giovedì, dicembre 05, 2013

IL MITO DI ULISSE E IL CONSERVATORISMO COSTITUZIONALE

Testo dell'intervento svolto in occasione della manifestazione "In difesa della Costituzione: una casa comune", tenutosi a Cagliari il 5/12/2013, alla presenza del Prof. Alessandro Pace.
 
Per proporre alcuni ulteriori spunti di riflessione al dibattito in corso sul tema della difesa della Costituzione, vorrei partite da un passaggio della relazione preliminare al ddl 813/2013: “occorre in primo luogo scongiurare quel conservatorismo costituzionale che, a volte anche animato da nobili intenzioni, rischia di bloccare ogni percorso di riforma. Sulla scorta dell’idea che la nostra sia la Costituzione più bella del Mondo, vi è chi arriva a rifiutare qualunque intervento riformatore della Carta Fondamentale”. Credo valga la pena di domandarsi in cosa consista questo “conservatorismo costituzionale”, e quali possano essere le “nobili intenzioni” che inducono i “conservatori” ad opporsi ad ogni riforma possibile.

C’è un’immagine, a mio sommesso avviso, che più di ogni altra descrive la condizione dei sostenitori del “conservatorismo costituzionale”: quella di Ulisse legato all’albero della sua nave mentre persegue la rotta verso Itaca, resistendo al canto delle sirene. Già, la Costituzione è come Itaca - attaccata da mille nemici ed insidiata da qualche falso amico, principalmente identificabile in quanti, rinnovando l’icona del sindaco d’Italia come modello di stabilità, di fatto declinano una concezione di Stato imperniata sul carisma dell’uomo solo al comando -, e proprio come il canto delle sirene suonano le mille argomentazioni che dovrebbero giustificare l’integrale revisione della seconda parte della carta.

Ma il canto delle sirene genera solo illusioni: ed è un’illusione l’assunto secondo cui è necessario modificare la Costituzione per riformare il sistema elettorale, per ridurre i costi della politica, per restituire efficienza alla pubblica amministrazione, per garantire più trasparenza nella gestione della cosa pubblica. Il canto delle sirene genera solo illusioni, che portano la nave ad infrangersi sugli scogli: gli scogli di una democrazia debole e poco garantita, rimessa alla mercé delle contingenti esigenze di un capo politico, identificabile ora nell’imprenditore dal sorriso di cartapesta, ora nel comico da strada dallo sberleffo sgangherato.

Ulisse resiste, l’albero non cede, la nave non perde la giusta rotta: c’è Itaca da raggiungere e da difendere, c’è una Costituzione da salvare, c’è un patrimonio di principi fatto di giustizia, di lavoro, di diritti, di uguaglianza a disposizione di quanti non rinunciano a credere che la prospettiva dell’Italia giusta coincida con quella dell’Italia migliore.

Tuttavia, così come Ulisse non intende finire i suoi giorni al sicuro di un porto,  il sostenitore del conservatorismo costituzionale non concepisce la Carta come una sorta di intangibile monolite: semplicemente, non accetta di confondere la “buona manutenzione costituzionale” (che può identificarsi nella riduzione del numero dei parlamentari o nel superamento del bicameralismo paritario) con il radicale stravolgimento della forma di governo. No, lo sguardo del “conservatore costituzionale” non è semplicemente rivolto al passato: egli intende la Carta come un programma politico da aggiornare ma soprattutto da applicare, sia nella parte in cui impone ai titolari di funzioni pubbliche di adempiere il loro mandato con disciplina e onore, sia allorquando descrive i partiti come strutture organizzate secondo il metodo democratico, e  in quanto tale incompatibile con l’autodafè agli anatemi sparati via web o tramite videomessaggio dal princeps di riferimento.

Ecco, sotto questo aspetto il sostenitore del conservatorismo costituzionale finisce davvero con l’identificarsi con Ulisse: perché trova nella Costituzione la sua Itaca, e la descrive non solo come una meta da raggiungere e come un porto da difendere, ma anche come il punto di partenza per un viaggio che ancora deve cominciare.

Carlo Dore jr.

mercoledì, novembre 27, 2013

GIORNI BUGIARDI - S. Di Traglia - C. Geloni; Editori Riuniti; 2013; pp. 236


Ahi che pessime orchestre, che brutta musica che sento: qui si secca il fiore e il frutto del nostro tempo. Sono giorni duri, sono giorni bugiardi: cara Democrazia, ritorna a casa, che non è tardi”.
Stefano Di Traglia e Chiara Geloni ricorrono ad una delle più famose liriche di Ivano Fossati per descrivere i duecento giorni che, dal 2 dicembre 2012 al 19 aprile 2013, vanno dalla vittoria di Bersani alle primarie per la premiership del centro-sinistra alla rielezione di Napolitano ed alla formazione del governo-Letta. Giorni bugiardi: di false promesse e di sogni spezzati, di vincitori condannati alla sconfitta, di rottamati diventati rottamatori, di professionisti dell’eversione reinventatisi paladini del civismo democratico. Comici e sindaci, dentisti e architetti, giovani parlamentari ed eminenze ingrigite: tutti spettatori non paganti del circo infernale scatenatosi nell’arena del Capranica, tutti registi inconsapevoli del misfatto consumatosi nella notte dei 101, e cristallizzato nell’inequivocabile titolo de Le Monde: “hanno abbattuto Prodi per colpire Bersani”.

Sì, erano giorni bugiardi quelli in cui credevamo che, una volta confinate le ambizioni del Rottamatore al di sotto del fatidico 40% dei consensi, “davvero non ci avrebbe più ammazzato nessuno”; in cui non riuscivamo a comprendere come la fatidica “agenda Monti” potesse in realtà costituire la pietra tombale sulle speranze di vittoria di una sinistra che, declinando il sogno di un’Italia giusta”, poteva quantomeno perseguire l’obiettivo di un’Italia migliore di quella uscita dalle secche del ventennio berlusconiano. Non avevamo capito che quelli erano giorni bugiardi: stretti tra il gelido rigore dei tecnici in loden e il populismo sgangherato di Grillo, tra il delirio mediatico di Berlusconi ed i soliloqui nostalgici di Ingroia, abbiamo visto svanire una vittoria che sembrava già nostra, e la speranza del “cambiamento” ridursi ad un beffardo miraggio.

Già il “cambiamento” era l’ossessione di Bersani, che, tra una tappa a Bettola e un colloquio con i ricercatori del CERN, già predisponeva le bozze dei decreti da sottoporre al primo Consiglio dei Ministri. Lavoro, diritti, legalità, moralità: c’era la nostra Italia in quei provvedimenti in nuce, destinati ad essere seppelliti in un armadio di Montecitorio; c’era la nostra Italia negli “otto punti” del Governo di cambiamento proposti alle Camere per sbloccare l’impasse istituzionale determinatosi all’indomani del voto del 25 febbraio. Nulla da fare: quelli erano giorni bugiardi, abbiamo detto dei “no” e ci siamo sentiti dire di “no”.

Quelli erano giorni bugiardi. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, e inseguivano le larghe intese con la benedizione di rottamati e rottamatori: alle larghe intese credevano i tanti montiani del PD, rimasti folgorati sulla via della Große Koalition; alle larghe intese credeva Renzi, che indicava l’accordo con il PDL come l’unica alternativa al ritorno alle urne. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, e proponevano un baratto scellerato tra Palazzo Chigi e il Colle. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, ma Bersani non voleva cedere: “la nostra gente non capirebbe le larghe intese” “Se sperano di convincermi ad eleggere un Presidente della Repubblica che garantisce la grazia a Berlusconi, se lo possono scordare”.

