lunedì, gennaio 28, 2008


DIETRO LE QUINTE DI UNA CRISI ANNUNCIATA


Quando le agenzie di stampa hanno comunicato la notizia della sfiducia opposta dal Senato al Governo – Prodi, non ho potuto fare a meno di domandarmi se i tanti dirigenti diessini con cui ho avuto modo di confrontarmi durante l’ultimo congresso della Quercia sarebbero ancora disposti a definire il Partito Democratico come un fattore di “semplificazione della politica” e di “rafforzamento dell’azione dell’Esecutivo”.
Premesso che – specie in un sistema caratterizzato dalla presenza di un eccentrico miliardario capace di fondare un partito dal predellino di una Mercedes per poi affidarne la reggenza ad una badante brianzola nel periodo in cui egli è impegnato a godersi il sole dei Carabi – la dignità istituzionale dimostrata dal Presidente del Consiglio nel riportare in Parlamento una crisi nata nel salotto di Porta a Porta non può che incontrare il massimo apprezzamento possibile, sarebbe quantomeno riduttivo individuare nelle giravolte di Dini e nel trasversalismo di Mastella le cause esclusive di questo ennesimo fallimento del centro-sinistra.
La crisi della maggioranza di governo ha infatti origini molto più complesse, posto che sul collasso della coalizione uscita vincitrice dall’ultima competizione elettorale ha indubbiamente inciso la scelta, maturata dopo le primarie del 2005, di accogliere nelle liste de “L’Unione” alcuni impresentabili reduci della compagine berlusconiana come Fisichella o Di Gregorio, il cui voto è risultato determinante per la rottura del vincolo fiduciario consumatasi a Palazzo Madama lo scorso giovedì.
Tuttavia, il rapido esaurimento della seconda esperienza di Romano Prodi a Palazzo Chigi deve considerarsi soprattutto una prevedibile conseguenza della determinazione, assunta da quello stesso gruppo dirigente che, con alterne fortune, da vent’anni regge le sorti della sinistra italiana, di obliterare i DS in un indecifrabile contenitore moderato (non laico e non cattolico; non socialista e non democristiano; non riformista e non conservatore) venuto alla luce tra i “ma anche” di Veltroni e le esilaranti gags di Maurizio Crozza. Obiettivo dei fondatori: dare “un partito al premier” capace di “aggregare la coalizione attorno ad un nuovo motore riformista”.
Ma agli occhi di quanti della strategia di Piero Fassino non condividevano i presupposti e le modalità attuative appariva evidente come, se l’elaborazione di un simile progetto politico avrebbe potuto avere una sua ragion d’essere tanto dopo la sconfitta del 2001 quanto al termine dell’attuale esperienza di governo, l’attuazione di siffatta strategia nel bel mezzo di una legislatura dall’andamento di per sé incerto avrebbe per forza di cose alterato i già fragili equilibri che regnavano all’interno dell’Ulivo.
A distanza di un anno dalla conclusione della stagione congressuale, questi timori si sono concretizzati in tutta la loro drammaticità: in primo luogo, l’elezione di Veltroni a segretario del nuovo soggetto politico ha impedito di configurare il PD come quel “partito del Presidente” di cui Prodi sembrava avere disperatamente bisogno, innescando per contro un processo di duplicazione della leadership sicuramente non funzionale alla stabilità della maggioranza.
In secondo luogo, se si considera che le primarie del 14 ottobre hanno rappresentato il momento iniziale della “stagione delle mani libere”, emerge chiaramente come il Partito Democratico, lungi dal porsi come un fattore di “semplificazione”, ha alla lunga costituito un elemento di ulteriore complicazione della politica italiana. Se infatti da un lato la nascita del nuovo partito ha favorito la proliferazione di quei cespugli di centro collocatisi al fine all’esterno dell’Unione, d’altro lato lo scioglimento dei DS ha privato il centro-sinistra di quel fondamentale perno socialdemocratico in grado di orientare in senso progressista l’azione dell’Esecutivo sui grandi temi del conflitto di interessi, della giustizia e della questione morale.
E così, di fronte all’avvilente spettacolo offerto dai manipoli della nuova destra che bivaccavano tra i banchi del Senato, i militanti dei partiti che afferiscono all’Unione devono ora interrogarsi su quale bandiera impugnare e su quali argomentazioni mettere in campo per arginare lo strapotere del Caimano, che gli errori tattici e la mancanza di coraggio dei sostenitori della strategia veltroniana del “ma-anchismo” hanno di fatto reso immune ad ogni rilievo in tema di conflitto di interessi e leggi ad personam.
Siamo davvero giunti alle note conclusive delle ultime danze sul Titanic: prima del naufragio, il popolo della sinistra attende che, dall’alto della cabina di comando, i manovratori porgano almeno le loro più sentite scuse.

