giovedì, aprile 15, 2010



RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E SINDROME DI “DON BASTIANO”

Nelle intenzioni manifestate dai principali esponenti dell'attuale maggioranza di governo all'indomani delle elezioni politiche del 2008, la legislatura in corso doveva assumere i caratteri propri di una “legislatura costituente”: forte di un'ampia base di consenso in Parlamento e nel Paese, il Presidente del Consiglio si proponeva infatti di dismettere i panni del leader di parte per assumere quelli dello statista illuminato, e di procedere ad una serie di riforme di ampio respiro che dovevano riguardare in particolare la materia della giustizia, nel quadro di una complessiva revisione dell'architettura costituzionale.
Questa strategia sembrava peraltro incontrare il consenso di alcuni partiti di opposizione, i quali, in passato, troppo spesso avevano rinunciato a recepire le istanze avanzate da autorevoli settori della magistratura, finendo così con il deludere le aspettative di parte importante del proprio elettorato.
Ciò malgrado, in questi primi due anni, in Italia non ha operato un legislatore “riformatore”; ha operato semmai un legislatore affetto da quella che alcuni commentatori hanno acutamente definito come “la sindrome di Don Bastiano”. Ricordate il personaggio del bellissimo film di Mario Monicelli? Il sacerdote ridotto dal Pontefice in stato laicale che, dinanzi al rifiuto del Papa di restituirgli la tonaca, minacciava di auto-assolversi dai propri peccati?
Ebbene, coinvolto in una serie di procedimenti dall'esito quantomai incerto, il Presidente del Consiglio ha imposto l'approvazione di una serie di leggi volte non a risolvere i problemi della giustizia, ma a paralizzare alcuni processi in corso. Più o meno come Don Bastiano: “i Giudici non mi vogliono assolvere? E io mi assolvo da solo!”.
Ecco quindi approvato in fretta e furia il Lodo Alfano, poi annullato dalla Consulta in ragione dell'esistenza di quei manifesti difetti di costituzionalità più volte denunciati dai principali studiosi del diritto pubblico; ecco la legge sul Legittimo impedimento, la quale può essere definita come l'unico caso di legge ad incostituzionalità autocertificata. Posto infatti che l'interesse al sereno svolgimento dell'attività di governo è interesse di rilevanza costituzionale, lo stesso legislatore ha precisato che la legge de qua cesserà di operare quando lo “scudo” per i processi contro il premier ed i ministri verrà inserito nella Carta Fondamentale. In altre parole: sappiamo che il legittimo impedimento deve essere approvato con legge costituzionale, ma per adesso – finché non riusciremo a mettere mano alla Costituzione, magari con l'appoggio di qualche oppositore dialogante - lo approviamo attraverso una legge ordinaria, pur essendo consapevoli dell'incostituzionalità della stessa.
Tuttavia, in base alle dichiarazioni rese in questi giorni dal Guardasigilli Alfano, la “grande riforma” della Giustizia sta per arrivare, e sarà una riforma basata su due direttrici fondamentali: azzeramento del CSM nella sua configurazione attuale (sezioni disciplinari autonome, divieto di formulare pareri non richiesti, revisione dei criteri di composizione); separazione delle carriere tra giudici e PM, così da imporre agli “avvocati dell'accusa di recarsi dal magistrato giudicante con deferenza e con il cappello in mano”.
Ma, è lecito domandarsi, questa riforma del processo penale contribuisce a risolvere i problemi della Giustizia? Assicura, in altri termini, processi più rapidi, certezza della pena per gli autori di un reato, un più razionale sfruttamento delle (poche) risorse di cui il nostro sistema giudiziario dispone? La risposta è evidente: si tratta (volendo utilizzare le parole di Franco Cordero) non di una riforma della giustizia ma di una riforma dei giudici, di una riforma volta a costringere la magistratura requirente a rinunciare all'autonomia che ad essa è attualmente riconosciuta dalla Carta Fondamentale per abbandonarsi una volta per sempre alla logica del “cappello in mano”.
Ed ecco dunque che un ultimo interrogativo inizia a tormentare il giurista democratico: le forze di opposizione presenti in Parlamento devono accettare l'invito ad aprire un “tavolo delle riforme” con una maggioranza che, risultando più impegnata a tutelare esigenze individuali che ad assecondare l'interesse generale, sembra disposta ad anteporre la “Voce del Principe” alla cultura della legittimità? In altre parole: dianzi ad un legislatore dimostratosi finora affetto dalla sindrome di Don Bastiano, che speranza si può avere di Giustizia?

