domenica, dicembre 18, 2011

ELOGIO DEL MORALISMO

Stefano Rodotà – Laterza Editore – 2011 - pp. 91

«Tra una politica che affonda e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare la moralità delle regole, che è cosa lontanissima da ogni suggestione di Stato etico, trovando in primo luogo il suo fondamento in una politica “costituzionale”. E il moralismo non è la rivolta delle anime belle, la protesta a buon mercato, fine a sé stessa. S’incarna sempre più in azione, e si fa proposta politica».

Insigne giurista e intellettuale da sempre in prima linea nelle grandi battaglie a difesa della legalità e dei diritti fondamentali, Stefano Rodotà regala al lettore 90 pagine dense di riflessioni lucide come cristalli e taglienti come lame affilate. Le riflessioni di uno studioso capace di offrire una visione obiettiva e spietata della realtà che ci circonda, le riflessioni di una mente libera che non ha smesso di credere in una concreta prospettiva di cambiamento, e di declinare tale prospettiva alla luce di una rinnovata tensione verso i valori dell’etica pubblica.

Le riflessioni di un moralista.

Elogio del moralismo” può essere definito “un saggio poliedrico”. E’ innanzitutto il diario di un viaggio: il viaggio di un Paese destinato ad affogare tra le paludi di Tangentopoli e le sabbie mobili del berlusconismo, di un Paese che ha trovato nella politica della “Milano da bere” e del “ghe pensi mì” (brutale svilimento dei principi costituzionali e costante esaltazione del Vangelo degli “uomini del fare”) la propria road to perdition.

Rodotà mette in fila fatti e situazioni, che esamina utilizzando la lente del giurista e che descrive con l’entusiasmo del grande intellettuale. Racconta di come una classe dirigente non degna di tale qualifica abbia cercato di obliterare la linea di confine che separa responsabilità politica e responsabilità penale, al solo scopo di far apparire politicamente (e moralmente) sopportabile ogni comportamento degli uomini di potere in tutto o in parte estraneo all’area del penalmente rilevante. La “questione morale” sparisce così dall’attualità politica, liquidata con poche battute dai tanti scherani del poteri chiamati a presidiare i salotti dei talk - show: l’harem dell’ex Presidente del Consiglio (per sua stessa ammissione, “utilizzatore finale” dei servigi offerti dal personale delle “cene eleganti”)? Politicamente sopportabili perché “non penalmente rilevanti”; l’ascesa delle veline al cuore delle istituzioni? Politicamente sopportabile perché “non penalmente rilevante”; la costante presenza di una variegata pletora di faccendieri, questuanti, menestrelli e barbe finte al piano nobile dei palazzi del potere? Politicamente sopportabile perché “non penalmente rilevante”.

Rodotà ricostruisce e racconta fatti e misfatti della lunga stagione de-costituente di cui è stata oggetto la sempre più traballante Repubblica italiana. Racconta del tentativo di sostituire la forma di governo tratteggiata dalla Carta Fondamentale con un sistema imperniato sulla centralità dell’Esecutivo, di sovvertire il rapporto tra le fonti del diritto attribuendo all’ “arbitrio” della legge - in quanto tale, atto di volontà della maggioranza politica - la regolamentazione di materie (come l’obbligatorietà dell’azione penale o il rapporto tra PM e polizia giudiziaria) al momento coperte dalle disposizioni costituzionali, di sterilizzare gradualmente le garanzie che la Costituzione prevede per tutelare le minoranze contro i possibili abusi della maggioranza politica operante un determinato momento storico.

L’immunità diventa certezza di impunità, il consenso elettorale viene interpretato come fonte di legittimazione di ogni possibile conflitto tra potere pubblico e interessi individuali, la funzione istituzionale snaturata all’interno di satrapie private: la de-costituzionalizzazione appare inarrestabile, anche se il sistema dimostra di non essere privo di anticorpi. Il Presidente della Repubblica ha operato con pazienza a tutela dell’integrità del dettato costituzionale; la Consulta ha fulminato puntualmente l’infinita sequenza di norme ad personam approvate per tutelare la posizione del solito manipolo degli imputati eccellenti, mentre il colpevole silenzio dei partiti sulla “questione morale” ha imposto alla Magistratura il difficile compito di rilevare - oltre alla responsabilità penale degli indagati - anche le responsabilità politiche di una classe dirigente squassata dal vulnus della corruzione.

Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Magistratura indipendente: gli eterni baluardi di una democrazia imperfetta che il ventennio berlusconiano ha in ogni modo cercato di radere al suolo; i primi destinatari di questo potente “Elogio del moralismo”. Proprio in quanto “saggio poliedrico”, il libro di Rodotà non è infatti “solo” il diario di un viaggio attraverso gli anni della stagione de-costituente: è anche un coraggioso appello a tutti quei “partigiani della Costituzione” a cui ha fatto di recente riferimento Antonio Ingroia, a tutti coloro i quali individuano nel “moralismo costituzionale”, nei principi ispiratori della Carta Fondamentale il manifesto del proprio agire politico. Un appello a non rinunciare a “riaffermare prepotentemente la propria identità”, a riflettere sul fatto che «un public committent, un impegno che ci riscatti e ci costituisca come parte attiva di una comunità politica, non può nascere soltanto da una registrazione di rapporti di forze. Deve essere sorretto dai fuochi che possono sprigionarsi dalla trasformazione dei principi costituzionali in una spinta insieme politica e morale, che riscatti tutti dalla “stanchezza civile” e renda ineludibile quell’inflessibile controllo di legalità che è la sola via per evitare che tutti, nella politica siano considerati perversamente eguali. Quando si associa alle virtù civiche, il moralismo diventa una potente risorsa, che vale la pena d’impiegare con convinzione» .

Carlo Dore jr.

mercoledì, novembre 02, 2011

TRA GRAMSCI E STEVE JOBS:
IL MONDO SENZ’ANIMA DI MATTEO L’INDIFFERENTE

Un mio intervento pubblicato il 2 novembre 2011 sul sito www.liberiasinistra.it


“Odio gli indifferenti”, scriveva Gramsci nel lontano nel lontano 1917. “Domando conto a ognuno di loro come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e di ciò che non ha fatto”. Chissà se l’eco di queste parole ha sfiorato la mente di Matteo Renzi, mentre sorrideva dal palco della Leopolda, addobbato per la grande occasione come il set di una fiction da prima serata.

Il pc di ultima generazione fa la sua figura sul tavolo di ciliegio, tra il cesto di frutta e il frigorifero stile vintage; l’i-pad inonda la rete di messaggi al curaro: Bersani è vecchio; Bersani è superato; i partiti sono sovrastrutture vuote e obsolete, ennesimo retaggio di un passato che non c’è più. Gramsci? Non ci appartiene: che rilevanza può avere Gramsci nel mondo di Bill Gates e Steve Jobs?

Matteo si muove come il primo Obama, interagisce col pubblico come il Berlusconi del miracolo italiano, snocciola concetti semplici come il Veltroni del Lingotto, abbellite da uno slang toscaneggiante degno degli esordi di Pieraccioni. Matteo bacchetta i sindacati e i lavoratori fannulloni, esalta Marchionne come il modello di riferimento per l’economia del mondo nuovo. La confezione esalta le pulsioni nuoviste dei rottamatori di vario ordine e grado: piace ai delusi della Lega nord, non è sgradita al centro cattolico, miete consensi tra i mo-dem, riceve l’ennesima benedizione da Berlusconi in persona. Il prodotto, invece, fa storcere il naso ad una parte dell’opinione pubblica: Renzi difende il capitale, Renzi è lontano dal mondo del lavoro, Renzi è di destra. Matteo fa l’indifferente: son di destra? E chi se ne frega! Alla fine, anche destra e sinistra sono categorie obsolete.

“Odio gli indifferenti, odio chi non parteggia!”. Matteo continua a giocare con l’i-pad, mentre Bersani tuona: “mettiti a disposizione del progetto, non scalciare per avere spazio!”; Matteo risponde con una boccaccia, ed incassa l’applauso di Baricco e del creatore dei Gormiti: la convention è stata un successo, la lunga marcia di Matteo il rottamatore è appena cominciata. Eppure, tra i duemila della Leopolda inizia a serpeggiare il dubbio che a Matteo manchi qualcosa: c’è un bug nel sistema, il regista ha dimenticato uno strofinaccio sul set.

