domenica, giugno 27, 2010

IL LEADER E IL CAPOBANDA

Quando le tracce dei temi assegnati agli studenti impegnati negli esami di maturità sono state diffuse dai vari mezzi di informazione, un’improvvisa ondata di stupore e sconcerto ha pervaso l’animo di tutti gli intellettuali democratici del Paese.

La proposta di elaborato mediante cui si chiedeva ai candidati di esaminare il “rapporto tra giovani e politica nel pensiero dei grandi leader” partendo da una frase pronunciata da Mussolini (la cui posizione veniva artificiosamente equiparata a quella di Togliatti, di Moro e perfino di Giovanni Paolo II) all’indomani del delitto Matteotti non costituisce soltanto l’ennesimo prodotto del goffo revisionismo in salsa berlusconiana, già manifestatosi nella parabola del “dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza nelle località di confine”.

No, quel tema rappresenta qualcosa di peggio: rappresenta la definitiva conferma della volontà di attribuire la qualifica di leader al capo di una forza politica che – oltre a descrivere con oratoria marziale le imprese criminali di militi e gerarchi come la sana estrinsecazione del vitalismo proprio della migliore gioventù italica - si assumeva pubblicamente la responsabilità di un omicidio, certificando la totale immersione dell’Italia nella palude di un regime fatto di fuoco e camice nere, discorsi da operetta e sistematiche rappresaglie, sangue e olio di ricino. Rappresenta - come lucidamente ha osservato Adriano Prosperi nel suo articolo pubblicato su “La Repubblica” dello scorso giovedì - l’estremo tentativo di legittimazione della leadership di un capobanda.

Forse, anche nell’epoca dell’anti-ideologismo e del superamento dei partiti tradizionali, della rinnovata esaltazione dell’Uomo solo al comando e della trasformazione della militanza politica in tifo da stadio, sarebbe stato preferibile che i funzionari del ministro Gelmini avessero chiesto agli studenti di riflettere su altre parole che la storia italiana propone, di esporre il loro pensiero su un altro discorso: un discorso che si è elevato al di sopra delle grida delle squadre di azione, dei lamenti di un uomo morente, delle teorie volte a mettere sullo stesso piano vincitori e vinti per continuare a trasmettere lo straordinario messaggio di libertà in esso contenuto. Il discorso di un leader vero che riuscì, contrapponendo ancora una volta la forza della ragione all’ottusa pratica delle ragioni della forza, a disvelare in tutta la sua mostruosa enormità il castello di violenze, bugie, e sopraffazioni su cui si fondava l’autorità del Duce.

Quel leader si chiamava Giacomo Matteotti, e la sua storia è proprio la storia di un discorso. Un discorso che il deputato socialista chiese di pronunciare “né prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente”, nel vano tentativo di riscattare, seppur per pochi istanti, la dignità di una Camera dei deputati già troppo simile ad un bivacco di manipoli. Un discorso mediante il quale, oltre alle molteplici anomalie che caratterizzavano il funzionamento di una legge elettorale liberticida, venivano denunciate le sistematiche intimidazioni, le brutali ritorsioni e financo gli omicidi a sangue freddo che avevano caratterizzato le elezioni del 1924, mentre la parola “regime” iniziava a rimbombare, sinistra ed inquietante, tra i banchi delle forze di opposizione.

Un discorso la cui essenza è concentrata in poche e semplici battute, quasi gridate, con rabbia e disperazione, dal leader in faccia al Capobanda: «Noi deploriamo che solo il nostro popolo nel Mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza».

Popolo, libertà, dignità. Queste erano le parole di Giacomo Matteotti, le parole del leader dalla fine era già scritta: il bivacco di manipoli avrebbe ben presto fatto valere la sua legge, le ragioni della forza avrebbero soffocato la forza della ragione nel sangue di un uomo visto come una minaccia da un regime debole.