No, no. Due “no” che servono a spiegare l’evoluzione di quei giorni bugiardi. Servono certamente a spiegare la fuga di Grillo dalla responsabilità del governo di cambiamento, dall’intermediazione di Renzo Piano e dai contatti instaurati dal dentista pontiere: protestare è più semplice che governare, e le larghe intese costituivano lo scenario perfetto per rinnovare la parodia mediatica dell’assalto ai palazzi del potere. Servono probabilmente a spiegare il niet opposto dalla carica dei 101 innominati all’ascesa al Quirinale di Romano Prodi, prima acclamato e poi vilmente fulminato dal fuoco incrociato di rottamatori e rottamati, ritrovatisi fianco a fianco nelle tenebre della notte del Capranica. Hanno voluto colpire Prodi per colpire Bersani; l’ex segretario risponde con la forza di una battuta: “quelli avrebbero segato anche Papa Francesco”.

Il resto è mera cronaca: le dimissioni di Bersani segnano l’addio all’Italia giusta e al governo di cambiamento; le larghe intese nascono e muoiono nel giro di un’estate, seppellite dalla condanna del Cavaliere decadente e dalle mille polemiche per pasticci kazaki e ministri dal telefono bollente. Eppure, la lettura del libro di Di Traglia e Geloni riesce ad insinuare un dubbio nei militanti dell’area democratica, impegnati nell’ennesima battaglia congressuale: i giorni bugiardi potrebbero non essere finiti, rottamatori e rottamati sono ancora insieme sotto le insegne dell’Italia che cambia verso: a promettere giorni nuovi a quel che resta della sinistra all’alba della terza Repubblica.
No, i giorni bugiardi non sono ancora finiti, e quelli che ci aspettano potrebbero non essere giorni migliori.

Carlo Dore jr.
Cagliari.globalist.it

sabato, novembre 09, 2013

IO STO CON GIANCARLO CASELLI


Io sto con Giancarlo Caselli: lo scrissi nel 2005, quando la più infame delle leggi ad personam sbarrò di fatto l’accesso alla procura nazionale antimafia al magistrato che più di ogni altro aveva saputo interpretare la sete di “reazione civile” di un Paese lacerato dalle stragi di Capaci e Via d’Amelio. Io sto con Giancarlo Caselli: lo scrivo oggi, mentre il Procuratore della Repubblica di Torino formalizza le sue dimissioni da Magistratura democratica. La nota di Erri De Luca sull’edizione del 2014 dell’agenda di MD (fino ad oggi, oggetto immancabile sulla scrivania di ogni giurista democratico) è stata troppo per lui; un peana della sinistra extraparalmentare, a firma di uno dei più accesi sostenitori del movimento NO TAV, proprio sull’agenda della corrente che aveva contribuito a fondare è risultata indigeribile per il PM che della lotta al terrorismo aveva fatto la sua prima bandiera.
Penna dissacrante e intellettuale sognatore, De Luca ricorre al mito di Orfeo ed Euridice per descrivere il percorso culturale compiuto da alcuni eredi del ’68: la volontà di perseguire un puro ideale di giustizia avrebbe spinto una generazione intera a scontrarsi con il potere costituito, ad esporsi ad una brutale criminalizzazione di massa, a dare vita persino ad una “guerra civile a bassa intensità”, figlia illegittima del tentativo di cambiare “i connotati del nostro paese nelle fabbriche, nelle prigioni, nei ranghi dell’esercito, nelle aule scolastiche e delle università”.
Dagli accessi più reconditi di un passato mai del tutto dimenticato, riaffiorano i miti delle BR rappresentate come Zorro, Robin Hood e compagni che sbagliano: Orfeo attaccava il cuore dello Stato, per sacrificarlo su quell’altare di giustizia in cui identificava la sua Euridice, l’Euridice di una “generazione di politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”.
E’ troppo, per chi di quella stagione è stato non semplice testimone, ma principale protagonista; è troppo, per ogni giurista democratico che trova nell’ordinamento costituzionale la risposta alla sua sete di uguaglianza. E’ troppo: Caselli lascia MD, l’agenda scompare dal suo e dal mio tavolo. Perché io sto con Giancarlo Caselli.
E’ complessa, la realtà dell’Italia proiettata verso gli anni ’70, e Zorro, Robin Hood e i “compagni che sbagliano” raccontano una storia molto diversa da quella cristallizzata nel mito di Orfeo e Euridice: è una storia di fuoco e di regole, di pallottole e processi, di guardie di ladri, di eroi e carnefici. E’ la storia della dignità di Fulvio Croce, presidente dell’ordine degli avvocati di Torino assassinato per la sua scelta di svolgere il ruolo di difensore d’ufficio nel primo processo contro le BR; è la storia di Adelaide Aglietta, e del suo coraggioso tentativo di spezzare il clima del terrore imposto dalle P38 espletando il compito di giudice popolare nell’ambito di quello stesso processo; è la storia di Emilio Alessandrini e Guido Galli, caduti entrambi con il codice in mano sotto i proiettili di Prima Linea; è la storia di Bruno Caccia e di Carlo Alberto dalla Chiesa, e della loro capacità di imporre la forza dello stato sullo stato della forza; è la storia di tutti i giuristi democratici che sempre hanno condiviso le battaglie per la legalità e per l’indipendenza della magistratura intraprese da MD. E’ la storia di Giancarlo Caselli: ed io sto con lui.
Le parole di De Luca fanno pensare e fanno sognare: la ricerca dell’Euridice di un Paese diverso, più giusto, più eguale. In una parola, più democratico. Quel Paese che l’Italia non è stata ma che forse avrebbe potuto essere, se il dialogo tra masse socialiste e masse cattoliche avesse trovato il suo normale epilogo; se la strategia di cambiamento elaborata da Moro e Berlinguer non fosse stata seppellita sotto il sudario insanguinato della Renault rossa in Via Caetani; se Zorro, Robin Hood e i compagni che sbagliano non si fossero rivelati parte integrante di quel grumo di potere che – seguendo le trame dipanatesi tra Roma, Mosca e Washington – si mobilitò per salvaguardare le logiche del mondo spaccato in blocchi, gli equilibri che presiedevano al funzionamento della democrazia incompiuta.
Le parole di De Luca fanno pensare e fanno sognare: ma il mito di Orfeo ed Euridice può valere solo a descrivere la condizione di quanti, per amore della giustizia, sono pronti ad impugnare il codice, non le armi; di quanti, condividendo le posizioni di MD, si sono sempre battuti per inseguire il sogno di un Paese liberato dalla rete di privilegi ed impunità che costituiva la ratio delle leggi ad personam; di quanti, dal 2005 ad oggi, non hanno mai smesso di affermare: “Io sto con Giancarlo Caselli”.

 
Carlo Dore jr.
cagliari.globalist.it

sabato, ottobre 26, 2013

CON CUPERLO, PER L’ULTIMA VOLTA.

Alle primarie per la scelta del segretario del PD in programma il prossimo 8 dicembre sosterrò la candidatura di Gianni Cuperlo: la sosterrò come estremo tributo di coerenza alle idee in cui non ho mai smesso di credere; la sosterrò per necessità; la sosterrò, consapevole del fatto che potrebbe essere la mia ultima volta con una tessera di partito in tasca. Coerenza; necessità; ultima volta.

