un grado di giudizio nel processo penale; depenalizzazione di quei reati minori che potrebbero essere efficacemente sanzionati in termini di illecito amministrativo - di cui il nostro sistema giudiziario sembra avere davvero bisogno.
Spetterà quindi ai tanti esponenti dell’area democratica (da Furio Colombo a Gianrico Carofiglio; da Nando dalla Chiesa allo stesso Gerardo D’Ambrosio) che hanno individuato nella difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura l’argomento fondamentale del loro impegno politico il compito di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su queste effettive priorità, e di contrastare così la “deriva autoritaria” della giustizia che la riforma elaborata dall’Esecutivo rischia di innescare, superando una volta per sempre le illusorie prospettive di dialogo a cui la logica del “sostiene Latorre” sembra ancora fare riferimento.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

giovedì, agosto 21, 2008


L’INCUBO DI UNA GIUSTIZIA A DUE VELOCITA’

Nel momento in cui, a seguito dell’approvazione del c.d. Lodo Alfano da parte delle Camere, l’Esecutivo ha ritirato l’emendamento che disponeva la sospensione per un anno dei processi relativi a reati “non socialmente allarmanti”, alcuni autorevoli commentatori hanno tirato il più classico sospiro di sollievo, rassegnandosi ad accettare quello che appariva come il male minore: in altri termini, meglio assistere allo scientifico sabotaggio di tre procedimenti che dover sopportare la vanificazione di migliaia di processi prossimi alla decisione in primo grado; meglio digerire una previsione che assicura al Premier una forma di immunità inconcepibile presso qualsiasi altra democrazia occidentale che essere costretti a fare i conti con una Giustizia a due velocità, basata sull’arbitraria distinzione tra “reati di serie A” e “reati di serie B”.
Tuttavia, il sollievo di questi illuminati sostenitori della “logica del meno peggio” era destinato a durare quanto il leggendario sogno di una notte di mezza estate: poco prima della sospensione dei lavori parlamentari, sfruttando il colpevole silenzio di gran parte dell’opinione pubblica, un nutrito drappello di Senatori di maggioranza ed opposizione hanno presentato un atto di sindacato ispettivo (n. 1-00019) volto ad «impegnare il Governo ad attuare, con il più ampio dibattito parlamentare, una riforma davvero radicale del sistema giustizia».
Premesso infatti che «lo stato della Giustizia in Italia ha raggiunto livelli di inefficienza assolutamente intollerabili» e che tale stato di emergenza ha «ormai determinato una sfiducia generalizzata dei cittadini nel sistema - giustizia», i firmatari dell’atto in questione propongono – oltre alla separazione delle carriere di giudici e PM, alla revisione delle prerogative del CSM e alla «reintroduzione di severi vagli della professionalità dei magistrati» - «l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, con la previsione di un procedimento per la fissazione dei criteri per l’uso dei mezzi di indagine e per l’esercizio dell’azione penale» nonché la creazione «di un soggetto istituzionale politicamente responsabile…per la loro effettiva ed uniforme interpretazione a livello operativo».
Al di là dei bizantinismi che ne caratterizzano la formulazione, il ragionamento dei firmatari del suddetto atto di sindacato ispettivo può essere così sintetizzato: posto che il nostro sistema giudiziario procede a rilento a causa dell’eccessivo numero di procedimenti in corso, proviamo ad eliminare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (di cui all’art. 112 Cost., norma la quale impone al PM, di fronte ad una determinata ipotesi di reato, di valutare se esistono elementi sufficienti per sottoporre a processo la persona a cui quel reato è contestato e di procedere, nel caso, con la richiesta di rinvio a giudizio), e limitiamoci a perseguire solo alcuni delitti: diminuendo il carico di lavoro di Procure e Tribunali, forse si può sperare in una giustizia più rapida ed efficiente. Insomma: altro che sospiro di sollievo, altro che male minore. L’attuazione di un simile disegno rappresenterebbe l’incubo perfetto di ogni giurista democratico: non a caso, l’incubo di un’arbitraria Giustizia a due velocità.
Sorvolando per un attimo sugli aspetti paradossali che contraddistinguono la proposta in commento (non oso immaginare cosa accadrebbe se, per liberare le corsie, qualcuno ipotizzasse di limitare l’assistenza ospedaliera solamente ai pazienti affetti da determinate patologie, abbandonando gli altri malati al loro destino), il contenuto dell’atto parlamentare che si esamina presenta un inquietante cono d’ombra: se viene meno l’obbligatorietà dell’azione penale, a chi spetterà il potere di determinare i reati da perseguire? In altre parole, chi dovrà governare le due velocità della nostra Giustizia?
Come faceva notare Bruno Tinti in un bell’articolo pubblicato su “L’Unità” lo scorso martedì, le soluzioni a tale interrogativo sono fondamentalmente due: o si demanda un simile potere ai vertici delle Procure - con buona pace del principio di legalità, che riserva al legislatore il compito di individuare i fatti configurabili in termini di reato -, o si riconnette una simile prerogativa ad un soggetto espressione del potere politico, e segnatamente a quel “soggetto istituzionale politicamente responsabile” a cui fanno riferimento i firmatari dell’atto di sindacato ispettivo n. 1-00019. Ma appare chiaro anche ai non addetti ai lavori come una simile costruzione finirebbe con il determinare l’assoluto primato della politica sull’ordine giudiziario (vincolando di fatto la Magistratura requirente alle contingenti volontà della maggioranza parlamentare) , con conseguente superamento di quelle guarentigie di indipendenza ed autonomia della Magistratura su cui la separazione dei poteri delineata dalla Costituzione ineludibilmente si fonda.
Al momento, non è dato se la proposta oggetto di questa mia riflessione sia destinata ad avere un seguito o a rimanere nell’embrionale stadio di brutto sogno di mezza estate, ma soprattutto non è dato sapere quale atteggiamento i parlamentari del PD decideranno di assumere dinanzi alla crociata d’autunno che Ghedini ed Alfano intendono lanciare contro quelle che Berlusconi si ostina a definire come “toghe militanti”.
Non sappiamo infatti se il principale partito di opposizione intenda mobilitarsi con forza a difesa della legalità costituzionale, magari facendo proprie le proposte di riforma individuate da Bruno Tinti nell’intervento di cui sopra (revisione degli assetti degli uffici giudiziari; eliminazione del giudizio di appello; depenalizzazione dei comportamenti punibili attraverso sanzioni amministrative; assunzione di nuovi magistrati e di nuovi ufficiali giudiziari), oppure se finirà col rassegnarsi passivamente a sopportare l’attuazione del modello di Giustizia quotidianamente prospettato dai sodali del Cavaliere: a sopportare l’attuazione dell’incubo di una giustizia a due velocità.

Carlo Dore jr.