Carlo Dore jr.

giovedì, gennaio 17, 2008


GIUSTIZIA: NO A UN “PARTITO ANTI-TOGHE”


Le dimissioni del Ministro della Giustizia Clemente Mastella hanno riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica il delicatissimo tema dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario, colpevolmente accantonato dall’attuale maggioranza di governo dopo le roventi polemiche che avevano contraddistinto la precedente legislatura.
L’ultimo atto di accusa dell’ex Guardasigilli – che dinanzi alla Camera dei Deputati ha denunciato l’esistenza di una cospirazione messa in atto nei suoi confronti da quelle “frange estremiste” della Magistratura da sempre impegnate nell’attuazione di un progetto eversivo volto a pregiudicare il sereno svolgimento della vita istituzionale del Paese – ha incontrato il totale consenso dei principali esponenti dell’opposizione di centro-destra, dimostratisi ancora una volta implacabili nell’invocare a reti unificate l’approvazione di misure idonee a paralizzare l’azione delle toghe militanti.
Di fronte ad un simile status quo, il buon senso e l’equilibrio che sempre caratterizzano le dichiarazioni di Anna Finocchiaro, la quale ha manifestato la necessità di evitare che “le lancette dell’orologio della Storia vengano riportate indietro di quindici anni”, che l’apertura di una nuova stagione di conflitto tra politica e Magistratura favorisca la restaurazione di quel diffuso clima di sfiducia verso le Istituzioni che si respirava durante gli Anni di fango, non sono sufficienti a cancellare la sottile sensazione di amarezza che tanto l’autodifesa pubblica del segretario dell’Udeur quanto i successivi interventi di Bondi, Fini e Casini hanno destato nell’animo di ogni sincero democratico.
Se da un lato è infatti innegabile che la presunzione di innocenza dovuta a tutti i cittadini non condannati attraverso sentenza passata in giudicato impedisce che gli uomini politici sottoposti ad indagine vengano resi oggetto di processi di piazza e gogne mediatiche, risulta d’altro lato altrettanto innegabile che le garanzie di autonomia ed indipendenza riconosciute dalla Carta Fondamentale ai soggetti appartenenti al potere giudiziario impongono di non bollare come pericolosi eversori quei magistrati i quali legittimamente esercitano le loro prerogative nei confronti dei membri della Casta del potere o dei loro più stretti sodali.
Premesso infatti che, come correttamente rilevato da Marco Travaglio, l’immunità parlamentare non può essere intesa anche in termini di “immunità parentale”, la formazione di un trasversale partito anti-giudici, benedetto dal capo di quella destra affarista ed amorale che (attraverso l’approvazione della legge Cirami e del patteggiamento allargato, della legge Cirielli e del lodo Schifani, della riforma del falso in bilancio e delle altra misure ad personam) ha concorso a tramutare l’Italia in una sorta di Isola della Tortuga collocata nel cuore del Mediterraneo, costituirebbe un macroscopico tradimento delle aspettative di tutti quei cittadini che ancora attendono dall’Unione, in ordine ai grandi temi della giustizia e della legalità, l’attuazione di un concreto progetto di cambiamento.
Ricordando l’entusiasmo del popolo del Palavobis, la straordinaria partecipazione che contraddistinse tutte le iniziative del movimento girotondino e soprattutto lo straordinario moto di orgoglio con cui il Paese intero accolse l’invito a “Resistere! Resistere! Resistere!” scagliato da Borrelli in faccia al Caimano in persona, il centro-sinistra è ora chiamato a preservare l’integrità dello Stato di diritto, a garantire alla Magistratura la possibilità di esercitare le sue funzioni nel pieno rispetto degli equilibri delineati dalla Costituzione, a recuperare la fiducia dei tanti elettori che ancora rifiutano un’idea di politica intesa non come realizzazione dell’interesse generale ma come mero esercizio di potere e privilegi. Se il patto di fiducia tra rappresentanti e rappresentati, tra istituzioni e società civile dovesse incrinarsi ancora una volta, gli anni di fango potrebbero non sembrare poi così lontani.