Come ha intelligentemente evidenziato Filippo Ceccarelli in un suo recente editoriale, c’è aria di festa a Matteolandia: Renzi procede nella sua trionfale ascesa ai vertici del partito accompagnato dalla rumorosa fanfara di supporter, artisti, sedicenti intellettuali e transfughi provenienti dai vari settori di quel che resta del centro-sinistra. Il giubbotto esibito a beneficio delle telecamere di Maria De Filippi si sposa perfettamente con la battuta sempre pronta in punta di lingua. “Voglio i voti di Berlusconi e quelli di Grillo; voglio restare a Palazzo Vecchio; voglio essere leader di partito; voglio correre per la premiership”. Voglio, voglio, voglio: ma cosa vuole fare da grande, il fu Rottamatore?

La Leopolda ribolle di entusiasmo autentico quanto le statuette del David vendute in Piazza della Signoria. Matteo vince perché piace, ma soprattutto piace perché vince: e allora, tutti con Matteo, uno strapuntino alla tavola del vincitore val bene qualche salto mortale ideologico. Eppure, nel profluvio di parole che scandiscono i tempi della marcia trionfale, ce n’è una che a Matteolandia si evita accuratamente di pronunciare: partito. Che modello di partito ha in mente, il popolo riunito accanto ai binari della Leopolda? La risposta risuona assordante, nel silenzio imbarazzato di fedelissimi della prim’ora e professionisti della conversione a comando: partito? Che bizzarria! La Leopolda è solo una stazione, e il partito è solo un treno in corsa alla volta di Palazzo Chigi.

Una fastidiosa sensazione di già visto si diffonde tra quanti, dell’interminabile calvario della sinistra italiana, sono stati vittime prima ancora che testimoni: a Matteolandia non hanno capito nulla. Non hanno capito che la crisi della sinistra è crisi strutturale, prima ancora che crisi di leadership; è una crisi che ha avuto inizio proprio con la scelta di procedere all’eutanasia dei partiti, alla demolizione delle strutture di mobilitazione, all’anteposizione del carisma del leader rispetto alla consistenza del progetto politico, alla santificazione delle primarie come mezzo di selezione alternativo rispetto alla tradizionale formazione della classe dirigente. No, a Matteolandia non hanno capito: non hanno capito che del modello del partito leggero, liquido e senza tessere, Veltroni è stato il primo profeta, e Renzi è solo l’abile esecutore finale.

 Eppure, le conseguenze dell’eutanasia dei partiti – pervicacemente perseguita dal 2008 ad oggi – si sono manifestate in tutta la loro drammatica evidenza in occasione della notte dei 101: quando alcuni parlamentari selezionati tramite le primarie (fieri del loro non essere “figli dell’apparato”) hanno in un colpo solo liquidato la candidatura di Prodi al Quirinale, vanificato il tentativo di Bersani di dare vita ad un autentico governo di cambiamento, consegnato nell’abbraccio mortale delle larghe intese un partito paralizzato da faide interne e veti incrociati. Un partito paralizzato; un partito che non decide; un partito che non si schiera; un partito che non è partito.

Nel deserto cagionato dall’eutanasia dei partiti, tenta di elevarsi, flebile ed isolata, la voce di Gianni Cuperlo:  voglio fare il segretario a tempo pieno di un partito da ricostruire; voglio fare il segretario di un partito che si schiera; voglio fare il segretario di un partito vero. Parole semplici, di un dirigente onesto che non ambisce a proporsi come il novello uomo della provvidenza; parole semplici, di chi prova a declinare uno straccio di progetto politico.

Ecco, forse Cuperlo sa cosa vuol fare da grande: per questo lo sosterrò. Me lo impone la mia coerenza, la coerenza di chi preferisce continuare a credere nelle proprie idee e non è disposto a barattarle con un posto alla tavola del vincitore; me lo impongono le mie necessità, la necessità di individuare nella ristrutturazione dei partiti la risposta alla crisi politica in atto, la necessità di chi ad un partito degradato a comitato elettorale permanente di questo o quel leader in carriera proprio non ha interesse a partecipare. Per questo, il prossimo 8 dicembre mi presenterò regolarmente al seggio, con la mia tessera del PD in tasca. E sarò con Cuperlo, anche se probabilmente sarà l’ultima volta.
Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

lunedì, ottobre 14, 2013

IL PD SARDO E IL “CODICE ETICO FLESSIBILE”: UNA PROPOSTA SULL’INCANDIDABILITA’

Le notizie relative alle indagini sulla gestione dei fondi in dotazione ai gruppi del Consiglio regionale – indagini che, come noto, coinvolgono alcuni esponenti del PD della Sardegna – hanno riaperto, all’interno del centro-sinistra, il dibattito in ordine all’attualità della questione morale: mentre alcuni militanti affermano che la semplice esistenza di un’indagine non può incidere sulle scelte dei partiti in ordine alla candidature per le ormai prossime elezioni, altri esponenti della coalizione,  invocando “liste pulite”, segnalano la necessità di salvaguardare quella “diversità etica” che, dai tempi di Berlinguer, caratterizza il patrimonio culturale dei progressisti italiani.

A prescindere dalle specificità della vicenda appena richiamata (gli indagati hanno infatti assicurato di essere in grado di dimostrare “nel procedimento” la correttezza del loro operato), il contrasto di opinioni in atto all’interno del centro-sinistra sardo rappresenta l’occasione per rielaborare alcune considerazioni di carattere generale sul controverso rapporto tra politica e giustizia, tra necessaria tutela delle garanzie degli indagati e salvaguardia della legittima aspirazione degli elettori ad essere rappresentati da una classe dirigente al di sopra di ogni sospetto.

Preliminarmente, occorre osservare come l’apertura di un procedimento penale e l’eventuale trasmissione di un’informazione di garanzia non possono di per sé costituire una ragione sufficiente per indurre un partito ad escludere automaticamente la candidatura di un inquisito, dato che il PM è obbligato a procedere con le indagini per valutare la fondatezza di ogni notizia di reato, e dato che l’informazione di garanzia costituisce il presupposto indispensabile per il compimento dei c.d. atti garantiti (interrogatorio, ispezione, confronto). Ciò chiarito, non si può però non rilevare come il codice etico “flessibile” adottato dal PD nel 2007 – in base al quale le valutazioni sulla candidabilità di una persona indagata o imputata variano a seconda della natura del reato contestato – ha già dimostrato, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, la propria inidoneità ad assecondare la richiesta (troppo spesso ignorata) di rigore nella selezione della classe dirigente avanzata da iscritti e militanti in confronto delle varie forze politiche dell’area democratica. 

Ecco allora che proprio la necessità di individuare il corretto punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia della politica rispetto all’azione della magistratura e le istanze di moralità che pervadono l’elettorato mi induce a rinnovare una proposta più volte avanzata nel corso degli ultimi anni: se infatti, per le ragioni sopra esposte, l’esistenza di un’indagine non può giustificare l’automatica esclusione di un candidato dalle liste, il discorso muta completamente quando, nel disporre il rinvio a giudizio, il GUP attesta l’esistenza di un impianto accusatorio tanto solido da determinare l’apertura del dibattimento, ovvero quando, per i procedimenti c.d. a citazione diretta (non caratterizzati cioè dal filtro dell’udienza preliminare), viene pronunciata la condanna di primo grado. 

Proprio l’esistenza di un provvedimento (di rinvio a giudizio, o di condanna in primo grado) pronunciato da un giudice terzo e imparziale può permettere l’individuazione di quel punto di equilibrio a cui si è appena fatto cenno: con l’eccezione dei reati c.d. d’opinione, i partiti del centro-sinistra potrebbero cioè impegnarsi a non inserire nelle proprie liste candidati rinviati a giudizio, ovvero - per i procedimenti a citazione diretta - condannati in primo grado  per un delitto punibile con pena superiore ai due anni, e ad imporre ai propri candidati l’obbligo morale delle dimissioni da ogni carica istituzionale in caso di rinvio a giudizio o condanna per i medesimi delitti intervenuta dopo l’elezione. 