Chissà in quale modo uno studente prossimo alla maturità avrebbe interpretato quelle parole. Forse con rabbia, forse con una lacrima, forse con un sorriso, forse con un applauso. La rabbia, le lacrime, i sorrisi e gli applausi che i democratici di tutta Italia da quasi un secolo tributano al meraviglioso, indelebile ricordo di Giacomo Matteotti, al ricordo del leader che per primo trovò il coraggio di rivelare ad un Paese allo sbando come, sotto il doppio petto presidenziale da cui era incorniciata la volitiva mascella del Duce, continuasse in verità a pulsare l’anima nera del Capobanda.

Carlo Dore jr.

domenica, giugno 20, 2010

IL “PARADOSSO DI CRISTOFORO COLOMBO” E LA TRISTE DOMENICA DEL PROGRESSISTA SCETTICO


Quando, domenica scorsa, mi sono presentato al seggio per dare il mio voto al candidato del centro-sinistra alla Presidenza della Provincia di Cagliari, ho avuto la netta sensazione di essere chiamato, ancora una volta, a ricoprire un ruolo di secondo piano nell'ennesima, malinconica sconfitta annunciata delle forze progressiste in Sardegna. I risultati del primo turno tracciavano infatti un quadro a tinte fosche dello stato di salute dell'area democratica isolana: emergevano le troppe contraddizioni di un PD del tutto privo di canali di comunicazione con la società, l'afasia disarmante di candidati logori ed incapaci di proporre una credibile alternativa agli slogan strombazzati senza logica dai vari scherani del Cavaliere, la disaffezione crescente di un elettorato che continua a sentirsi senza guida.

Insomma, ho concepito il mio voto come un estremo (e forse addirittura inutile) atto di opposizione verso l'arroganza di un Governo che sta trasformando, giorno dopo giorno, l'Italia in una democrazia minore: un estremo atto di opposizione con cui mi accingevo a cominciare la mia triste domenica di elettore scettico.

Alla luce di questo status quo, non so descrivere il mio stupore di fronte alla realtà che ha iniziato a delinearsi dopo la chiusura delle urne: i berluscones si ritrovavano di colpo con le reni spezzate, i progressisti conquistavano Nuoro e l'Ogliastra, riuscendo persino, contro ogni pronostico, a confermarsi alla guida del Capoluogo. Insomma, il centro-sinistra sardo ha vissuto il classico “paradosso di Cristoforo Colombo”: partito alla ricerca dell'India di una sconfitta contenuta, si è ritrovato a celebrare le meraviglie dell'America di un trionfo insperato.

Tuttavia, mentre l’amministrazione regionale appena eletta rischia già di sprofondare nel baratro degli scandali orditi dalla “cricca” romana cresciuta all’ombra di Palazzo Grazioli, non posso non rilevare che questa vittoria risulta per me caratterizzata da un sapore diverso rispetto agli altri successi che hanno scandito la storia della sinistra italiana degli ultimi quindici anni: il sapore vagamente amaro ed incompiuto che nasce dalla consapevolezza di non poter andare oltre il classico sospiro di sollievo a cui mi sono abbandonato quando ho appreso che, per questa volta almeno, “avevano perso i peggiori”.

Cosa è mancato dunque a questa vittoria rispetto alla splendida cavalcata che, nel 1996, aveva trascinato l’Ulivo al governo del Paese, rispetto alla travolgente affermazione di Renato Soru del 2004, rispetto anche all’interminabile notte del 10 aprile del 2006, quando Romano Prodi si assicurò per la seconda volta la poltrona di Palazzo Chigi?

Semplice: è mancata la partecipazione della gente, è mancato l’entusiasmo che deriva dal sentirsi parte di un progetto comune, è mancata soprattutto quell’empatia tra rappresentanti e rappresentati in forza della quale la vittoria degli uni non può che essere interpretata come una vittoria degli altri. In altre parole, nel 1996, nel 2004 e nel 2006, un popolo vinceva attraverso il leader. Oggi no: oggi hanno vinto dei leader senza popolo.

Disertando in massa le urne, i sostenitori dell’area democratica non hanno infatti semplicemente dimostrato di preferire la spiaggia al seggio, ma hanno voluto dare un segnale che non può essere ignorato: un segnale di stanchezza verso una classe dirigente percepita come lontana e dannatamente autoreferenziale, un segnale di disagio verso una politica che non ne asseconda i bisogni e le istanze, un segnale di sofferenza verso la loro condizione di esuli nella terra straniera del post-ideologismo o dell’anti-ideologismo, di donatori di voti costretti periodicamente a fare muro contro la calata degli oplites inviati da Arcore per assicurare a Berlusconi il controllo del suo personale buen retiro agostano.