Carlo Dore jr.

sabato, gennaio 12, 2008


EMERGENZA RIFIUTI: EQUILIBRIO E BUON SENSO.

Mentre scriviamo queste righe, le agenzie di stampa diramano le ultime notizie sulle vicende che hanno caratterizzato gli scontri tra Forze dell’ordine e piccole avanguardie della destra cagliaritana, impegnate in una manifestazione di protesta contro la decisione della Giunta – Soru di autorizzare lo smaltimento in Sardegna di determinati quantitativi di rifiuti provenienti dalla Campania.
Di fronte alla prevedibile batteria di reazioni di politici più o meno illuminati, alla consueta sequenza di “mi lasci finire!”, “non mi interrompa!”, “non alzi la voce!” e “mi consenta!”, appare necessario proporre un’analisi obiettiva (e, come tale, ispirata ai valori dell’equilibrio e del buon senso) della situazione che, ormai da giorni, monopolizza l’attenzione dell’opinione pubblica locale e nazionale.
Come ha correttamente rilevato il Presidente della Provincia di Cagliari Graziano Milia, la vicenda relativa allo smaltimento dei rifiuti campani si è alla lunga tradotta in una disputa tra sostenitori e detrattori di Mr. Tiscali anche a causa della scelta del Governatore - il quale, anche in questa occasione, ha dimostrato di prediligere il decisionismo proprio del freddo manager rispetto ai tempi lunghi che la dialettica istituzionale fatalmente impone – di non coinvolgere i rappresentanti delle comunità locali nella decisione di autorizzare lo smaltimento dei rifiuti in questione negli appositi siti presenti nell’Isola.
Ciò malgrado, seguendo sempre il ragionamento del Presidente Milia, non si può non rilevare come, di fronte ad una situazione di emergenza che rischia di estendersi sull’intero territorio nazionale, la determinazione assunta dai vertici della nostra Regione, diretta a favorire il rapido superamento di siffatta condizione di emergenza, non può che considerarsi ispirata a quei principi di solidarietà e civismo consacrati dalla Carta Costituzionale.
Se si accoglie una simile premessa, la strategia seguita nell’occasione dai principali esponenti del centro-destra appare censurabile sotto molteplici aspetti. In primo luogo, fermo restando il fondamentale diritto di ogni opposizione parlamentare di utilizzare tutti gli strumenti riconducibili alla normale dialettica democratica per ostacolare l’azione della maggioranza, non si comprende come quelle forze politiche che si dimostrano disposte a trasformare una drammatica situazione di emergenza nazionale in una squallida polemica locale – facendo, in certi casi, addirittura prevalere le ragioni della forza sulla forza della ragione – possano proporsi quale credibile alternativa di governo alla coalizione che attualmente sostiene la Giunta – Soru.
Ma soprattutto non si comprende come il ruolo di paladino della dignità del popolo sardo, di difensore dei valori dell’ecologia e della legalità possa essere assunto da quello stesso luogotenente di Berlusconi che, dopo avere accettato di governare la Sardegna eseguendo le direttive che periodicamente provenivano da Palazzo Grazioli e dopo avere assistito indifferente alla distruzione di uno dei tratti più suggestivi della costa cagliaritana, è stato costretto dal giudizio degli elettori a riprendere in tutta fretta la via di Arcore.
E così, mentre gli esponenti di questa destra arrogante e forcaiola, affarista ed amorale prendono le distanze dall’azione dei gruppetti di manifestanti che, al grido di “boia chi molla!”, hanno tentato l’assalto alla residenza privata del Governatore, equilibrio e buon senso sembrano avere una volta per sempre abbandonato il porto di Cagliari, forse imprigionati tra le nuvole di fumo prodotte dagli inceneritori: intanto, la politica sarda è arrivata alla barbarie.