La soluzione appena prospettata sarebbe, da un lato, utile a mettere i partiti al riparo dal logoramento conseguente al gioco di ombre, sospetti e veti incrociati che sistematicamente fa da sfondo alla candidatura di persone sottoposte a procedimento penale, e d’altro lato contribuirebbe a sterilizzare gli argomenti di quei movimenti a dimensione esclusivamente protestataria, che proprio nel diffuso senso di sfiducia del cittadini nei confronti delle istituzioni trovano la loro linfa vitale.
Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

sabato, settembre 28, 2013

IL “PROGRESSISTA MEDIO” E IL PARTITO VERO


L’elettore progressista medio (non mediocre) è solitamente portato a ravvisare nella mancanza di rinnovamento della classe dirigente la causa principale – o addirittura esclusiva – della crisi politica che attanaglia l’Italia dagli albori del terzo millennio: crisi di consenso, crisi di identità, crisi di rappresentatività. C’è ansia di rinnovamento, sotto il variegato cielo della sinistra italiana: un’ansia di rinnovamento che si è tradotta in una montante avversione verso le tradizionali forme di militanza, e verso le strutture che di tale forme di militanza costituivano la sede naturale; un’ansia di rinnovamento che ha trovato sfogo ora nel fuoco fatuo dei tanti presunti leader consumatisi nel breve arco di una stagione, ora nella retorica della rottamazione, ora nei rigurgiti reazionari che tuttora assecondano l’invettiva grillina.

Ma liquidare la crisi in atto come il mero corollario di una “questione generazionale” superabile attraverso l’avvento del homo novus (identificato ora nel sindaco in carriera, ora nel manager di successo, ora nell’imprenditore con la decisione in punta di dita) può essere da un lato riduttivo, d’altro lato fatalmente pericoloso. Riduttivo, perché il semplice superamento di una classe dirigente non impone di individuare le cause che ne hanno determinato il fallimento; pericoloso, perché il rinnovamento personale non offre alcuna garanzia di una politica rinnovata.

E’allora necessario domandarsi se la crisi della politica non sia una crisi dei partiti prima ancora che dei gruppi dirigenti che dei partiti hanno il controllo, e se questa crisi non trovi la propria ragion d’essere nella dismissione del modello di partito inteso come centro di formazione e mobilitazione conseguente alla necessità di assecondare quell’ansia di rinnovamento a cui si è in precedenza fatto cenno. Una crisi figlia dell’illusione che il carisma del leader possa sopperire alla mancanza di un progetto politico di ampio respiro; dell’idea di obliterare le strutture del partito a favore del rapporto diretto tra elettore ed eletto (facilitato dall’avvento dei social network); dell’esaltazione delle primarie come “momento di partecipazione” utile a coprire le debolezze di partiti ormai incapaci di selezionare le proprie candidature sulla base di un percorso di militanza degno di tale nome.

Le conseguenze prodotte dall’imposizione del “partito leggero” sono deflagrate all’inizio della legislatura in corso: il candidato scelto tramite le primarie giubilato dalla rete di compromessi e “veti incorciati” che regola la coesistenza tra culture inconciliabili; i parlamentari che disattendono le indicazioni del partito per assecondare gli umori di twitter; militanti disorientati dinanzi al triste spettacolo di un partito incapace di proporre una linea politica unitaria, e ridotto alla avvilente condizione di trampolino verso le cariche istituzionali oggetto delle ambizioni dei vari cacicchi sparsi sul territorio nazionale.

Come se ne esce? Non se ne esce. Non senza prendere definitivamente coscienza di una incontrovertibile realtà: il rinnovamento generazionale presuppone l’esistenza di un substrato oggettivo, di una struttura solida in grado di favorire la formazione di quella nuova classe dirigente della quale tanto si avverte la necessità. Dunque, prima di partire alla conquista del partito rinnovabile, è necessario ritornare alla dimensione del “partito” vero, di un partito idoneo ad assolvere alla propria costituzionale funzione di strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.

E’ nel contesto del partito “vero” che possono trovare applicazione i concetti di sperimentalismo democratico e di lotta al catoblepismo declinati da Fabrizio Barca nel suo documento: nel contesto di un partito capace di favorire il confronto tra esperienze diverse per contribuire all’elaborazione di una proposta programmatica coinvolgente; nel contesto di un partito che, rigorosamente separato dalla cosa pubblica, non venga vissuto come opportunità di carriera per quelli che lo stesso Berlinguer impietosamente definiva “boss e sotto-boss”.

Ed è sempre nel contesto del partito vero che l’elettore progressista medio (e non mediocre) può rivedere la propria posizione iniziale : la crisi della politica italiana non risolve invocando l’homo novus, magari legittimato dalle primarie, ma promuovendo un percorso di rinnovamento all’interno di un partito ritornato al suo tradizionale ruolo di centro di formazione e di elaborazione politica: nella consapevolezza del fatto che l’esistenza di un partito vero costituisce il presupposto imprescindibile per poter discutere di partito rinnovabile.

Carlo Dore jr. 
( cagliari.globalist.it )

sabato, agosto 31, 2013

BERLINGUER NON ERA TRISTE Marina Addis Saba – Aliberti Editore, Roma, 2013 – pp. 88

Berlinguer non era triste: in ottantotto pagine scandite da una scrittura limpida e scorrevole, Marina Addis Saba (già Docente di Storia contemporanea nell’Università di Sassari) propone uno spaccato autentico della dimensione umana di quello che, a quasi trent’anni dalla sua improvvisa scomparsa, i progressisti italiani ancora considerano come il loro  leader di riferimento. Sono appunti di viaggio, quelli della Addis: gli appunti di un viaggio alla scoperta di una personalità complessa nella sua struggente semplicità; di un viaggio condotto al fianco di un uomo capace di affrontare i passaggi decisivi della storia recente con la stessa folle determinazione con cui sfidava le onde del golfo dell’Asinara.

Berlinguer non era triste: non era triste nelle partite di calcio disputate tra le piazze di Sassari, e non era durante le lunghe passeggiate per le strade di Roma; non era triste nelle lunghe estati spese accanto al mare di Stintino, e non lo era quando Paolo Sylos Labini iniziava a suggerire le parole destinate a cambiare per sempre la storia della sinistra, a rappresentare i caratteri di quell’endemica “diversità comunista” di cui il fango Tangentopoli ha in effetti confermato l’esistenza: “questione morale”.

Berlinguer non era triste: era un uomo curioso, silenzioso ed introspettivo, che non rinunciava mai a navigare verso il futuro. Ascoltava le ragioni di quei settori del mondo femminile che si opponevano al compromesso storico (rimarcando le incolmabili distanze culturali in essere tra la modernità delle donne progressiste e il conservatorismo delle donne cattoliche) con la stessa attenzione con cui tentava di comprendere il disagio delle realtà giovanili che non si riconoscevano nella strategia del PCI; rappresentava lo sgomento dei comunisti dinanzi al brutale assassinio di Aldo Moro, ma respingeva ogni accusa di collateralismo tra il PCI ed i gruppi dell’estremismo brigatista mosse da quanti attendevano dai comunisti un ripensamento sul loro modo di interpretare la sinistra. “Non si rinnega la storia: né la propria , né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità”. Aperto e orgoglioso, disponibile rigoroso: questo era Berlinguer, e non era triste.

