sabato, marzo 31, 2007


MA QUALE SCISSIONE?


La prima fase del congresso dei DS è stata caratterizzata, almeno in Sardegna, da una sorta di fastidiosa prevedibilità: mentre i dibattiti nelle varie sezioni andavano per lo più deserti, gli iscritti si recavano in massa a votare, eseguendo (in certi casi, più per disciplina che per convinzione) le istruzioni impartite dal dirigente di riferimento.
Tuttavia, in questo desolante quadro, alcune situazioni verificatesi nel corso dell’ultimo mese possono costituire oggetto di una riflessione politicamente rilevante. In particolare, intervenendo al congresso di una delle più importanti sezioni cagliaritane, il segretario regionale Giulio Calvisi ha tentato di obliterare i problemi relativi alla collocazione internazionale del futuro Partito Democratico, osservando semplicemente che l’adesione del nuovo soggetto politico al socialismo europeo verrà definita attraverso una “serena discussione” con gli “amici della Margherita” dopo che il medesimo soggetto avrà preso vita.
Tuttavia, di fronte a questa ennesima contorsione verbale inscenata da uno dei luogotenenti di Piero Fassino, sono stato con amarezza costretto a rilevare che l’affermazione di Calvisi conteneva in sé una sconcertante dose di verità: l’Italia attualmente attraversa una fase contraddistinta da un preoccupante vuoto ideologico, in cui i grandi principi, le battaglie appassionate, i contrasti roventi e le struggenti emozioni che hanno attraversato la seconda parte del ‘900 sembrano lasciare il posto alla mediocrità diffusa, alla mortificazione delle intelligenze, al trasversalismo strisciante su cui si fonda “questa” Seconda Repubblica.
Al pari di Forza Italia, partito di celluloide creato da Berlusconi al solo scopo di catalizzare consensi da trasformare in nuovo potere, il PD è figlio illegittimo di questo vuoto ideologico: se infatti Forza Italia può considerarsi un mero strumento diretto ad attuare la volontà del Capo, il progetto sostenuto dalla maggioranza interna ai DS è di fatto volto a generare una forza politica senza cuore perché priva di solidi valori di riferimento, concepita nel chiuso delle stanze dei bottoni con l’obiettivo di recuperare qualche voto tra gli elettori moderati.
Quella nutrita minoranza di militanti della Quercia la quale (rea forse di avere per troppi anni accettato passivamente le decisioni imposte alla base da dirigenti incapaci di svolgere le loro mansioni con un minimo di incisività) rifiuta di conformarsi ad un simile status quo, manifestando l’intendimento di non aderire ad una strategia in cui i suoi componenti non riescono a riconoscersi, viene ora accusata di contrapporre lo spettro di una dolorosa scissione alle indicazioni emerse dal risultato congressuale.
Ma quest’ampia fetta dell’elettorato progressista manifesta un’esigenza ineludibile nella sua semplicità: la sinistra italiana non ha oggi bisogno di un nuovo partito, ma di un partito che, saldamente ancorato alla tradizione del socialismo europeo, sappia farsi portatore di quelle esigenze e di quelle istanze raramente assecondate dall’attuale gruppo dirigente, troppo compenetrato in elevati giochi di potere per ascoltare la voce del suo popolo.
E in confronto di quei militanti che legittimamente chiedono di poter restare a sinistra, di fronte alla deriva moderata di cui i DS risultano ormai irreversibilmente vittima, l’accusa di scissionismo non può che risultare del tutto priva di fondamento.

Carlo Dore jr.

domenica, marzo 18, 2007


NON DIMENTICARE BERLINGUER
-la sinistra italiana tra Partito Democratico e sogni di rinnovamento-


Andare oltre la sinistra: creare un partito unico dei riformisti italiani anche a costo di superare i principi cardine del socialismo europeo. Sono questi gli aforismi che più chiaramente descrivono il momento storico in cui si inquadra il trentacinquesimo anniversario dell’elezione di Enrico Berlinguer a segretario del PCI.
In una fase caratterizzata dalla definitiva negazione delle ideologie tradizionali, dall’arbitraria sovrapposizione dei valori che hanno caratterizzato le grandi culture del 1900, la figura del Segretario sassarese continua a rimanere al centro del dibattito politico: icona di coraggio e passione morale per quanti continuano a riconoscersi nei principi della sinistra post-marxista; ingombrante retaggio di un passato da dimenticare in fretta per i sostenitori del nuovo riformismo all’italiana.
In tal senso, sull’onda dell’esortazione a “dimenticare Berlinguer!” proposta da Miriam Mafai undici anni or sono, notevole favore hanno incontrato le costruzioni dirette ad individuare, sulla base della contestabile equiparazione tra il congresso di Rimini del 1991 e l’assise che i DS hanno convocato a Firenze per il prossimo 21 aprile, nella creazione del PD il momento conclusivo di quella stagione di trasformazione della sinistra italiana avviata proprio attraverso l’elaborazione della strategia del compromesso storico.
Tuttavia, è per i militanti al momento impossibile dimenticare Berlinguer, come incontestabile è l’assunto in base al quale il Segretario, i cui imperscrutabili silenzi erano di per sé stessi indicativi di una tensione ideale fuori dal comune, non si riconoscerebbe nelle “passioni fredde della politica politicante” su cui si fonda il progetto sostenuto da Piero Fassino.

