domenica, settembre 13, 2020

RIDUZIONE DEI PARLAMENTARI: UN “NO” COME MONITO DEMOCRATICO

Per la terza volta in quattordici anni, il corpo elettorale viene chiamato ad esprimersi in un referendum oppositivo ad una legge di revisione costituzionale, nel caso di specie relativa agli artt. 56, 57 e 59 della Carta, nella parte in cui determinano il numero dei membri delle Camere.

Rispetto ai precedenti progetti di riforma (che investivano in vario modo l’impianto complessivo della seconda parte della Costituzione), la legge di revisione costituzionale n. 240 del 2019 contiene una modifica specifica del dettato costituzionale, collocandosi così pacificamente, almeno da questo punto di vista, nel percorso indicato dall’art. 138 Cost.

L’insussistenza della criticità costituita dal fatto di costringere l’elettore ad esprimere un voto “a scatola chiusa” su un unico quesito referendario riguardante la revisione di decine di disposizioni della Carta non è però sufficiente per accettare quasi senza colpo ferile l’entrata in vigore di una riforma comunque caratterizzata da molteplici zone d’ombra, di cui costituzionalisti di differente orientamento hanno con forza evidenziato l’esistenza: zone d’ombra riferibili (oltre che ai più volte richiamati profili dell’ingiustificata contrazione della rappresentanza) tanto alla genesi della riforma stessa, quanto all’impostazione di fondo che la caratterizza.

Sotto il primo aspetto, non deve sfuggire come – a seguito della crisi di governo della scorsa estate e della conseguente formazione della maggioranza che sostiene l’Esecutivo in carica – la L. n. 240 del 2019 sia stata approvata in ultima lettura con il voto favorevole di alcune forze politiche che ad essa si erano viceversa opposte nelle letture precedenti, in considerazione del fatto che la “riduzione del numero dei parlamentari” avrebbe dovuto costituire il primo tassello di un percorso riformatore più ampio destinato a trovare il proprio zenit nella nuova legge elettorale, sulla quale però i partiti di governo faticano ad elaborare una soluzione condivisa.

Rilievo, quello appena formulato, che innesca tre ulteriori considerazioni: ancora una volta, la materia costituzionale viene individuata come un punto qualificante dell’indirizzo politico della maggioranza, pur dovendo, per sua natura, risultare estranea ad esso; la riforma costituzionale è di fatto ridotta a termine di un baratto (quello con la futura legge elettorale) ispirato alla logica spicciola del “oggi in contanti/domani a credito”, per forza di cose incompatibile con quel connotato di “compromesso alto tra forze di differente orientamento” che di ogni Costituzione rappresenta il tratto essenziale. Infine, il voto favorevole delle forze che della riforma avevano osteggiato l’approvazione nelle precedenti letture impedisce di ravvisare alla base della stessa una forte idea di democrazia condivisa: e una Costituzione non supportata da un’idea di democrazia condivisa non può che identificarsi in un’aquila dalle ali di cera, destinata, proprio come Icaro, ad un volo breve ed infelice.

Sotto il secondo aspetto (quello dell’ispirazione di fondo), è nota la tendenza del legislatore attuale a considerare il modello parlamentare accolto dalla Carta come un ostacolo da aggirare, se non proprio come un limite da abbattere attraverso l’avventura della revisione costituzionale. Conferma questa tendenza il più volte segnalato abuso, da parte degli Esecutivi alternatisi negli ultimi anni, del ricorso alla decretazione d’urgenza; conferma questa tendenza il modo in cui è stata affrontata, a livello normativo, l’emergenza sanitaria dello scorso marzo.

A prescindere da ogni considerazione sul contenuto delle misure adottate (rivelatesi peraltro efficaci, nel quadro del contrasto alla pandemia), rimane fermo l’utilizzo di un decreto legge e di una girandola di DPCM per incidere su una materia, quella delle limitazioni alla libertà personale dei cittadini, che l’art. 13 Cost. considera coperta da una riserva assoluta di legge: la legge (atto di volontà del Parlamento) superata da altre fonti primarie e secondarie; il dibattito parlamentare descritto come inutile impedimento alla rapida trattazione dell’emergenza; il Governo anteposto al Parlamento come centro di produzione normativa.

Un Parlamento superabile; un Parlamento pletorico; un Parlamento mutilabile: eccolo, il fil rouge che conduce alla riforma costitizionale.

In questa prospettiva, il voto contrario in sede referendaria all’entrata in vigore alla Legge di revisione costituzionale n. 240 del 2019 finisce allora con l’assumere, al netto della specificità del quesito, il pregnante significato di un monito democratico: un monito per le forze di maggioranza, chiamate a non sacrificare l’integrità della Carta sull’altare di esigenze politiche contingenti; un monito soprattutto per il legislatore, affinché riesca finalmente a trovare nei principi della Carta non un limite da abbattere, ma il riferimento principale a cui ispirare la sua azione.

