giovedì, febbraio 22, 2007


E ADESSO?


Mentre scrivo queste righe, le agenzie di stampa battono all’impazzata le notizie relative alla crisi di governo formalmente aperta dopo le dimissioni del presidente Prodi. Come di consueto, in queste fasi politicamente convulse, una nutrita schiera di commentatori più o meno autorevoli si affannano a ricercare le cause di questo ennesimo fallimento del centro-sinistra italiano o a delineare gli scenari che potranno aprirsi una volta esaurita la fase delle consultazioni.
Per parte mia, non ho la lucidità per avventurarmi in valutazioni tecnicamente corrette, per procedere in un’analisi distaccata della situazione che ora siamo chiamati a commentare: il mio intento è quello di rappresentare, senza vergogna e senza timori, il modo in cui un militante appassionato, fiero del suo essere di sinistra, vive quello che è il momento conclusivo di un progetto politico al quale aveva, per scelta e per necessità, ritenuto di aderire.
Durante i cinque anni di regime del Caimano, non ho mai smesso di credere che la sciatta e arrogante compagnia di nani e ballerine insediatasi a Palazzo Chigi sarebbe stata, prima o poi, costretta a riprendere la via di Cologno Monzese; che il sistema politico asservito alle esigenze di un ex membro della P2 improvvisatosi premier sarebbe svanito come un incubo alle prime luci dell’alba; che le leggi ad personam, i processi sabotati, la bieca censura dei giornalisti scomodi , il servilismo dimostrato dinanzi alle logiche autoritarie di quella potenza straniera arbitrariamente elevatasi al ruolo di unico baluardo di una libertà da esportare in punta di mitra sarebbero state presto archiviate come una delle più nere pagine della già triste storia del nostro Paese.
Forte di questa mia convinzione, ho scritto articoli e partecipato a dibattiti, firmato petizioni e preso parte a manifestazioni di piazza. Ho condiviso il sogno del movimento dei Girotondi, del popolo della Pace e degli scioperanti iscritti alla CGIL: il sogno di poter dare all’Italia quel governo di sinistra capace di porre in essere l’opera di “deberlusconizzazione” della società di cui Indro Montanelli aveva, in punto di morte, auspicato l’attuazione.
Il governo Prodi non si è rivelato all’altezza di svolgere questo compito: alla richiesta degli elettori di procedere all’abrogazione delle leggi ad personam ha risposto sostenendo l’approvazione dell’indulto; alle pressioni del movimento pacifista ha idealmente replicato imponendo l’ampliamento della base di Vicenza (dopo avere delineato una strategia di smobilitazione dal conflitto iracheno di gran lunga più blanda rispetto a quella a suo tempo seguita da Zapatero); all’aspettativa di quanti auspicavano l’elaborazione di una politica economica chiara e rigorosa ha offerto una finanziaria che tuttora alimenta dubbi anche negli osservatori più benevoli.
Eppure, l’epilogo a cui l’Esecutivo è andato incontro, affossato da due franchi tiratori e dalla fraudolenta astensione di due dei più oscuri spettri della Prima Repubblica, non può che alimentare la tristezza di tutti i progressisti italiani, di coloro i quali avevano ritenuto di aderire al progetto dell’Unione, imparando a credere nel sogno di un Paese senza Berlusconi.
E ora, mentre le agenzie di stampa battono le ultime notizie, e il Caimano già immagina di poter di nuovo trasferire a Palazzo Chigi la sua corte di nani e ballerine, al popolo del centro-sinistra non rimane che il triste eco di una domanda: e adesso?

Carlo Dore jr.