Gli anni ’70 vengono ricordati da chi li ha vissuti come l’epoca fatata dei miti cantati e delle contestazioni, in cui le migliaia di persone che viaggiavano alla conquista della Nuova Frontiera andavano continuamente a sbattere contro i tanti muri che attraversavano un Mondo diviso in blocchi, vedendo il loro sogno affogato nel sangue delle stragi rosse e delle stragi nere o affossato dalle trame di quei tanti centri di potere palesi ed occulti i quali, direttamente o indirettamente, reggevano le sorti del nostro Paese.
E’ in questo sistema che la figura di Berlinguer si inquadra: un uomo timido ed un politico audace, dimostratosi in grado, con la sua semplicità, di mettere in discussione gli equilibri tra le varie sfere di influenza che allora di fatto dominavano il Pianeta. La proposta di un nuovo socialismo da sviluppare “sotto l’ombrello della NATO”, l’idea del dialogo tra cattolici e marxisti, la prospettiva di un’Europa affrancata dal giogo dei due diversi imperialismi costituiscono i momenti centrali di un disegno ispirato ad una logica unitaria: indicare al Partito Comunista la strada verso la socialdemocrazia.
E questa affermazione non può essere confutata nella sua veridicità dal rilievo secondo cui il PCI avrebbe finito col rappresentare un sinistra massimalista in competizione con le moderne visioni di quel Bettino Craxi che oggi Fassino giunge ad identificare come uno dei padri nobili del nascente Partito Democratico. Contrapponendosi al CAF, il Segretario sassarese manifestava semplicemente la necessità di avversare un sistema di potere che la Storia ha giudicato alla stregua di una rete di corruzione istituzionalizzata le cui maglie erano appunto costituite da quell’insieme di politici disinvolti, criminali in carriera e adepti di logge massoniche deviate che imperversavano nell’Italietta della prima Repubblica.
Tutto ciò posto, emerge chiaramente la differenza che intercorre tra la svolta della Bolognina e l’attuale congresso diretto a ratificare il progetto del PD: premesso in primo luogo che la strategia del compromesso storico non era da considerarsi in alcun modo volta ad obliterare la principale realtà della sinistra italiana in una sorta di acefalo contenitore moderato, nel 1991 i comunisti furono chiamati a trovare il coraggio necessario per guardarsi dentro e prendere atto, anche e soprattutto alla luce del crollo del muro di Berlino, della loro ormai conseguita identità socialdemocratica.
Il passaggio che Fassino oggi vuole imporre ai DS risulta caratterizzato da prospettive di gran lunga più incerte, in considerazione del fatto che si richiede alla principale realtà progressista del Paese di cambiare pelle, rinunciando al proprio essere di sinistra. Insomma, un autentico salto nel buio; un volo senza paracadute verso un baratro oscuro nelle cui profondità potrebbe anche annidarsi la fine del socialismo italiano.
In verità, l’Italia attraversa oggi una fase contraddistinta da un preoccupante vuoto ideologico: al pari di Forza Italia, il Partito Democratico, soggetto politico senza cuore in quanto non ispirato ad un chiaro ideale di riferimento, è un prodotto diretto di questa triste stagione. E’ quindi palese l’esigenza di ripensare i DS non solo come un partito profondamente rinnovato nel suo gruppo dirigente, ma come una forza capace di rappresentare appieno quei valori di pace, giustizia, laicità e tutela del lavoro stabile che costituiscono da sempre il sostrato essenziale del socialismo europeo e che continuano ad accendere la passione e l’entusiasmo di iscritti e militanti. E in un epoca in cui passione ed entusiasmo sembrano lasciare il posto alle vuote alchimie di grigi dirigenti privi del carisma proprio dei grandi leaders, la sinistra italiana non può permettersi di dimenticare Berlinguer.