Le conseguenze che questa situazione rischia di generare sono sotto gli occhi di tutti: i partiti – smarrita la loro istituzionale funzione di catena di collegamento tra istituzione e società – stanno rapidamente assumendo la dimensione di “scatole vuote” idonee solo ad ammortizzare lotte interne e a delineare equilibri di potere; la militanza attiva si riduce ormai al solo esercizio del diritto di voto in occasione di processi decisionali dall’esito spesso scontato; i programmi vengono gradualmente soppiantati da slogan sparati sulla rete dai sostenitori di una piuttosto che di un’altra corrente; dirigenti e candidati vengono sempre più spesso descritti come generali senza truppe, incapaci di scaldare i cuori di una base liquefatta.

Ecco allora che, una volta smaltita l'euforia del post-voto, gli amministratori eletti la scorsa settimana saranno chiamati ad assolvere un compito che va ben al di là dei consueti riferimenti al buon governo del territorio e dei propositi di rinnovamento manifestati in campagna elettorale: essi dovranno restituire la voglia di partecipazione a quella vasta fetta di elettorato che ha manifestato la propria sfiducia attraverso l’astensione di massa. Nella consapevolezza del fatto che, se questa volta la prospettiva di una sconfitta contenuta celava l’El Dorado di una vittoria sonante, normalmente, per una forza politica non sostenuta dalla partecipazione della propria base, il paradosso di Cristoforo Colombo funziona al contrario, trasformando il miraggio tutto americano di un successo travolgente nella realtà di una sconfitta rovinosa sulle coste della povera India. E a quel punto, anche l’invito alla mobilitazione contro l’incedere della “cricca” berlusconiana potrebbe non essere sufficiente a squarciare il grigiore delle tante tristi domeniche che sembrano destinate a scandire il futuro del progressista scettico.

Carlo Dore jr.

lunedì, giugno 07, 2010

“C’E UN FILO ROSSO CHE LEGA TUTTI I GRANDI DELITTI: UN UNICO PROGETTO POLITICO”: L’ITALIA NELLE “MANI GIUSTE”?


“C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”. Così scriveva Rocco Chinnici, indimenticabile capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, poco prima di venire trucidato dal tritolo dei corleonesi. Un filo rosso che lega i grandi delitti, un unico progetto politico: chissà se le parole dell’eroico maestro di Giovanni Falcone sono tornate alla mente del Procuratore nazionale antimafia Grasso quando, nel commemorare la strage di via dei Georgofili, ha dichiarato che la strategia posta in atto dalla Mafia attraverso gli attentati del 1993 era finalizzata «a causare disordine per dare la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale di Tangentopoli», ad «agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire» le richieste di Cosa Nostra.

Bombe che esplodono, oscure entità che premono per emergere, eroi e barbe finte, coppole e colletti bianchi: tutte componenti di un progetto volto a far confluire un Paese allo sbando “nelle mani giuste”. Giancarlo De Cataldo ha già provato a raccontare questa storia in uno dei suoi ultimi romanzi, perché un romanzo è la storia d’Italia a partire dagli anni’60: un romanzo criminale, nel quale si fronteggiano guardie e ladri, bande armate e servitori dello Stato, complotti e grandi ideali, veloci strette di mano e compromessi storici. “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”. Ma quale progetto? Teso al perseguimento di quale obiettivo? Cosa accadde in Italia tra il 1992 e il 1993?

Accadde che un pool di magistrati molto coraggiosi e molto indipendenti riuscì a disvelare il sistema di corruzione istituzionalizzata che alimentava le forze del pentapartito, soffocando così nel suo stesso fango quella classe dirigente che, per quasi mezzo secolo, aveva governato le sorti di una Nazione drammaticamente sospesa tra est e ovest, ridotta a terra di confine nell’eterna guerra tra la CIA e i carri armati sovietici. Accadde che le tesi di Falcone vennero recepite nella sentenza con cui la Cassazione metteva fine al maxi-processo iniziato nell’astronave verde dell’Ucciardone, trasformando così in verità giudiziaria quello che fino ad allora veniva semplicemente liquidato come il “teorema Buscetta”. La Prima Repubblica era prossima al tracollo, la Mafia perdeva i suoi riferimenti tradizionali: la Mafia era ferita, la Mafia doveva reagire, rivoltandosi contro amici e nemici.