Carlo Dore jr.

giovedì, aprile 30, 2020

L'EMERGENZA DELL'UOMO FORTE


Articolo pubblicato su www.articolo1mdp.it


La scena, costruita a beneficio dell’immancabile diretta Facebook, è quella di una strada intiepidita dal primo sole di una domenica di primavera, nella quale un uomo intima ai pochi ciclisti che hanno colpevolmente deciso di violare la quarantena di riparare il più rapidamente possibile tra le mura domestiche, in ragione dell’incontestabile assunto secondo cui “quelli che sono rimasti a casa non sono mica stupidi”. Quell’uomo non è un carabiniere, un poliziotto, una guardia comunale, un appartenete alle varie forze dell’ordine generosamente mobilitate sul territorio nazionale in questi giorni di quarantena: è il Sindaco di Bari, che richiama i suoi concittadini al rispetto delle regole, strappando like sui social e applausi dai balconi.
Ma quando gli applausi si attenuano, quando i followers decidono di procedere al fatidico “disconnetti”, il tarlo di una domanda inizia ad insinuarsi, nel silenzio imposto dal lockdown: perché il Sindaco di Bari si trova su quella strada intiepidita? A che titolo vuole controllare che “gli sforzi fatti non venissero vanificati”? E se ha ravvisato delle irregolarità, perché non procede a contattare le forze di polizia, invece di affidare la sua sfuriata ai consueti canali social? La risposta, quasi scontata, risiede nelle tre parole che rimbalzano nella testa degli Italiani da quel maledetto nove marzo: siamo in emergenza. Siamo in emergenza, e l’emergenza richiede prese di posizione eccezionali.
E’ dunque l’emergenza che giustifica le parole del Presidente De Luca, giunto ad invocare l’uso dei lanciafiamme verso i trasgressori del divieto di assembramento; è l’emergenza che ispira i cartelloni mediante i quali il Sindaco di Cagliari paventa sciagure in danno dei congiunti di coloro che dovessero cedere alla tentazione di una spesa non necessaria o di una passeggiata malandrina. E’ l’emergenza, in definitiva, che alimenta l’applauso verso le incursioni degli amministratori locali in un territorio, quello della limitazione della libertà personale dei cittadini, che pure l’art. 13 della Costituzione considera blindato da una riserva assoluta di legge, e pertanto sottratto alle determinazioni dell’Esecutivo.
Dobbiamo far rispettare le regole, anche a costo di fare la faccia feroce. Sennonché quella faccia feroce inizia a sua volta a far nascere un dubbio, nell’animo di quanti ancora aderiscono ad un modello di democrazia antitetico rispetto al plebiscito formato social: il dubbio che la logica dell’emergenza stia contribuendo a ridare linfa al culto molto italico dell’Uomo Forte, ad esaltare la mistica del capo carismatico che, costruendo a colpi di applausi, di like e di retweet il proprio personalissimo bacino di consensi, pone ed impone la sua figura al centro della scena.
Sì, la logica dell’emergenza alimenta l’ombra dell’Uomo forte: e con essa il pericolo, per nulla infondato, che quell’ombra non sia disposta ad abbandonare le strade desertificate dalla quarantena quando il maledetto virus avrà esaurito la sua carica letale, pretendendo di scandire, ovviamente in diretta social, i tempi della vita dei cittadini anche in presenza di situazioni meno estreme e meno condivise di quelle caratterizzanti la congiuntura in atto.
Seguendo i mille fotogrammi di cui si compone il film dell’Italia ai tempi del Covid-19, ecco allora che la nostra scena si sposta in un’altra piazza deserta: quella in cui il Presidente Mattarella ha celebrato, con pochi ed essenziali gesti, il suo 25 aprile. La mascherina a rimarcare la necessità di adeguare all’emergenza in atto i più naturali codici di comportamento; parole misurate per esprimere la voglia di riscatto di una Nazione piegata dal peso delle restrizioni.
Gesti e parole che dovrebbero fungere da modello, per gli amministratori affamati di like: uno stile comunicativo più sobrio ed aderente ai parametri di disciplina ed onore indicati dall’art. 54 della Carta è forse più adatto delle tribune social a garantire solidità al legame tra lo Stato e quegli strati della società civile su cui le inevitabili incertezze della politica e i dubbi degli scienziati stanno riversando il peso di una crisi senza precedenti; ad assicurare, al netto delle sfuriate di questa strana domenica di primavera,  che il ritorno alla tanto sospirata condizione di normalità democratica non potrà essere in qualche modo condizionata dall’emergenza dell’Uomo forte.