No, Berlinguer non era triste: attraverso il suo ricordo del Segretario, la Addis finisce indirettamente col proporre una spietata denuncia dei limiti della politica personalizzata che sta segnando il lungo inverno della Seconda Repubblica, col rilevare la malcelata debolezza che contraddistingue ogni forma di leadership individuale, ora fondata sull’arroganza del potere economico, ora sulla retorica giovanilista del rinnovamento fine a sé stesso, ora sulla reiterazione dell’insulto sotto forma di verità rivelata per il cieco popolo del web. Berlinguer aveva carisma, ma la sua non è mai stata una leaderhip esclusivamente carismatica: Berlinguer era un figlio del partito, non muoveva grandi capitali, prediligeva la discussione al fidelismo senza se e senza ma.

No, Berlinguer ha conquistato il popolo della sinistra con la sua capacità di credere nella via europea al socialismo, con la sua visione solidaristica del Mondo quale alternativa allo scontro tra gli opposti imperialismi, con la sua idea di politica intesa quale ricerca dell’interesse comune e non come rete di privilegi e guarentigie affidata al controllo di “boss e sotto-boss”. Ma il popolo della sinistra si è riconosciuto anche in quella figura di uomo onesto dal sorriso appena accennato, che ritrovava la propria dimensione tra le strade di Roma e il mare di Stintino. E’ a quella figura che i progressisti continuano a guardare, nella disperata ricerca di un punto di riferimento da opporre a quanti ritengono che il concetto stesso di sinistra debba essere sacrificato sull’altare della modernità; è quella figura di uomo onesto dal sorriso appena accennato che i progressisti italiani continuano a considerare il loro leader di riferimento: perché Berlinguer non era triste.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

domenica, agosto 25, 2013

COSTITUZIONALMENTE INACCETTABILE.


Nel redigere il comunicato volto a ribadire l’intendimento del PDL di ostacolare l’applicazione della sentenza di condanna pronunciata nei confronti di Berlusconi, Angelino Alfano ha fatto ricorso ad una nuova (ed invero curiosa) categoria concettuale: quella della “inaccettabilità costituzionale”. La decadenza del Cavaliere dalla carica di senatore – conseguente alle disposizioni del d.lgs. n. 235/2012 (c.d. Legge Severino) – sarebbe “costituzionalmente inaccettabile” in quanto priverebbe di rappresentanza quella fetta di elettorato che, in occasione delle ultime elezioni, ha scelto di accordare ancora una volta la propria fiducia ai partiti di centro destra.
“Costituzionalmente inaccettabile”: la formula, nella sua semplicità, si presta ad una riflessione più approfondita. Come è noto, sul piano strettamente giuridico, la categoria della “inaccettabilità costituzionale” degli effetti di una norma non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, il quale viceversa impone di considerare costituzionalmente illegittima una legge (o un atto equiparato) che collida con il disposto della Carta Fondamentale. Tuttavia, sugli eventuali profili di illegittimità costituzionale della Legge Severino gli esponenti del PDL non sono andati oltre generiche enunciazioni di principio: forse in ragione dell’impossibilità, per il Parlamento, di fungere da giudice a quo, sollevando nanti la Consulta la questione di legittimità della norma indubbiata; o forse, per non affrontare dinanzi all’opinione pubblica l’imbarazzo derivante dalla contestazione della costituzionalità di una legge che lo stesso partito di Berlusconi, nella scorsa legislatura, ha contribuito ad approvare.
 
“Costituzionalmente inaccettabile”: la formula di Alfano suona come una dichiarazione di guerra rivolta all’intero sistema istituzionale. Berlusconi ha i voti, dunque non può decadere: pena il venire meno delle larghe intese, la certificazione delle crisi di governo, il concretizzarsi delle elezioni anticipate. Eppure, in quelle due parole, si annida un macroscopico paradosso, probabilmente sfuggito alla penna dello zelante segretario pidiellino: se infatti il concetto di “inaccettabilità costituzionale” non può valere a descrivere una categoria giuridica, esso risulta invece perfettamente idoneo a definire un orientamento culturale, un modo di agire, un disegno politico: l’orientamento culturale, il modo di agire, il disegno politico a cui il comunicato da lui redatto risulta funzionale. Costituzionalmente inaccettabile, in quando imbevuto di una cultura a-costituzionale.

Si pone infatti fuori dalla Costituzione quella forza politica che concepisce il consenso popolare come una sorta di lavacro lustrale in grado di cancellare le conseguenze di qualsiasi reato, neutralizzando financo le conseguenze di una condanna definitiva; si pone fuori dalla Costituzione quel partito che, agitando ossessivamente lo spettro dell’ingovernabilità, vorrebbe imporre al Parlamento, al Governo ed al Presidente della Repubblica di travalicare i limiti dei poteri ad essi conferiti dalla Carta Fondamentale, al solo scopo di assicurare “l’agibilità politica” (altro artificio retorico, utilizzato per delineare i caratteri di una indigeribile condizione di impunità) ad un eccellente pregiudicato; ma soprattutto, si pone  fuori dalla Costituzione quel leader politico che, dopo avere reiteratamente calpestato i fondamentali principi della Carta per assecondare i suoi personali interessi e le proprie esigenze processuali, pretende di rinvenire nella stessa Costituzione il percorso utile ad impedire l’applicazione nei suoi confronti di una norma che egli stesso ha concorso ad approvare.
Ecco allora che – come nel più beffardo dei deja vu – il paradosso insito nel comunicato del PDL emerge in tutta la sua enormità: aliene rispetto al dettato costituzionale non sono infatti le conseguenze derivanti dall’eventuale decadenza di Berlusconi dalla carica di senatore, ma le argomentazioni utilizzate da Alfano per delineare il baratto scellerato tra il salvacondotto al Cavaliere e la sopravvivenza dell’Esecutivo. Non a caso, costituzionalmente inaccettabile.

