domenica, gennaio 15, 2017

L'OCCASIONE MANCATA

L’esito del referendum costituzionale avrebbe paradossalmente potuto costituire una colossale occasione per il PD e per il suo attuale gruppo dirigente: l’occasione per riattivare quella “connessione sentimentale” con la sua base sociale di riferimento, esauritasi lungo la road to perdition che doveva condurre al Partito della nazione; l’occasione per restituire al partito la sua naturale dimensione di comunità politica, anch’essa sacrificata sull’altare della leadership carismatica; l’occasione per avviare, in definitiva, una riflessione critica in ordine ai principali avvenimenti che hanno scandito l’evolversi della legislatura in corso, dalla “Notte dei 101” al tentativo (velleitario e pericoloso) di rottamazione della Carta. Una riflessione che, proprio alla luce del voto referendario, avrebbe dovuto vertere tanto sulle responsabilità politiche di Matteo Renzi, quanto sulle responsabilità istituzionali di Giorgio Napolitano.

Il naufragio del percorso riformatore benedetto dal Presidente emerito all’atto del suo re-insediamento imporrebbe infatti di valutare se lo stesso ex Capo dello Stato abbia sempre suonato a tempo la “fisarmonica” dei poteri riconnessi alla sua carica: se la scelta di differire il dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Berlusconi (scelta che di fatto regalò al Cavaliere un altro anno di regno, assicuratogli dal supporto delle truppe scilipotiche), la decisione di non permettere a Bersani di sottoporre alle Camere la sua sfida del Governo di cambiamento, la determinazione di mettere sotto schiaffo il Parlamento condizionando la sua permanenza al Quirinale all’attuazione di una penetrante revisione della Carta possano considerarsi coerenti con il ruolo di supremo garante dell’equilibrio costituzionale a lui assegnato nell’organizzazione orchestrale dello Stato.

Secondo questa linea di pensiero, nello spartito composto da Napolitano Renzi ha recitato il ruolo della prima donna: la scalata alla segreteria del PD è stato solo il primo passo della marcia di avvicinamento verso Palazzo Chigi, colpevolmente assecondata da un gruppo dirigente dimostratosi (con qualche lodevole eccezione, rinvenibile nelle sempre più esigue fila della minoranza bersaniana) tanto disponibile ad assecondare l’ascesa del nuovo corso quanto insensibile alle questioni di principio che avrebbero potuto arginare lo strapotere del princeps.  

La ubris collettiva figlia del voto europeo ha portato i protagonisti della “svolta buona” a ignorare le conseguenze prodotte dalle scelte del Governo: il jobs act e il legame con la grande industria sfibravano il legame con il mondo del lavoro e del sindacato; le slides che declinavano le magnifiche sorti de “La buona scuola” facevano crescere il dissenso degli insegnanti; l’indifferenza ostentata verso i problemi dell’Università recideva il legame con il mondo della cultura. Quasi senza accorgersene, il Segretario del PD e la sua maggioranza silenziosa si sono trovati da soli ad affrontare l’appuntamento referendario (inopinatamente trasformato in un giudizio ordalico sulla figura dell’ex premier): soli, nel fracasso di mille slogan senza cuore e senza significato; soli, perché lontani anni luce dalle istanze e dalle rivendicazioni di quegli strati sociali che avevano sempre trovato nel centro-sinistra il loro ideale punto di riferimento.

Il “referendum straperso” avrebbe dovuto indurre il Segretario del PD e la sua maggioranza consenziente a procedere in questo sforzo di riflessione: ad ammettere limiti, errori e colpe; a recuperare il dialogo con il proprio mondo declinando una nuova idea di politica, e demandandone l’attuazione a una classe dirigente più matura e consapevole di quella generata dal germe della rottamazione. Ma le parole affidate da Renzi alle pagine de “La Repubblica” trasudano ancora ubris e fracasso, e i componenti della maggioranza consenziente continuano a ostentare sorrisi e solgan senza cuore: il referendum è alle spalle, avanti in nome del cambiamento, con l’obiettivo di sconfiggere i populismi. Della riflessione non c’è traccia, non c’è spazio per la riflessione.

Eppure, il risultato del referendum costituzionale suggerisce proprio che le logiche di cui si alimentano i movimenti populisti vengono esaltate dal confronto all’ultimo sangue nel quale la politica muscolare tende a risolversi; e che, correlativamente, la sconfitta dei populismi  passa proprio da quella connessione sentimentale tra partito e popolo di cui il PD ha smarrito la traccia, dalla capacità di aggregare elettori ed eletti attorno a un progetto collettivo ispirato ad una forte “idea di politica”, in grado di irradiare tutte le singole “idee politiche” che in quel progetto vengono a collocarsi. Un’idea di politica che proprio gli strati sociali tradizionalmente collegati al centro-sinistra hanno individuato nei principi della Costituzione, vanificando i progetti di quanti ne invocavano il superamento.

Ecco perché dal risultato del referendum si sarebbe potuto ripartire per ripristinare un punto di contatto tra il PD e quei settori dell’area democratica che, al momento, si trovano privi di rappresentanza; ecco perché la scelta del Segretario del PD di non procedere nello sforzo di riflessione suggerito dal voto referendario sembra destinato a risolversi nell’ennesima occasione mancata.

Carlo Dore jr.