mercoledì, febbraio 14, 2007


LA MOZIONE FASSINO: TRA “ARIA FRITTA” E AUTORITARISMO RIFORMISTA

La pubblicazione delle mozioni su cui il congresso dei DS sarà chiamato ad esprimersi in primavera, allorquando si deciderà se la strategia diretta alla creazione del PD potrà o meno trovare attuazione, era particolarmente attesa dai militanti del principale partito della sinistra italiana. In particolare, quel sempre più nutrito drappello di “irriducibili conservatori” che finora si sono limitati “a condannare apoditticamente” il progetto unitario speravano di individuare, tra le righe della mozione – Fassino e del famoso Manifesto degli intellettuali, qualche argomentazione idonea ad attribuire un minimo di fondatezza ad una linea programmatica della quale, al momento, non è dato comprendere presupposti ed obiettivi.
Ebbene, questa speranza è andata miseramente delusa: se si volesse infatti proporre una definizione politicamente corretta dei principi di cui si compongono i documenti sopra citati, si dovrebbe osservare che essi si articolano in una serie di enunciati contraddistinti da una palese mancanza di contenuti, considerato che qualunque partito politico di ispirazione non autoritaria non può che mirare alla realizzazione di un modello di società tollerante, multietnica e meritocratica, caratterizzata da una bassa disoccupazione, da un economia stabile, da istituzioni moderne e da un’amministrazione efficiente. Se invece si volesse fare ricorso ad un linguaggio semplicemente più immediato, allora la qualifica di “concentrato di aria fritta” proposta con riferimento al contenuto della mozione “per il PD” emergerebbe in tutta la sua macroscopica correttezza.
Allo stato, la posizione dei sostenitori della linea elaborata da Fassino può quindi essere così riassunta: alea iacta est, il socialismo è morto, la nuova forza politica è destinata a nascere del 2008. Premesso che i militanti si interrogano su chi abbia tirato i dadi e soprattutto su chi possa essersi assunto la responsabilità di decretare il superamento di un’ideologia dalla storia gloriosa e dalla sconcertante attualità, coloro i quali legittimamente si oppongono ad un simile status quo, rilevando le tante ambiguità insite nella strategia in commento, vengono ad essere senza mezzi termini tacciati di gretto estremismo, di miopia politica, di settarismo sterile.
Chiarito che simili reazioni scomposte, facilmente riconducibili a logiche di tipo autoritario, non si addicono di certo ai sostenitori di un partito che dovrebbe essere “aperto” a differenti orientamenti, la deriva neocentrista che l’attuale gruppo dirigente vuole imporre al partito (nel tentativo di trasformare il futuro congresso in un mero organo di ratifica di una decisione già varata) potrebbe incontrare solo due spiegazioni logiche.
In primo luogo, non sembra infatti priva di fondamento la costruzione in base alla quale il PD nascerebbe per “dare un partito a Prodi”, unico tra i grandi leaders europei a non essere direttamente rappresentato da una forza politica in grado di partecipare ad una competizione elettorale. Ma proprio questo obiettivo di normalizzazione della politica fa emergere una delle tante anomalie che inficiano il nostro sistema istituzionale: posto che l’Italia rimane una delle poche democrazie occidentali in cui il candidato premier dell’area progressista non può essere diretta espressione del principale partito collegato alla coalizione che lo sostiene, non si può non rilevare come in Francia, in Spagna, ed in Germania partiti di chiara estrazione socialista sono da tempo in grado di indicare un loro esponente per la guida dell’Esecutivo.
In ragione di quanto appena affermato, non si comprende la ragione per cui i DS, invece di rafforzare la loro condizione di credibile forza di governo, hanno scelto di rinunciare alla loro identità storica, per risolversi di fatto in un contenitore moderato del tutto estraneo alla tradizione ideologica della sinistra europea.
In secondo luogo, si potrebbe sostenere che gli elettori hanno dimostrato, in occasione delle ultime consultazioni politiche, di condividere a tal punto la strategia unitaria da convincere le segreterie dei due partiti di riferimento ad accelerare il processo di creazione del nuovo soggetto politico. Tuttavia, fermo restando che gli esiti riportati dalla lista dell’Ulivo non rispecchiano in alcun modo le aspettative del gruppo dirigente, sembra logico osservare che il minimo scarto che intercorre tra i consensi ottenuti dalla suddetta lista e la somma dei voti riportati da DS e Margherita trova la sua ragione giustificativa nella volontà, diffusa tra i militanti di centro-sinistra, di sostenere Romano Prodi nella corsa contro il Caimano.
Queste semplici considerazioni sono solo un’ulteriore conferma della congenita debolezza che contraddistingue gli argomenti a cui fanno ricorso i sostenitori del PD, debolezza che assume contorni sempre più inquietanti quando la strategia elaborata nell’assise di Orvieto viene descritta alla stregua “un treno che ormai non può più essere fermato”. Riprendendo in questo senso il pensiero dell’iper-riformista Reichlin, è infatti logico sostenere che, se un partito non si inventa dall’oggi al domani, a maggior ragione “aria fritta” e pulsioni autoritarie non possono costituire l’esclusivo fondamento di un valido progetto politico.

Carlo Dore jr.