E’ in questo contesto che muore Salvo Lima, sindaco responsabile del “sacco di Palermo” descritto da più parti come il garante del patto tra gli uomini d’onore ed una classe politica rivelatasi alla lunga poco affidabile; è in questo contesto che muore Giovanni Falcone, simbolo per eccellenza della lotta alla criminalità organizzata capace di rappresentare tutto il desiderio di riscatto di una Sicilia non disposta a sottostare in eterno al dominio delle cosche; è in questo contesto che muore Paolo Borsellino, al quale non poteva essere perdonata la colpa di essere arrivato troppo vicino al cuore dei segreti di Cosa Nostra. Sono i giorni di Capaci e di Via D’Amelio; sono i giorni delle lacrime e delle lenzuolate dei palermitani in lutto; sono i giorni dell’attentatuni.

Ma ancora non bastava: c'era un Paese in movimento da riconquistare, animato da un'improvvisa spinta legalitaria che, da Roma a Napoli, da Bologna a Palermo, favoriva l'ascesa al potere di alcune forze politiche rimaste fino a quel momento confinate nel recinto dell'opposizione. Quella spinta doveva esaurirsi, quella stagione doveva finire, un nuovo ordine sociale doveva essere ricreato in tempi brevi. Ecco allora riaffiorare, nelle ricostruzioni di Pietro Grasso e del Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi, quelle tre maledette parole che troppo spesso hanno influenzato i momenti della storia italiana recente, dirigendo la trama delle pagine di svolta del nostro romanzo criminale: strategia della tensione.

E così, nel buio dell'ennesima notte della Repubblica, esplode la basilica di San Giovanni in Laterano, esplode la chiesa del Velabro, esplode il museo di via Palestro a Milano. E mentre l'Italia tremava sotto la minaccia di altre deflagrazioni programmate per mietere “centinaia di vittime”, lo stesso Presidente Ciampi ricorda come, di fronte all'improvviso black out che aveva lasciato per ore Palazzo Chigi nel più totale isolamento, un unico pensiero aveva iniziato a farsi largo nella sua mente: la democrazia era in pericolo, il rischio di un golpe era concreto.

Poi, dopo il fallito attentato allo Stadio Olimpico, di colpo cala il silenzio: di bombe non ce ne sono più. Perchè? Forse la Mafia aveva capito che la strategia stragista non era indicata per portare avanti le rivendicazioni contenute nel famoso “papello” consegnato da don Vito Ciancimino al generale Mori, che il progetto di Riina di “procedere alla corleonese”, facendo la guerra per fare la pace, avrebbe finito con l'aprire un conflitto con lo Stato alla lunga insostenibile anche per l'ala più estremista di Cosa Nostra.

O forse, sempre utilizzando le parole del procuratore Grasso, la Mafia voleva effettivamente favorire quella “entità esterna” che premeva per «proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale di Tangentopoli» . C'è stato davvero un nuovo patto tra coppole e colletti bianchi? La mafia ha davvero cercato di “agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”? Con la fine di Mani Pulite, con l'avvento della Seconda Repubblica, l'Italia è effettivamente confluita “nelle mani giuste”, come ipotizzato nel bellissimo libro di De Cataldo?

A questi interrogativi, al momento, non è possibile dare risposta. “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”: chissà se qualche giornalista indipendente e curioso, qualche magistrato rigoroso e determinato, qualche politico animato dal più autentico spirito democratico riuscirà un giorno ad individuare la logica di questo progetto, a ripercorrere la trama che lungo quel filo si snoda. Per ora, è solo la pagina di un romanzo: l'ennesima pagina nera di quell'incredibile romanzo criminale in cui si identifica la storia italiana del dopoguerra.

Carlo Dore jr.