lunedì, febbraio 18, 2013

L'ITALIA GIUSTA, IL DUETTO TRA COMICI E L'ANELLO DEL DITTATORE


Introduzione all'incontro su "Legge elettorale e legge sui partiti: crisi di rappresentanza e prospettive di riforma della politica", svoltosi a Cagliari il 18 febbraio 2013


In una delle tante piazze sparse per la bassa trevigiana, la voce stridula di un comico genovese tenta di squarciare il velo di torpore che attanaglia il consueto manipolo di fedelissimi accorso per assistere all'ultimo comizio-cabaret: "eliminiamo i sindacati, difensori di parassitarie rendite di posizione"; "liquidiamo due delle tre reti RAI, teniamoci un solo canale di Stato"; "temiamo la magistratura, che persegue gli innocenti e difende i delinquenti"; ma soprattutto: combattiamo contro i partiti, tutti sono ladri, tutti rubano nella stessa maniera". Applaudono gli indignados della rete, pericolosamente esaltati come i milites radunati sotto il fatal balcone; si moltiplicano i "like" al dio del Blog: il comico fa presa, miete consensi e non ammette dissensi.

In uno dei tanti studi televisivi sparsi tra Cinecittà e Segrate, un comico milanese inonda le frequenze con i numeri ad effetto del suo antiquato repertorio: la magistratura comunista è il cancro della democrazia, da estirpare a colpi di leggi ad personam; le tasse inique dei tecnici affamatori verranno restituite pronta cassa, magari con l'aggiunta di un buono per i programmi di Mediaset premium; se si esclude l’infelice parentesi delle leggi razziali, il fascismo rimane un’esperienza di governo sostanzialmente positiva; ma soprattutto, le tangenti sono una prassi della moderna economia, una realtà da assecondare senza inutili moralismi, superabili in ogni caso attraverso il ripristino dell'immunità parlamentare.

Applaudono i nostalgici del ventennio, esaltati dall’ennesima riabilitazione di fez e camice nere; applaudono faccendieri di varia estrazione e formazione, arricchitisi per anni grazie alle connessioni tra politica corrotta e cattiva economia; applaudono i teorici della politica basata sul culto dell’uomo forte, da sempre allergici all’osservanza di quel sistema di check and balances che costituisce la base di ogni forma di convivenza democratica. Il comico promette, illude, giura e spergiura: la politica assolve e si autoassolve, tutti sono uguali nella ricerca dell'impunità.

Tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera: una singolare e paradossale vicinanza di argomenti lega il tycoon del drive in e il guru del v-day, un unico spartito che accompagna il duetto tra comici.

Dal palco di una delle tante manifestazioni che attraversano l'Italia, Pierluigi Bersani descrive a una piccola fetta di Paese il suo modello di "Italia giusta", promettendo lenzuolate su lavoro e legalità, lotta all'evasione fiscale, ripristino del reato di falso in bilancio e abrogazione delle leggi ad personam. Con un'importante postilla: non siamo tutti uguali, chi crede nell'Italia giusta non ha ancora smesso di perseguire il sogno di un'Italia migliore. Chi crede nell'Italia giusta non partecipa ai duetti tra comici.

Eppure, se si scorrono le pagine dell'ultimo libro di Marco Revelli, si rileva come, nel biennio 2011/2013, il centro-sinistra è rimasto, seppure parzialmente, coinvolto nella crisi di rappresentanza e nella erosione di consensi che ha investito PDL e Lega. Anche sulla credibilità del centro-sinistra ha pesato la diffusa percezione di un'eccessiva "distanza" tra partiti e determinati settori della società civile (distanza alimentata dalle storture di una legge elettorale che oblitera di fatto il rapporto fiduciario elettore-eletto a favore del meccanismo delle delega in bianco) e della conseguente difficoltà dei partiti a rappresentare, in seno alle istituzioni, le istanze che promanano da tali realtà; hanno pesato le troppe opacità relative alla "zona grigia" tra politica e settori del credito, e alcune scelte improvvide nella selezione delle candidature. Hanno pesato, in definitiva, le troppe incertezze manifestate dai progressisti italiani nel rimarcare la loro intrinseca "diversità" rispetto alle altre forze che attraversano il palcoscenico della politica italiana al crepuscolo della Seconda Repubblica.

Come si riesce a superare questa crisi di rappresentanza? Come si riesce a far calare il sipario sul duetto tra comici? Non ci si riesce, senza una decisa inversione di rotta sui temi eticamente sensibili della crisi dei partiti e della crisi della politica. Non ci si riesce senza una proposta di riforma della legge elettorale in grado di determinare il giusto equilibrio tra rappresentatività e governabilità, e di neutralizzare così la vulgata che descrive il Parlamento come una polverosa "casta di nominati"; non ci si riesce senza una legge sui partiti che possa dare piena attuazione all'art. 49 della Costituzione, e restituire ai partiti stessi la loro naturale funzione di strutture preposte a permettere ai cittadini di partecipare, con metodo democratico, alla determinazione delle grandi scelte di politica nazionale.

Criteri rigorosi per la selezione delle candidature; codici etici che (in linea con la scelta operata da Umberto Ambrosoli per la formazione delle liste nella regione Lombardia) prevedano la cessazione dalle cariche interne e l'obbligo morale delle dimissioni per tutti gli esponenti di partito rinviati a giudizio per delitti non riconducibili alla categoria dei reati di opinione; bilanci certificati ed accessibili a tutti i cittadini, tramite i quali sia possibile individuare la ragione giustificativa dell'impiego di tutte le risorse provenienti dalle varie forme di finanziamento pubblico: non si tratta di scelte rivoluzionarie, ma di misure semplici, ed attuabili nei primi cento giorni della nuova legislatura.