Enrico Palmas
Carlo Dore jr.

venerdì, gennaio 04, 2008


LE “TRE SINISTRE” E LA RICERCA DELL’ALTERNATIVA

Confermando le previsioni dei più attenti commentatori, la nascita del Partito Democratico – lungi dal favorire l’attuazione di quella fase di “semplificazione della politica” più volte richiamata da Fassino nel corso della lunga stagione congressuale – ha alterato profondamente gli equilibri interni alla già di per sé non stabile maggioranza di governo.
Indipendentemente dalle valutazioni proponibili in ordine alle scelte compiute da quelle cellule impazzite del centro moderato che più volte hanno attentato alla stabilità dell’Esecutivo nella prima fase della legislatura in corso, si deve infatti rilevare come la sinistra italiana risulta attualmente spezzata in tre tronconi: il nostro Paese registra in questo senso la colossale anomalia costituita dall’esistenza non già di un fronte progressista unitario, ma di tre diverse sinistre, ciascuna delle quali appare impegnata a perseguire la propria road to perdition.
Aderendo al progetto del PD, la componente maggioritaria dei DS ha coraggiosamente scelto di mettere in discussione la propria identità per favorire l’elaborazione di “un nuovo pensiero per un nuovo secolo”, di “ammainare definitivamente le vecchie bandiere” per “affrontare con rinnovato slancio le sfide quotidianamente proposte da una società sempre più deideologizzata” .
Tuttavia – senza volere in questa sede riaprire la rovente polemica relativa all’attualità delle grandi ideologie che hanno attraversato il ‘900 – il disegno perseguito dai fautori del nuovo riformismo appare inficiato da una contraddizione fondamentale: la creazione di un partito rappresenta per forza di cose il momento conclusivo di un processo costituente lungo e complesso, basato sull’individuazione di una serie di punti di convergenza sulle principali questioni che attengono alla vita del Paese, sulla stesura di un manifesto di valori condivisi, sulla attuazione di un programma di governo coerente con siffatto sistema di valori.
Ebbene, proprio la pretesa di invertire le tappe dell’appena descritto processo costituente, di anteporre la nascita del partito alla predisposizione del substrato culturale su cui il medesimo deve trovare fondamento può essere individuata come la causa scatenante delle continue contrapposizioni tra riformisti e conservatori che già vengono riscontrate all’interno del nuovo soggetto politico sui temi dei diritti civili, della laicità dello Stato, delle riforme istituzionali, della legge elettorale.
Ciò malgrado, se le iniziative di alcuni democratici autentici come Furio Colombo, Gianfranco Pasquino e Nando dalla Chiesa risultano costantemente paralizzate dalla filosofia veltroniana del “ma anche”, mancherebbe evidentemente di obiettività chi al momento riconoscesse alla “cosa rossa” l’idoneità a svolgere quel ruolo di alternativa progressista al PD di cui gli elettori invocano la formazione.
Premesso infatti che l’iniziativa romana del 9 dicembre può al massimo essere definita come un positivo momento di incontro tra militanti pieni di entusiasmo, leader storici lastricati di buone intenzioni, magnifici intellettuali e dirigenti combattuti tra passione politica e necessità di conservare privilegi e rendite di posizione, anche all’interno dell’Arcobaleno l’ aspirazione della (ex) minoranza diessina di procedere alla creazione di una moderna realtà di governo fortemente ancorata ai principi del socialismo europeo rischia di collidere con le valutazioni di quelle frange di Rifondazione Comunista le quali – forti di una organizzazione stabile – hanno più volte manifestato (in particolare, mettendo in discussione un protocollo di intesa approvato a larghissima maggioranza dai lavoratori afferenti alle varie associazioni sindacali) la disponibilità a sacrificare la stabilità della maggioranza che sostiene l’Esecutivo in carica pur di non rinunciare alla loro storica dimensione di “partito di lotta”.
Così, le due sinistre confluite nella “Cosa Rossa” si trovano già di fronte ad un bivio: possono rassegnarsi a dare vita ad un soggetto politico di eterna opposizione, ad una antistorica compagine di nostalgici dotata di scarso peso elettorale e capace di attrarre unicamente i consensi di settori sempre più esigui della società italiana; oppure, possono scegliere di “cambiare pelle” per impegnarsi nella creazione di una nuova forza del socialismo del XXI secolo, in grado di porsi come autorevole interlocutore del PD e di orientare (sulle grandi questioni a cui si è in precedenza fatto riferimento) in senso progressista le scelte de “L’Unione”, nel tentativo di proporre un’alternativa credibile allo strapotere berlusconiano.
La presenza di una forte sinistra di governo rappresenta infatti una necessità per il Paese: quel “fate presto!” con cui si è conclusa la manifestazione del 9 dicembre non rappresenta che l’ennesima conferma della correttezza di questa affermazione.
Carlo Dore jr.