Cosa manca a Matteo? Manca la direzione da seguire, le certezze che appartengono solo a chi proviene da una certa storia, ed è dunque in grado di portare avanti quel processo di rinnovamento che la Storia ha tracciato. E’ la differenza tra nuovismo e progresso, tratteggiata su “L’Unità” dal filosofo Massimo Adinolfi; è l’assunto secondo cui il futuro non esiste se non trova radici nel passato.

L’I-pad si scarica in fretta, si spengono le luci sul set, Matteo è rimasto solo sul palco della Leopolda: dov’è il progetto politico di ampio respiro? Dove sono le soluzioni coraggiose sui temi nevralgici del lavoro, dei diritti, della giustizia, della legalità? Che film ha in testa il regista di Renzi? Silenzio. Matteo prova a fare l’indifferente, continua a discettare di asili nido e banda larga dinanzi all’ecatombe di un Paese che muore, strangolato da una crisi economica senza precedenti, ma è rimasto solo. Solo senza un’identità da proporre, solo senza un progetto da declinare, solo al centro di un mondo senz’anima.

Sono lontani Bill Gates e Steve Jobs, icone pop di una generazione che fatica a trasformarsi in classe dirigente; è lontano Sergio Marchionne, testimonial consapevole di un sistema che vorrebbe superare la crisi eliminando le tutele e facilitando i licenziamenti. E allora, cosa resta? Resta Gramsci, che continua a parlare da quel passato che Renzi vorrebbe cancellare con due comandi del suo i-pad: “Una generazione che deprime la generazione precedente non può che essere meschina e senza fiducia in sé stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza”. Rottamazioni minacciate e cercate, pose gladiatorie declinate con uno stile che gravita tra “Amici miei” e “I laurerati” , aspirazioni di leadership di un leader senza progetto: sono le componenti del mondo di Renzi, che guarda al futuro, che è indifferente al passato e che preferisce la biografia di Steve Jobs alle riflessioni di Gramsci. Gramsci che odiava gli indifferenti, e che non faticherebbe a individuare i limiti del mondo senz’anima di Matteo il rottamatore.

Carlo Dore jr.

lunedì, ottobre 17, 2011

DALLA SOCIALDEMOCRAZIA AL “PROGRESSISMO PLURALE”: PROBLEMI E PROSPETTIVE DELLA NUOVA BAD GODESBERG.

Un mio intervento pubblicato oggi, 17 ottobre, sul sito www.liberiasinistra.it


In un lungo articolo pubblicato su “Il Riformista”, Massimo D’Alema si interroga sulle prospettive della socialdemocrazia nell’epoca della crisi globale: in un’epoca che pone le forze socialiste dinanzi alla drammatica alternativa tra eclissi e rilancio.

Muovendo dall’analisi di alcuni momenti della stretta attualità politica (la vittoria della coalizione tra verdi e liberali in Danimarca; le primarie per designare il candidato socialista all’Eliseo; il progetto di una coalizione tra Verdi ed SPD in Germania), l’ex Presidente del Consiglio rileva come il modello socialista appaia di per sé insufficiente ad affrontare le sfide della modernità, e ritiene che le forze socialdemocratiche siano pertanto chiamate a ripensare sé stesse nel quadro di un più ampio “progressismo plurale”, capace di attrarre sia alcune componenti del cattolicesimo democratico, sia quelle realtà (come i Democratici americani; i progressisti brasiliani o il Partito del Congresso indiano) per forza di cose estranee rispetto alla tradizione del socialismo europeo.

La strategia indicata da D’Alema presenta una serie di evidenti punti di contatto con la situazione politica in Italia, dove, una volta certificato il fallimento della “vocazione maggioritaria” teorizzata da Veltroni nel 2008, la creazione di un “Nuovo Ulivo” – e cioè di un’ampia coalizione democratica, costituita da forze di ispirazione cattolica, ambientalista e più marcatamente progressista – appare come l’unica strada praticabile per superare una volta per sempre l’egemonia berlusconiana.

Ma proprio i riferimenti alla realtà del nostro Paese impongono la formulazione di due interrogativi, riferibili ad alcuni snodi fondamentali della riflessione dalemiana: in quali fattori risiedono le cause della “crisi di identità” della socialdemocrazia, da cui deriva la necessità di accelerare il percorso verso il progressismo plurale? E, soprattutto, quale ruolo i socialisti dovranno assumere in questo rinnovato campo di azione?