Carlo Dore jr.

sabato, marzo 03, 2007


DODICI PUNTI, MA UNA SOLA PRIORITA’: PRODI ASCOLTI IL POPOLO DELLA SINISTRA.

Passata la grande paura conseguente all’apertura della crisi di governo, per il centro-sinistra è giunto il momento delle riflessioni: Romano Prodi ha scelto di ricompattare la sua maggioranza sulla base di un documento programmatico di “dodici punti” (ispirato essenzialmente ai valori della pace, dell’atlantismo, della tutela della famiglia e del rinnovamento economico), imponendo così alle forze più radicali della coalizione di frenare le pulsioni estremiste che talvolta contraddistinguono le scelte di alcune loro componenti.
Per contro, le difficoltà affrontate dall’esecutivo hanno costituito il presupposto utile ai sostenitori del PD per imprimere un’ulteriore accelerazione al progetto volto alla creazione del nuovo soggetto politico, descritto ancora una volta come quel fattore di semplificazione in grado di rilanciare l’immagine dell’Unione e di attribuire maggiore stabilità alla posizione del Premier.
Tuttavia, il presente status quo risulta caratterizzato, pur nella sua apparente linearità, da determinati punti oscuri sui quali vale la pena di spendere alcune considerazioni: non sembra infatti priva di fondamento l’affermazione secondo cui le candide anime riformiste della coalizione hanno sfruttato le inqualificabili evoluzioni di due dilettanti allo sbaraglio (quali Turigliatto ed il sig. Rossi) per imporre un’ulteriore svolta neocentista alla strategia del Governo. Ora, se questa malevola supposizione si rivelasse esatta, una simile linea di azione non produrrebbe altro effetto che quello di rendere ancor più netta la frattura in atto tra il centro-sinistra ed il suo elettorato, le cui istanze risultano puntualmente disattese dalle forze politiche di riferimento.
Le ben note vicende che hanno fatto seguito alla manifestazione di Vicenza costituiscono un riscontro oggettivo inattaccabile dell’esistenza di una simile frattura: decine di migliaia di militanti di tutti i partiti dell’Ulivo sono scesi in piazza per esternare con pacifica chiarezza la loro contrarietà ad una decisione di politica militare unilateralmente assunta dall’Esecutivo, decisione che risulta ancor più incomprensibile proprio in quanto del tutto coerente con quella triste realtà che -parafrasando Andrea Camilleri – vede tuttora l’Italia “serva di due padroni” come l’America e la Chiesa, anche e soprattutto a causa della rotta seguita negli ultimi cinque anni da “un nocchiero che era meglio perdere che trovare”.
Trincerandosi dietro il contestabile assunto in base al quale “la piazza non è parte integrante della democrazia”, alle indicazioni provenienti dalla componente maggioritaria del popolo della sinistra D’Alema, Prodi, e lo stesso presidente Napolitano hanno ancora una volta opposto l’arma dell’indifferenza, la stessa indifferenza ostentata in confronto di coloro i quali quotidianamente invocano l’abrogazione delle leggi ad personam, la regolamentazione del conflitto di interessi, l’approvazione di misure in grado di contrastare il fenomeno del lavoro precario, l’elaborazione di una riforma della giustizia idonea a mettere i magistrati nelle condizioni di esercitare con indipendenza e autonomia le funzioni che la Carta Costituzionale ad essi riconnette.
Ecco, indipendentemente da quanto stabilito nei “dodici punti” a cui in precedenza si è fatto cenno, il Presidente del Consiglio deve, a mio sommesso avviso, invero perseguire un’unica, grande priorità: egli è infatti chiamato a farsi carico delle istanze che provengono dal suo stesso elettorato, traendo ispirazione dai principi di quel “socialismo gentile” attraverso cui Zapatero è riuscito ad imporre una vera e propria rivoluzione progressista alla rigida società spagnola.
In questo momento infatti la maggioranza di governo è chiamata a fronteggiare una crisi forse più grave di quella esauritasi nell’aula di Palazzo Madama, attraverso le elucubrazioni di Cossiga o le evoluzioni di Turigliatto. E’ una crisi che si consuma giorno per giorno nel Paese, e che trova la sua ragion d’essere nella già descritta incapacità - finora dimostrata dalle forza dell’Unione - di dare seguito a quella politica “di sinistra” di cui la componente principale della società civile da tempo attende l’attuazione. E una crisi di queste proporzioni può essere superata non in forza di un’estenuante battaglia parlamentare all’ultimo voto, ma solo attraverso un’autentica e radicale svolta progressista, coerente con quegli stessi principi del socialismo europeo di cui oggi alcuni esponenti degli Democratici di Sinistra auspicano il definitivo superamento.

Carlo Dore jr.