martedì, gennaio 07, 2020

TRE CONSIDERAZIONI IN MATERIA DI PRESCRIZIONE



L’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di prescrizione del reato contenute nella L. n. 3 del 2019 (mediaticamente nota come “spazza-corrotti”) ha innescato un acceso dibattito che coinvolge operatori del diritto e forze politiche di maggioranza e opposizione, dibattito alimentato dalle considerazioni critiche di quanti ravvisano nell’inoperatività della prescrizione dopo la sentenza di primo grado un vulnus atto ad alterare irreversibilmente gli equilibri del processo penale. Un dibattito, quello sulle norme di nuova introduzione, condito da accenti polemici spesso generati da mere esigenze di parte, che impediscono di ravvisare i punti di forza e le altrettanto evidenti criticità cristallizabili in tre semplici considerazioni, ispirate dalla lettura delle disposizioni in analisi.
La prima: contrariamente a quanto affermato da alcuni commentatori, la prescrizione non rappresenta un istituto a tutela dell’imputato innocente, ma una vicenda estintiva del reato il cui intervento impedisce al giudice di pronunciare nel merito del fatto. Consegue a quanto appena affermato che l’imputato consapevole della propria innocenza ha interesse non a consegnare il processo all’oblio del non doversi procedere, ma ad ottenere una sentenza che, prendendo posizione sul fatto, ne disponga l’assoluzione: un interesse, per certi versi antitetico a quello che la prescrizione tende a realizzare.
La seconda: concepita come un principio di civiltà giuridica volto ad impedire che un soggetto venga chiamato a rispondere per un fatto di reato molto tempo dopo la sua consumazione, la prescrizione si è rivelata, anche a causa della farraginosità della macchina processuale, un “buco nero” capace di inghiottire processi già decisi in primo grado e talvolta anche in grado di appello, vanificando la relativa attività istruttoria e dibattimentale anche quando essa ha portato (come nella celebre vicenda del Senatore Andreotti) all’accertamento della responsabilità dell’imputato nell’ambito del giudizio di merito. Alla norma che impedisce l’intervento della prescrizione dopo il giudizio di primo grado può essere ricollegata un’innegabile funzione deflativa rispetto alle appena richiamate farraginosità della macchina processuale, orientando verso i riti alternativi quegli imputati che, non potendo più contare sul “fattore tempo” per difendersi “dal” processo, perdono interesse ad affrontare la fase dibattimentale.
La terza: “l’ergastolo processuale” – nei termini (prospettati dagli oppositori della riforma) della possibilità per il cittadino di essere perseguito per un fatto verificatosi decenni prima, o di trovarsi sistematicamente invischiato in un processo infinito – di fatto non esiste, giacché le norme di nuova approvazione non permettono né la perseguibilità di un fatto lontano nel tempo, né precludono l’intervento della prescrizione nel corso del giudizio di primo grado. Ravvisandosi gli elementi costitutivi della prescrizione nel decorrere del tempo e nel corrispondente affievolirsi della pretesa punitiva da parte dello Stato, la nuova disposizione mantiene una sua intrinseca con i principi – cardine dell’istituto quando si ragiona in termini di sentenza di condanna: in queste ipotesi, lo Stato ha provveduto entro i termini previsti dalla legge ad accertare la responsabilità dell’imputato; e se l’imputato sceglie di accedere agli ulteriori gradi di giudizio impugnando la sentenza, logica vuole che egli non possa avvalersi della prescrizione per difendersi da un processo che lui stesso ha deciso di tenere in vita.
Poco conferenti, in questo senso, risultano i richiami alla presunzione di innocenza prevista dall’art. 27 della Carta Fondamentale, dato che l’inoperatività della prescrizione nei gradi di giudizio successivi al primo non determinano in alcun modo una anticipazione degli effetti che la condanna è destinata a produrre col passaggio della sentenza in giudicato.
Venendo alle criticità, il discorso sviluppato in base all’ultima delle riflessioni proposte muta radicalmente nel momento in cui la sentenza di primo grado si traduce in una pronuncia di assoluzione, e il processo prosegue in ragione dell’impugnazione proposta dal PM: nel qual caso, una modifica della norma che rende inoperante la prescrizione sembrerebbe quantomai auspicabile, giacché evidenti ragioni di giustizia sostanziale suggeriscono di non tenere l’imputato vincolato senza limiti di tempo ad un processo relativo a fatti rispetto a cui è stato dichiarato estraneo, e destinato a proseguire per volontà del pubblico accusatore.
Infine, sembrano cogliere nel segno quegli orientamenti che palesano la necessità di collocare l’intervento sulla prescrizione nell’ambito di una più ampia riforma dell’intero sistema orientata ad assicurare l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo: una riforma imperniata sulla depenalizzazione dei minori che conducono i Tribunali al collasso e su una altrettanto incisiva revisione degli organici, da attuarsi attraverso l’assunzione di nuovi magistrati e di nuovo personale a supporto. Le nuove norme in tema di prescrizione risultano infatti l’ennesimo prodotto generato dalla tendenza del legislatore a rifuggire le riforme di ampio respiro per concentrarsi su misure isolate e a costo zero, destinate a risultare difficilmente compatibili col sistema nel quale vengono calate, e ad esporsi di conseguenza alla sopra descritta sequenza di accenti polemici ispirati da mere esigenze di parte, che ne rendono difficilmente percepibili criticità e punti di forza.

Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su www.articolo1mdp.it )