martedì, febbraio 06, 2007


UNA FORZA UNITARIA DELLA SINISTRA ITALIANA COME ALTERNATIVA AL PARTITO DEMOCRATICO


In un incontro-dibattito svoltosi a Cagliari lo scorso 2 febbraio, l’on. Giorgio Mele (senatore della Sinistra DS), Andrea Pubusa, Ottavio Olita e Gianfranco Macciotta si sono interrogati sulla possibilità di elaborare delle strategie alternative a quella diretta alla realizzazione Partito Democratico, mettendo in rilievo le tante contraddizioni che caratterizzano gli argomenti generalmente utilizzati da quanti, in seno ai DS, aderiscono alla c.d. mozione – Fassino.
Essendo stato affidato a me il compito di introdurre gli argomenti oggetto della suddetta iniziativa, ho voluto proporre all’attenzione dei relatori quelli che sono i miei dubbi e le mie incertezze in ordine alla costituzione della nuova forza politica, nel tentativo di comprendere se la mia paura di vedere la principale realtà della sinistra italiana risolversi in una sorta di ambiguo contenitore moderato debba o meno considerarsi fondata.
L’intervento dell’on. Mele, lucido nella sua formulazione e coinvolgente nella sua carica polemica, ha in questo senso confermato come l’attuale gruppo dirigente stia avvolgendo il nostro partito in una sorta di deriva neocentrista, perfettamente funzionale alle logiche di tipo trasversale che traspaiono dai tentativi di larghe intese sulla legge elettorale, dai nebulosi progetti di riforma della Carta Fondamentale, dalle prospettive di formazione di più o meno definiti “tavoli di volenterosi” preposti ad elaborare le scelte di politica economica. Una simile linea di azione non può che risultare finalizzata ad allontanare sempre più i DS da quei principi del socialismo europeo, a cui peraltro la maggior parte dei militanti (fortemente ancorata ai valori della sinistra tradizionale) tuttora non rinuncia a fare riferimento.
Così ragionando, coloro i quali si oppongono ad un simile processo degenerativo, manifestando la necessità di difendere l’identità socialista nell’elaborazione delle scelte inerenti i grandi temi della pace, della giustizia, del lavoro e della laicità dello Stato, vengono brutalmente tacciati di gretto settarismo da quello stesso manipolo di nuovi riformisti che non hanno esitato a minare l’integrità della coalizione di governo, attraverso il sostegno offerto all’o.d.g. proposto dal leghista Calderoli in ordine all’ampliamento della base di Vicenza.
Tuttavia, le infondate accuse di estremismo non hanno impedito agli organizzatori dell’iniziativa di cui sopra di rilevare con forza almeno due delle principali incoerenze insite nei ragionamenti proposti dai sostenitori del PD. In primo luogo, con particolare riguardo all’affermazione secondo cui il venire in essere del nuovo partito garantirebbe una “semplificazione della politica”, risultando una simile operazione funzionale all’attuazione di un bipolarismo perfetto, si è proceduto a sgomberare il campo da un equivoco più o meno consapevolmente alimentato in questi mesi dai fautori della mozione unitaria.
Nella sua configurazione attuale, il PD non può infatti essere descritto come il partito unico del centro-sinistra, ma come il prodotto della fusione a freddo tra due componenti delle principali forze che sostengono l’attuale Esecutivo: la sua creazione finirà quindi paradossalmente col determinare la sussistenza di una molteplicità di partiti (appunto il PD, la sinistra DS, la componente più moderata della Margherita) destinati a contendersi la stessa fetta di elettorato. Lungi dal costituire una scelta riconducibile ad una logica di tipo bipolare, il nuovo soggetto politico contribuirà ad alimentare le divisioni che già al momento lacerano la maggioranza, operando in questo senso non già come un fattore di “semplificazione” bensì di “complicazione”.
In secondo luogo, costituisce una verità incontrovertibile l’affermazione in base alla quale la classe dirigente che al momento regge le sorti del nostro partito necessita di un radicale rinnovamento, considerato che tale classe dirigente è in massima parte composta dalla stessa pattuglia di colonnelli berlingueriani a cui il Segretario aveva affidato il compito di traghettare la sinistra italiana verso il 2000. Tuttavia, è difficile immaginare che il PD possa rivelarsi uno strumento funzionale a una qualsiasi strategia innovatrice, posto che quello stesso gruppo di potere che oggi sostiene la linea – Fassino non sembra incline a lasciare la guida della forza politica così formata agli intellettuali cui è stato demandato il compito di redigere il manifesto programmatico.
Anzi, è lecito supporre che lo stesso gruppo dirigente che ha portato i DS al minimo storico, che ha miseramente rischiato di perdere un’elezione già vinta, che deve essere considerato in toto responsabile per l’imposizione di candidature talmente impresentabili da risultare insostenibili anche per gli elettori più fedeli uscirà rafforzato dalla creazione del nuovo partito, in ragione del fatto che i soggetti che ad esso afferiscono non saranno più costretti ad assumere l’atteggiamento da uomini di sinistra che il loro attuale ruolo gli impone di osservare.
Prendendo atto delle manifeste incompatibilità storiche ed ideologiche che dividono i diretti discendenti del PCI dalla Margherita (realtà determinante del centro-sinistra italiano, in quanto rappresentativa di valori e di tradizioni altamente rispettabili nella loro validità), dal dibattito oggetto della presente cronaca è emerso come un radicale ricambio ai vertici dei DS costituisce il presupposto indefettibile per individuare un’alternativa credibile al progetto del PD.
E in questo senso, l’idea di una forza unitaria della sinistra italiana (basata sulla felice convergenza tra realtà caratterizzate da un’identica matrice quali appunto sono gli stessi DS, il PDCI e determinate componenti di Rifondazione) potrebbe davvero imporre all’attuale Esecutivo l’attuazione (con riferimento ai già citati temi del lavoro, della giustizia, della pace e della laicità dello Stato) di quelle stesse scelte attraverso cui governi socialisti, come quello guidato in Spagna da Zapatero, stanno realizzando una trasformazione progressista delle società di riferimento.


Carlo Dore jr.