Carlo Dore jr.
cagliari.globalist.it

domenica, agosto 04, 2013

FALCHI, COLOMBE E FACCETTE NERE


E alla fine, la “guerra civile” annunciata tra squilli di tromba dagli house organ di casa Mediaset si è risolta in una mesta adunanza di attempati aficionados del berlusconismo ante litteram, stoicamente irremovibili nel loro proposito di sfidare il caldo torrido del primo agosto romano per mettere in piazza l’estrema autodafé in onore del Capo ferito a morte dagli ermellini rossi.
Non sono arrivati i cinquecento pullman invocati da Daniela Santanché, non hanno fatto presa i cartelloni grondanti del sudore di Giuliano Ferrara, non ha trovato seguito il rigurgito nostalgico di Gasparri, asceso ad una copia del fatal balcone per arringare una folla immaginaria.    Falchi e colombe sono rimasti confinati all’ombra di un palco forse non autorizzato, mentre le facce lunghe di Cicchitto e Verdini descrivevano bene il clima della kermesse: facce livide di rabbia per una decisione che priva il Cavaliere dello status di incensurato; facce scure di delusione per una sentenza che rischia di far tramontare una volta per sempre la sciagurata stagione delle larghe intese; facce semplicemente stravolte dal bollore dei sampietrini. Faccette nere, intonerebbero in punta di fez gli oplites di un altro (e tristemente noto) Uomo della Provvidenza.
Bondi prova a recuperare il piglio da pretoriano dopo la sonora rampogna ricevuta dal Quirinale, gli inni da campagna elettorale disturbano la quiete dei romani ancora confinati tra le mura dell’Urbe, la guerra civile può cominciare. Berlusconi conquista il palco tenendo per mano la sparuta fidanzatina, mentre il suo sguardo vaga lungo la strada semideserta: l’esercito di Silvio, alla fine, ha dimostrato la stessa capacità di mobilitazione di un plotone di boy scout.
Un sorriso per i fotografi, e parte il copione del video-messaggio tra bandiere e scrivanie immacolate, seguito da un’imbarazzante sensazione di deja vu: la frode fiscale non c’è mai stata; la condanna è la conseguenza di un complotto ordito da toghe rosse e stampa ostile; la Cassazione – fino a ieri, descritta come il “Giudice a Berlino” del mugnaio di Potsdam – si è rivelata la quinta colonna dei congiurati armati di codici e pandette. Tutto già visto, tutto già sentito. Ecco allora il coupe de theatre in grado di destare dal torpore il migliaio di fans accalcati sotto Palazzo Grazioli, il titolo ad effetto per i cronisti a caccia di uno straccio di notizia degno di tale nome: la magistratura non è un potere dello Stato, in quanto sprovvista di legittimazione popolare.
E’ troppo: mentre il fantasma del barone di Montesquieu minaccia di occupare in pianta stabile il quartiere nobile di Palazzo Grazioli per vendicare l’ennesima lesione arrecata al principio della separazione dei poteri, le tante anime democratiche sparse in giro per l’Italia tirano il classico sospiro di sollievo, vagheggiando la conclusione dell’indigeribile fase della pacificazione ad ogni costo: davvero il centro-sinistra vuole continuare a riconoscere responsabilità di governo al leader di uno schieramento che dimostra di non accettare le regole basilari della convivenza democratica? Davvero il Pd intende procedere ad una riforma della Costituzione di comune accordo con un piccolo egoarca che della Carta ignora persino i principi fondamentali?
Il comizio finisce, tra lacrime di cartone ed applausi di ordinanza: Silvio riguadagna in tutta fretta la via di Arcore, seguito dal peso di una condanna inevitabile e schiacciato dallo spettro della conseguente incandidabilità; gli aficionados abbandonano a capo chino via del Plebiscito: la guerra civile è ufficialmente rinviata a data da destinarsi. Rimane solo spazio per la disperazione di Bondi rampognato dal Quirinale e per le doglianze della Santanché, ancora in attesa dei cinquecento pullman con cui dare l’assalto al palazzo della Cassazione: falchi e colombe dispersi nel caldo del primo agosto, faccette nere smarrite nel silenzio assordante della strada deserta.

Carlo Dore jr.

sabato, luglio 06, 2013

LA PROPOSTA DI BARCA


Mentre le varie componenti del PD iniziano a definire le rispettive posizioni in vista dell’ormai prossimo congresso, il “neo-iscritto” Fabrizio Barca percorre la Penisola in lungo e in largo per illustrare a iscritti, militanti, semplici elettori la sua idea di partito, in gran parte riversata in cinquanta pagine dense di riflessioni, proposte, spunti di discussione.            
Il tono è quello pacato di chi predilige il confronto allo scontro, il linguaggio quello dello studioso che dimostra di sentirsi ancora più a suo agio in un’aula universitaria che nel bel mezzo dell’agone politico. Ma la storia personale dell’ex ministro del governo Monti merita rispetto ed attenzione, come rispetto ed attenzione meritano  i passaggi fondamentali del suo documento.

Girando per i circoli, per le sezioni, per i teatri, Barca non parla di candidature, né ragiona di alleanze o di futuri assetti di potere. Osserva, prende appunti, ascolta, interroga e si interroga: cosa vogliamo dal PD? E soprattutto: di che tipo di partito abbiamo bisogno?  Al di là dei troppo elevati riferimenti al “catoblepismo”, le risposte suonano confortanti per un elettorato non ancora riavutosi dal trauma del post-voto, e che – indipendentemente dalle dichiarazioni di facciata – non riesce proprio a digerire l’indigeribile prospettiva delle larghe intese.

Si parte dall’idea del “partito palestra”, del partito concepito come centro di elaborazione di idee e programmi e come luogo di formazione della classe dirigente. La rigorosa scissione tra incarichi di partito ed incarichi istituzionali smorza rampantismo e ambizioni personali di telegenici dirigenti in carriera, il superamento del “mantra delle primarie” – artificiosa camera di compensazione per debolezze strutturali e lotte intestine – restituisce ad iscritti e “partecipanti” la loro centralità: il partito torna ad essere partito, riappropriandosi della sua naturale funzione di strumento volto a favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale.

Proprio la necessità di provvedere all’espletamento di tale funzione presuppone però l’esistenza di un partito capace di declinare una linea programmatica incisiva ed intellegibile, obliterando il sistema di veti incrociati tra rappresentati di culture inconciliabili. Grande rilievo assumono allora  i continui riferimenti ai principi della Carta Costituzionale, del cui sistema di garanzie democratiche anche alcuni improvvidi esponenti del centro-sinistra auspicano lo smantellamento; e determinante appare soprattutto l’intendimento di imporre al PD un profilo da “ partito di sinistra”, da perseguire anche a costo di affrontare la ridda di niet opposta dalla componente post-democristiana. Il PD come partito “di sinistra”: come partito che pone i temi del lavoro, delle diseguaglianze sociali, della tutela dell’istruzione e della sanità pubblica al centro delle proprie scelte programmatiche. Questo è il partito che Barca ha in mente, questo è l’obiettivo della proposta di Barca.

Alla vigilia di un congresso che rischia di trasformarsi nell’ennesimo redde rationem tra le varie anime democrat, ancora non è dato sapere quanto respiro avrà il progetto dell’ex ministro, né quali candidati alla segreteria nazionale si faranno concretamente portatori dei contenuti che il documento offre. Ma gli interrogativi su cui Barca fonda la sua analisi non potranno non essere affrontati nella discussione sul modello di partito che dovrà affrontare le sfide dell’immediato futuro. Un partito strutturato ed autonomo, un partito della Costituzione ed un partito di sinistra: concetti semplici, la cui incisività non è attenuata dai riferimenti al catoblepismo; concetti semplici, che bastano a rendere interessante e condivisibile la proposta di Barca.

Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su cagliari.globalist.it )

mercoledì, giugno 26, 2013

LA PARABOLA DEL PREDONE

La fase discendente della parabola del predone ha inizio in una strana serata di maggio del non lontano 2010, quando due funzionari della Questura di Milano – in violazione delle procedure vigenti – affidarono una minorenne marocchina fermata per furto nelle mani di una procace “consigliera ministeriale”, adempiendo così all’ordine impartito tramite una frenetica raffica di telefonate dal Presidente del Consiglio in persona: “liberatela, è la nipote di Mubarak”.

            Furono in pochi, allora, ad intuire la complessità del sistema che si celava dietro quella assurda sequenza di telefonate, dietro allo scomposto agitarsi di un premier dimostratosi ancora una volta incapace di abbandonare la sua naturale dimensione di mattatore del Drive In; furono in pochi a percepire quanto squallidamente pericolosa fosse la realtà in cui Silvio Berlusconi sfogava le sue pulsioni egocratiche, indifferente alle sorti di un Paese prossimo al default.

La parabola del predone procedeva indisturbata tra gare di burlesque e allegre schitarrate, maschere di Obama e buste piene di denaro, fanciulle da copertina ed improbabili sbornie di Sanbitter: era il mondo del Bunga-Bunga, l’iperbole di un leader che – a braccetto con Gheddafi, Putin e Ben Ali – si considerava depositario di un potere senza limiti. Già, il potere: l’inchiostro con cui era tracciata la parabola del predone, il fuoco della ubris berlusconiana, alimentato giorno dopo giorno dalla sfacciata commistione tra funzione istituzionale e tutela di interessi privati.