Carlo Dore jr.

lunedì, aprile 05, 2010


LE TRE VERITA' DEL PD E LA SINDROME DELL'ANATRA AZZOPPATA

All'indomani della sconfitta di Emma Bonino e Mercedes Bresso nella corsa alla presidenza di due regioni “strategiche” come Lazio e Piemonte, è partito l'attacco della minoranza interna del PD alla segreteria di Pierluigi Bersani, la cui leadership rischia di subire dunque un brusco ridimensionamento dopo appena cinque mesi dalle primarie che ne hanno consacrato l'ascesa al vertice del Nazareno.
Mentre quarantanove senatori democratici hanno scritto una lettera al segretario in carica invocando un non meglio precisato “cambiamento d'anima”, Franceschini e Veltroni – sempre in procinto di salpare a vele spiegate alla volta delle coste africane – hanno occupato le prime pagine dei principali quotidiani nazionali per riproporre la loro “visione del riformismo”: riecco dunque tornare in auge il leit motiv della vocazione maggioritaria, dello spirito del Lingotto, del partito gazebo costruito sulla perenne girandola di primarie e doparie. Insomma, l'assalto a Bersani è partito di nuovo, e il PD rischia di trovarsi, per la seconda volta in tre anni, con un leader ridotto alla non facile condizione di “anatra azzoppata”.
Tuttavia, attraverso un'analisi attenta del voto della scorsa settimana, è possibile cogliere tre importanti verità, in cui risiede la principale ragione giustificativa dell'ultima (non clamorosa, ma certamente dolorosa) sconfitta dei progressisti italiani. Prima verità: la sconfitta di cui ora si esaminano cause e proporzioni non deve essere interpretata come una sconfitta del segretario, di cui invece è giusto riconoscere i meriti. Il merito di avere aperto – attraverso il continuo e costante richiamo ai temi del lavoro e delle emergenze sociali – uno squarcio di realtà nel libro dei sogni della politica berlusconiana; il merito di avere cercato di recuperare al PD una fetta di qual voto operaio che, al momento, costituisce una componente decisiva della base di consenso della Lega Nord; il merito di avere, più in generale, iniziato a dare una forte identità progressista ad un partito dalla spina dorsale ancora indefinibile. In altre parole, riprendendo il pensiero affidato da Massimo Cacciari alle pagine di Repubblica, Bersani non ha perso, ma ha limitato i danni; Bersani è ancora un segretario vero, non un'anatra zoppa.
Seconda verità: esiste una profonda spaccatura tra la dimensione “nazionale” del PD – costituita da personalità di alto profilo, in grado come tali di declinare le linee guida della famosa alternativa allo strapotere del Cavaliere – e la dimensione del partito stesso nelle sue articolazioni locali, terra di conquista per l'imperversare dei vari “cacicchi” di cui Gustavo Zagrebelsky ha più volte denunciato l'esistenza. Il PD paga infatti la mancanza (triste retaggio del modello del “partito leggero” di veltroniana memoria) di una struttura organizzativa solida e ramificata, presupposto indispensabile sia per attutire le tensioni, i contrasti ed i personalismi che fatalmente si registrano a livello territoriale, sia per garantire la necessaria continuità programmatica ed operativa tra il vertice ed il territorio.
Terza verità: la mancanza dell'appena descritta struttura organizzativa genera a sua volta due ulteriori conseguenze negative. In primo luogo, essa riduce la capacità dei dirigenti nazionali di interpretare correttamente gli orientamenti che la base assume nelle varie realtà locali, ed espone il partito stesso ai macroscopici errori di valutazione che hanno caratterizzato la campagna per le primarie in Puglia. In secondo luogo, la mancanza del partito strutturato impedisce l'attuazione di un rigoroso procedimento di selezione della classe dirigente, favorendo così– dal Lazio alla Calabria - il tanto anomalo quanto pericoloso fenomeno delle auto-canidature o delle candidature imposte dai potentati locali (e talvolta colpevolmente ratificate dagli elettori attraverso lo sterile passaggio delle primarie dall'esito scontato).
E' l'assenza di una candidatura credibile la causa della sconfitta nel Lazio, con Emma Bonino paracadutata a Roma dalle valli del cuneese grazie alla manifesta mancanza di alternative; è l'assenza di un partito in grado di incidere sulle scelte per la determinazione dei candidati che ha costretto il PD calabrese a garantire il proprio sostegno a Loiero, a discapito di una figura del carisma e dello spessore di Pippo Callipo, capace, da solo, di catalizzare su di sé quasi il 15% dei voti.
Tutto ciò premesso, le tre verità appena enunciate indicano come, respingendo gli assalti di quella minoranza che intende metterne in discussione la leadership, Bersani deve sfruttare il consenso di cui è stato investito da elettori e militanti per procedere alla ricostruzione di un partito serio e credibile, capace di recuperare consensi a sinistra ripartendo dal modello delle sezioni, dei rigidi procedimenti di selezione di dirigenti e candidati, del radicamento sul territorio prima che sui social network e sulla televisione satellitare. In altri termini - al di là delle pulsioni nuoviste e dei richiami al cambiamento d'anima, delle dissertazioni su primarie e doparie –, Bersani è chiamato a costruire il partito dell'alternativa, a svolgere una missione per la quale serve un segretario vero, non l'ennesima anatra azzoppata da una battaglia di potere che sembra non conoscere epilogo.

Carlo Dore jr.