Misure idonee a restituire agli elettori la fiducia nei partiti, di nuovo intesi come centri di formazione politica e di selezione della classe dirigente; misure necessarie per rimarcare la diversità dell'Italia giusta rispetto al leith-motiv del "tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera"; ma soprattutto, misure indifferibili per salvagurdare la qualità democratica di un Paese pericolosamente in rotta verso il baratro del populismo plebiscitario alimentato dagli sberleffi del comico genovese, verso il nichilismo figlio della cultura autoritaria di chi, superando le gag da vecchio comico milanese, non ha mai nascosto la sua disponibilità a baciare l’anello di un dittatore.

Per questi motivi, è fondamentale che i partiti del centro-sinistra pongano il tema della riforma della politica al centro del loro programma di governo: perché, come in ogni opera che si rispetti, al duetto tra comici potrebbe fare seguito l’autodafé all’anello del dittatore.

Carlo Dore jr.

venerdì, febbraio 08, 2013

LA PASSIONE PER LA LEGALITA' E LA NOTTE DELLA REPUBBLICA

Testo dell'intervento programmato nell'ambito dell'iniziativa "Vivere di legalità" in memoria di Peppino Impastato, svoltasi a Cagliari il giorno 8/2/2013

Non è mia intenzione, in questa sede, proporre un ulteriore ricordo di Peppino Impastato, descrivere il suo cammino di coraggio e speranza percorso lungo i "cento passi" che lo separavano dalla casa di don Tano Badalamenti, esaltare la folle lucidità che lo spinse a ribellarsi all'equilibrio omertoso tra "potere sociale" e "potere criminale" in essere tra Cinisi, Palermo e quegli ambienti della politica romana convinti del fatto che “con la Mafia si deve convivere”.

No, vorrei inquadrare la figura di Impastato nell'ambito di un contesto più generale, quello animato dalla perenne contrapposizione tra le "grandi passioni" e "la Notte della Repubblica". La Notte della Repubblica è infatti l'ordito del grandioso "Romanzo criminale" in cui si traduce la storia italiana del dopoguerra: è una notte strana, fatta di strade vuote e di lacrime figlie di sogni spezzati, di Renault rosse e di grandi sussulti democratici, del sangue di leali servitori dello Stato e del silenzio che segue l'esplosione di una bomba.

La Notte della Repubblica copre, la Notte della Repubblica assorbe, la Notte della Repubblica, a volte, uccide.

E' nella più nera Notte della Repubblica, quella del 9 maggio 1978, che Peppino Impastato scompare, vittima consapevole della scelta di non genuflettersi dinanzi ad alcuna Cupola; Peppino muore da solo, nella stessa Notte della Repubblica che avvolge il cadavere di Aldo Moro, colpevole di avere intrapreso un percorso di cambiamento non compatibile con le logiche imperialiste di un Mondo ancora diviso in blocchi. Impastato e Moro, soli nella Notte della Repubblica: lo stesso destino che, un anno dopo, attende Giorgio Ambrosoli, fedele fino all'ultimo alla sua condizione di civil servant chiamato a fare politica "per lo Stato, e non in nome di un partito".

Impastato, Moro e Ambrosoli: se è vero, come sosteneva Rocco Chinnici, che "un unico filo rosso lega tutti i grandi delitti", viene allora da chiedersi quale sia il punto di contatto tra tre personaggi così distanti tra loro per cultura, formazione, collocazione ideologica. Volendo parafrasare le parole del filosofo Remo Bodei, potremmo forse rispondere che questo punto di contatto deve essere individuato nelle grandi passioni: nella "passione rossa" di un comunista anti-sistema come Impastato, e del suo messaggio di ribellione affidato alle onde di Radio Out; nella "passione bianca" di un cattolico democratico come Moro, e del suo tentativo di perseguire la strategia del compromesso in faccia ai rigurgiti reazionari che, in quegli anni,alimentavano la strategia della tensione; nella "passione grigia" di un conservatore come Ambrosoli, e nel suo intendimento di svelare tutte le trame di un sistema finanziario malato, indifferente al prezzo che l’adempimento del suo dovere gli avrebbe imposto di pagare.

Persone diverse, ideali diversi, passioni diverse, unite però da un minimo comune denominatore: la passione per la legalità, la volontà di far prevalere il "potere" fondato sulla legge ed esercitato dalle istituzioni democratiche rispetto al potere inteso (secondo la Corte d'Assise di Milano) come insieme di amicizie influenti, complicità, appoggi politici, disponibilità di denaro, tendenza al ricatto, alla corruzione e all'intimidazione.

Ecco, in una stagione caratterizzata da un generalizzato senso di sfiducia verso le Istituzioni, in cui la bandiera della legalità viene impropriamente ed inopportunamente degradata a mero strumento di moltiplicazione del consenso, l'esempio di Impastato, Moro ed Ambrosoli si colora di un significato nuovo e, se possibile, ancora più intenso: la passione per la legalità non ha bandiere nè colore, e non si presta ad essere piegata a basse esigenze di fazione. La passione per la legalità è la luce che guida persone tra loro lontane nella ricerca di un futuro migliore di questo triste presente, la luce che riesce, da sola, a squarciare per un attimo il velo di tenebra della Notte della Repubblica.

Carlo Dore jr.