Investito del lauro dal consenso popolare, il predone impone e dispone, ad Arcore come a Palazzo Chigi: ecco le Olgettine marciare tacchi al vento verso il Pirellone, ecco Lavitola e Bisignani padroni assoluti della stanza dei bottoni, ecco fioccare processi brevi e legittimi impedimenti. E se una delle protagoniste delle cene eleganti finisce per caso in un commissariato di polizia, viene trasformata nella nipote di Mubarak e rispedita di gran carriera nel suo mondo dorato, in barba a magistrati, codici ed altri inutili orpelli da polverosi legulei. L’abuso diviene prassi, la menzogna si trasforma in verità di Stato, ratificata da un Parlamento umiliato nella sua alta funzione dalle determinazioni assunte in seno ad un bivacco di manipoli. Il predone non conosce limiti: come Gheddafi, come Putin, come Ben Ali.

Ma la curva discendente è inarrestabile, la parabola volge al termine: la forza della legge prevale sulla maniacale ricerca dell’impunità, e la condanna pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti di Berlusconi travolge anche quel sistema di piccole e grandi bugie, malcelate prevaricazioni e relazioni opache che del circo del bunga-bunga costituivano il meccanismo dominante.

“E’ una sentenza politica”, guaiscono feriti gli oplites del Cavaliere; “è una sentenza politica”, berciano disperate le Olgettine e le altre pasdaran capitanate da Daniela Santanchè, evidentemente ignare del fatto che l’accertamento della responsabilità penale cristallizzato in una sentenza può costituire un semplice corollario di una ben più ampia responsabilità politica. Nel momento in cui, dalle parole dei giudici, emerge la sconcertante debolezza di un uomo di Stato inerme dinanzi ai molteplici desiderata delle starlette del suo cerchio magico; nel momento in cui viene rilevata la palese incompatibilità tra la sua condotta e quei parametri di disciplina ed onore che la Costituzione gli impone di osservare nell’espletamento della sua funzione istituzionale, ecco che il verdetto del Tribunale non si limita ad affermare la colpevolezza del più eccellente tra gli imputati, ma rappresenta anche il tanto atteso momento conclusivo di quella che è stata la lunga parabola del predone.

Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su cagliari.globalist.it)

giovedì, giugno 06, 2013

GRILLO AD ASSEMINI: UNA RISATA LO SEPPELLIRA'.

Beppe Grillo cala in Sardegna accolto dagli applausi di quanti vedono nell'ex comico  l'unica opposizione al magma delle larghe intese, l'estrema speranza di rinnovamento di un sistema politico sempre più arroccato all'interno dei palazzi del potere.
Sembra inarrestabile, la marcia dei barbari illuminati dal Dio del Blog: nell'arco di tre mesi, hanno mandato al macero Bersani ed il suo commovente tentativo di dare vita ad un “governo di cambiamento” che prometteva legalità e lotta al conflitto di interessi; hanno gettato il PD nell'abbraccio mortale del PDL, riconsegnando a Berlusconi la golden sahre di un Paese sull'orlo del baratro; e hanno garantito ai manipoli guidati da Crimi e dalla Lombardi la possibilità di insistere nel loro assalto al Parlamento, liberi da ogni possibile responsabilità di governo. Magro bottino di guerra, per chi si riproponeva di “aprire Montecitorio come una scatoletta di tonno”.
            Gli oplites di Beppe non fanno una piega e tirano dritto: zainetti vintage e ipad di ultima generazione sono il simbolo della loro personalissima nueva alvorada, l'insulto generalizzato a compagni e avversari diviene il marchio di fabbrica di una non ben definita riscossa civica, perfino lo strafalcione più grossolano viene bonariamente giustificato come un’innocente dimostrazione di sana onestà intellettuale. D'altronde, vogliono essere barbari: i barbari di Grillo, pronti a seppellire il Mondo con un coro di matte risate.
            Eppure, le ultime amministrative hanno denunziato l'esistenza di un bug nel sistema, di una bestemmia nel Vangelo secondo Casaleggio, di una mela bacata nello zainetto: il Movimento è rimasto fuori dai ballottaggi, la marcia dei barbari si è trasformata  in marcetta da gita scolastica, Attila si è riscoperto Asterix. I “cittadini” sono spariti di colpo, e di colpo Grillo è rimasto solo: solo nella rete di post e likes, alle prese con la rabbia di militanti e avatar; solo nel silenzio assordante di una piazza vuota, pronta a seppellirlo sotto un coro di risate.
            Beppe non si rassegna: il Movimento sul territorio non esiste, lui vince e perde da solo. Da solo, espelle i dissidenti come Berlusconi al culmine del delirio bulgaro; da solo, liquida le critiche di Stefano Rodotà e le domande di Milena Gabanelli con la stessa sprezzante arroganza con cui aveva messo in discussione l'autorevolezza scientifica di Rita Levi Montalcini, altra mente libera e non disposta a genuflettersi dinanzi all'icona dell'Uomo solo al comando. Beppe vince e perde da solo, ma la batosta l'ha sentita eccome. E allora anche la piccola Assemini, sperduta nel cuore dell'entroterra cagliaritano, diventa importante come una nuova Chalon per i barbari riconfinati tra le pieghe di un fumetto.
            Ecco perchè Beppe cala in Sardegna con tutto il suo repertorio di invettive e sberleffi, cercando l'applauso di chi ancora vagheggia una riscossa civica. Chissà se, dinanzi
all'eco di un'altra piazza vuota, dinanzi ad un'altra raffica di “vaffa” sparata dai frequentatori del blog, il comico reinventatosi Capo politico capirà che la logica dell'opposizione ad ogni costo non è compatibile con una concreta prospettiva di rinnovamento, che gli elettori non gli hanno perdonato di avere rivitalizzato il Cavaliere attraverso quei “no” ossessivamente opposti agli otto punti del governo di cambiamento, che il fantasma di Bersani umiliato in streaming consumerà presto o tardi la sua vendetta, aleggiando, sconfitta dopo sconfitta, su quel che resta delle cinque stelle.
            E chissà se riuscirà a prendere consapevolezza del fatto che il destino di ogni guru intenzionato trasformare il Parlamento ora in un bivacco di manipoli, ora in un ricettacolo di zainetti, ipad e strafalcioni appare irrimediabilmente tracciato dagli ineluttabili sentieri della storia: da solo in una piazza vuota, dove una risata lo seppellirà.


Carlo Dore jr.
( cagliari.globalist.it )

mercoledì, maggio 15, 2013

ELOGIO DEL PARTITO IRRESPONSABILE


Mentre scrivo queste righe, le parole di Hilda Boccassini rimbombano ancora per i corridoi deserti del Tribunale di Milano, sintetizzando nella cruda freddezza di una formula giuridichese l’essenza stessa degli ultimi vent’anni della storia d’Italia: “prostituzione sistematica a beneficio dell’imputato Silvio Berlusconi”. Prostituzione sistematica, ovvero prostituzione che diventa sistema. Il sistema di un Paese asservito al volere di un Capo non assoggettabile a quei parametri di disciplina e onore che, secondo il vetusto orpello costituzionale, dovrebbero guidare l’azione dei titolari di funzioni pubbliche; il sistema di un Paese mobilitato ad assecondare le esigenze di un unico utilizzatore finale, pervaso dai pruriti machisti come dalle bramosie impunitarie; il sistema di un Paese in cui, tra leggi ad personam e gare di burlesque, la prostituzione materiale ed intellettuale si eleva a veicolo privilegiato per seguire l’impervia rotta del potere.