Venendo al primo dei quesiti appena prospettati, le “critiche da sinistra” recentemente mosse al modello socialdemocratico non appaiono del tutto prive di fondamento: la “crisi” di tale modello inizia a manifestarsi proprio nel momento in cui – per avviare una non ben precisata fase di rinnovamento, di fatto ispirata dall’esclusiva esigenza di intercettare il consenso dell’elettorato moderato- i partiti che della sinistra democratica costituivano la spina dorsale (penso tanto ai DS e poi al PD in Italia, quanto alla stessa SPD in Germania) hanno rinunciato ad individuare nelle materie dell’uguaglianza, della giustizia sociale, della tutela dei diritti dei lavoratori, della legalità e della questione morale i punti centrali del loro programma di governo, preferendo inseguire le forze conservatrici sul piano della tutela del capitale e della contiguità rispetto alle realtà espressione del potere economico.

Questa stagione “moderatizzatrice” ha prodotto due conseguenze essenziali: da un lato, ha contribuito a creare quel vuoto di rappresentanza più volte denunziato dall’elettorato progressista in tutta Europa; d’altro lato, ha permesso ad alcuni pallidi esponenti delle aree radical (a lungo relegati nel grigiore della minorità) di candidarsi a riempire quel vuoto, spesso agitando ossessivamente le effimere bandiere del rinnovamento e del ricambio generazionale.

L’affermazione appena proposta costituisce l’antecedente logico necessario per affrontare il secondo interrogativo a cui si è in precedenza fatto riferimento: se è vero che le forze socialiste sono chiamate ad una sorta di “nuova Bad Godesberg”, ricollocandosi nell’area del progressismo plurale e globale, è altrettanto vero che le stesse forze socialiste non possono limitarsi a subire questo processo di aggregazione. Esse sono infatti tenute a porre al centro di questo vasto campo di forze quei valori (giustizia sociale, eguaglianza e questione morale) che da sempre fanno parte del patrimonio della sinistra democratica; ad attribuire a questo sistema di valori il rilievo e l’attualità smarrita negli ultimi anni; ad evitare, in altri termini, che il “progressismo plurale” si traduca nell’ennesima concessione della socialdemocrazia alle istanze del moderatismo o del nuovismo “radical” che quotidianamente pervade parte della politica italiana.

La consapevolezza degli errori commessi e la chiara individuazione dell’obiettivo da perseguire devono accompagnare i progressisti di tutto il mondo di fronte a questa “nuova Bad Godesberg”, ad un tornante della storia che davvero propone l’alternativa tra eclissi e rilancio.


Carlo Dore jr.

lunedì, settembre 26, 2011

“SILVIO MACBETH” E LEPORELLO: TRAGEDIA E OPERA BUFFA.


In una fresca serata dell’estate del 2009, Silvio – Macbeth dispensava sorrisi e battute da camerata ai giornalisti che gremivano la sala stampa dell’arsenale de La Maddalena, incurante dell’imbarazzato sgomento con cui il povero Josè Luis Zapatero assisteva all’interminabile soliloquio dell’imprevedibile collega italiano.

La reggia del Dunsinane berlusconiano risplendeva ancora della favola dei miracoli dispensati tra i rifiuti di Napoli e le macerie de L’Aquila, e la scelta del princeps di trasferire il G8 dal nord della Sardegna al capoluogo abruzzese appariva come una manifestazione di efficientismo decisionista talmente eclatante da tenere lontane le tenebre del bosco di Birnam, alimentate dalle dichiarazioni di Veronica Lario, dai sorrisi flautati di Noemi Letizia, dall’apparizione della D’Addario sul lettone di Putin. Bertolaso era ancora l’alfiere della politica del fare, Tremonti lo sciamano che aveva saputo aggirare lo spettro della crisi globale grazie alla formula magica di provvedimenti come la Robin Tax e la social card: Silvio – Macbeth poteva godersi la luce della sala del trono, le streghe potevano aspettare in anticamera insieme ai PM neutralizzati dal Lodo Alfano.