Mentre scrivo queste righe, le parole di Enrico Letta risuonano ancora nel silenzio assordante della fiera di Roma: non un cenno ai ministri che inveivano in piazza contro le toghe politicizzate; non un cenno sui parlamentari mobilitati nell’occupazione dei palazzi di giustizia; non un cenno sull’ennesima autoassoluzione dell’eterno impunito, capace persino di paragonare la sua eterna fuga dai processi al dignitoso coraggio che sempre contraddistinse la figura di Enzo Tortora. Solo silenzio, inframmezzato dai continui riferimenti al “senso di responsabilità”.

Già, il senso di responsabilità: è per senso di responsabilità che l’ala “dialogante” del PD ha silurato Pierluigi Bersani e il suo progetto del governo di cambiamento; è per senso responsabilità che i teorici della “pacificazione” hanno scelto la via dell’abbraccio mortale con Berlusconi, forti della neanche tanto malcelata benedizione del guru Casaleggio; è per senso di responsabilità che i democrat hanno imposto al PD di abdicare dal suo ruolo di partito della Costituzione, riducendo la politica italiana a greve scontro tra l’autoritarismo economico e mediatico del Cavaliere e quello telematico di Beppe Grillo.

Mentre scrivo queste righe - pensando che, in definitiva, è per senso di responsabilità che il PD ha scelto, attraverso la strategia delle larghe intese, di “normalizzare” il sistema Berlusconi - mi trovo fatalmente a tessere l’estremo elogio di un “partito irresponsabile”.

Sì, io vorrei un partito irresponsabile. Vorrei un partito tanto irresponsabile da opporre la bandiera della legalità al ruggito della piazza caimana; vorrei un partito tanto irresponsabile da affermare l’assoluta attualità dell’impianto costituzionale vigente, ribadendone l’intangibilità dinanzi all’attuazione di poco convincenti progetti di riforma; e vorrei un partito tanto irresponsabile da indicare nel ritorno al voto la soluzione della crisi politica in atto, consapevole del fatto che la prospettiva di una sconfitta elettorale può sortire effetti meno devastanti della perdita di credibilità che deriva dalla legittimazione dell'avversario di sempre.

Ma è tempo di larghe intese, e il silenzio della pacificazione inghiotte l'indignazione per la “prostituzione sistematica” insieme alle parole della Boccassini. Rimane spazio solo per l'ennesimo richiamo al senso di responsabilità, mentre gli opposti autoritarismi si apprestano a spartirsi le spoglia di un Paese allo sbando, tra lo sconcerto di quanti, non disposti a praticare sconti sul piano della qualità democratica, continuano a tessere l'elogio del “partito irresponsabile”.

Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su www.cagliari.globalist.it)

giovedì, aprile 25, 2013

LA COSTITUZIONE: FIGLIA DELLA RESISTENZA


Lo avrai, camerata Kesserling, il monumento che attendi da noi Italiani, ma con che pietra si costruirà deciderlo tocca a noi”. Il monumento che Calamandrei idealmente contrapponeva alle feroci incursioni delle camicie nere è stato elevato facendo ricorso ad un particolare tipo di pietra: alla pietra delle idee, alla pietra del sangue, alla pietra della speranza di un Paese diverso che sosteneva, ora dopo ora, i protagonisti della lotta di Liberazione. Quel monumento è la Costituzione: patto tra uomini liberi volto a stabilire le regole fondanti della convivenza democratica, manifesto politico ispirato ai valori di solidarietà ed eguaglianza che della Resistenza costituivano l'anima. Già, l'anima: nella Costituzione c'è l'anima della Resistenza, perchè la Costituzione è figlia della Resistenza.

Il rapporto che lega le scelte dei Costituenti alla stagione della lotta partigiana non emerge solo dalle disposizioni relative alla dignità della persona umana ed ai “diritti di libertà” – principi fondamentali di un ordinamento chiamato a superare l'onta delle leggi razziali - : quel legame traspare anche dalle norme che, attraverso un equilibrato sistema di checks and balances tra i vari poteri dello Stato, garantiscono il regolare svolgimento della dialettica democratica dinanzi al manifestarsi di eventuali rigurgiti di autoritarismo; traspare dal principio che, qualificando la magistratura come un ordine autonomo rispetto ad ogni altro potere, rifiuta la logica di un sistema giudiziario inteso come braccio armato del potere politico; traspare dalla previsione di efficienti istituzioni di garanzia, in grado di salvaguardare l'integrità del dettato costituzionale dai desiderata di una contingente maggioranza di governo.

Ecco, non è casuale che proprio la seconda parte della Costituzione sia stata oggetto di numerosi tentativi di revisione durante i vent'anni che hanno scandito l'evolversi della Seconda Repubblica; e non è casuale che la necessità di procedere ad una rielaborazione dei principi relativi alla forma di governo consacrati nella Carta Fondamentale (più volte definiti come il decadente retaggio di una cultura filosovietica) sia stata manifestata con particolare vigore dagli esponenti di quello schieramento politico che, attraverso la sistematica (e talvolta spudorata) riabilitazione del ventennio fascista, tuttora negano alla Resistenza il valore di momento fondante della nostra democrazia.

Ma proprio la capacità della Costituzione di resistere ai molteplici tentativi di revisione di cui è stata oggetto rappresenta la migliore conferma dell'attualità dei valori di cui la Carta è espressione: il valore dell'uguaglianza, destinato a prevalere sull'ossessiva ricerca del privilegio; il valore delle istituzioni intese come strumento per l'attuazione dell'interesse generale, affermato in confronto di quanti vorrebbero le stesse istituzioni asservite alle esigenze del princeps; il valore delle cariche pubbliche da esercitare secondo “disciplina e onore”, principi brutalmente sviliti dalle tristi vicende oggetto della cronaca recente; il valore dell'indipendenza della magistratura, opposto ai mille disegni di riforma diretti a sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del potere politico; il valore della democrazia come momento di confronto, destinato a prevalere sempre e comunque sul decisionismo efficentista che caratterizza il modello dello Stato-azienda.

Sono valori radicati nella storia del nostro Paese, sono i valori radicati nelle mille, meravigliose esperienze che rendono entusiasmante e commovente la nostra Storia: nell'esperienza di Antonio Gramsci, intelletto troppo elevato per rimanere sepolto nelle segrete di Turi; nell'esperienza di Emilio Lussu, vittima fieramente consapevole delle storture giudiziarie di un regime che non faceva prigionieri; e soprattutto nell'esperienza dello splendido, struggente ultimo discorso di Giacomo Matteotti, e del suo tentativo di riscattare “non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente” la dignità di una Camera dei Deputati già ridotta a bivacco di manipoli.

Uguaglianza, giustizia, dignità, passione: in una parola, Resistenza; in una parola, Costituzione. Anche in un epoca attraversata dalle violente pulsioni autocratiche di cui si alimentano le varie facce della “politica personale”, i valori della lotta partigiana hanno saputo superare le barriere del tempo, e continuano ad ispirare i 139 articoli della Carta Fondamentale. Per questo, mi piace credere che, proprio in calce all'art. 139, è possibile rinvenire un'ulteriore “norma di chiusura”, una norma di chiusura scandita dalle stesse parole incise nella pietra del monumento di Calamandrei:

Ora e sempre, Resistenza.

Carlo Dore jr.