“E Tarantini? Chi è Tarantini”, osava chiedere al premier uno sfrontato giornalista di “El Pais”. “Questo Tarantino o Tarantini è stato qualche volta ospite delle mie cene eleganti. Di fatto, non lo conosco”. E via, con la vecchia fola del tombeur de femme che non pagherebbe mai una donna per non rinunciare (ipse dixit) al “piacere della conquista”. Mentre Zapatero cercava una caravella che facesse vela per la Spagna, liberandolo da quel tourbillon di vanità non celate e gags degne del Bagaglino, il cronista del Pais non riusciva a reprimere un sorriso al vetriolo: a lui la storia delle “cene eleganti” proprio non era andata giù, di quel Leporello barese pronto a squadernare un vasto catalogo di bellezze disponibili ad allietare il riposo del potente Don Giovanni si sarebbe sentito parlare ancora. Proprio come Macbeth: domani, domani e domani.

Due anni dopo, Silvio – Macbeth è chino sugli scranni di Montecitorio, a contare i voti che servono per strappare l’ennesimo luogotenente della sua truppa all’inferno delle manette: le streghe si sono stufate di fare anticamera, i rami del bosco di Birnam avvincono la reggia di Dunsinane in una sorta di abbraccio mortale, disvelando giorno dopo giorno la radicata rete di escort, yes-man, faccendieri, cortigiani e cortigiane che per anni ha alimentato il mito del “ghe pensi mì”. Nel miracolo non crede più nessuno, la tragedia italiana prende forma sulle pagine dei quotidiani internazionali: Bertolaso è sotto processo insieme agli altri contitolari del “sistema gelatinoso” della protezione civile, accusato di una serie di fatti di corruzione consumati tra la casa di via Giulia, i massaggi del Salaria Sport Village e le risate che i vertici della “cricca degli appalti” opponevano alla disperazione di quanti vedevano la propria vita sbriciolarsi sotto l’incubo della terra che tremava. Tremonti balla tra i numeri di mille manovre come e più del suo imitatore Guzzanti, mentre industriali, sindacati, opposizioni e istituzioni internazionali gridano all’unisono il proprio sconcerto dinanzi a scelte di politica economica poco eque e poco logiche.

E Leporello “Tarantino o Tarantini”? E’ in carcere, sommerso da una montagna di intercettazioni che confermano la continuità dei suoi rapporti col Sovrano, dal quale esigeva danaro e favori per riempire di bellezze le varie Dunsinane sparse per la Brianza. Appalti, strette di mano, lodi, immunità, notti brave, istituzioni ridotte a mero strumento di esercizio di un potere senza controllo: pallida caricatura dell’eroe shakespeariano, Silvio – Macbeth tenta l’ultima difesa, facendo apparire sé stesso come un benefattore dal portafogli sempre aperto, e Leporello “Tarantino o Tarantini” come un padre di famiglia disperato e prossimo all’insano gesto, ridotto sul lastrico dalle trame del solito manipolo di giudici comunisti.

“Faccio il premier a tempo perso”, la “patonza deve continuare a girare”: è troppo, le tristi atmosfere della Scozia non meritano di essere accostate ai contorni trash di questa commedia all’Italiana. Le streghe si allontanano sdegnate, si ritirano anche gli alberi del bosco di Birnam: la tragedia si è definitivamente trasformata in un’opera buffa. Nel salone di una delle sue tante Dunsinane, Silvio-Macbeth è rimasto da solo, disperatamente abbarbicato a quel che resta del trono. Medita sulla riforma della giustizia, tuona contro l’uso barbaro delle intercettazioni, chiama a raccolta le sue truppe per la campagna del 2013: gli risponde solo l’eco della risata del giornalista del Pais, nel ricordo di quella conferenza a La Maddalena. Quel giornalista aveva capito tutto: che il miracolo non esisteva, che la fine del regno era prossima, che Berlusconi e il suo giovane organizzatore di “cene eleganti” erano solo due aspetti di un’unica, deprimente realtà. Silvio - Macbeth e Leporello “Tarantino o Tarantini”: tragedia e opera buffa.

Carlo Dore jr.

venerdì, settembre 16, 2011



TRA LUCI ED OMBRE, A PESARO NASCE UN LEADER?

Pesaro accoglie Pierluigi Bersani in una piazza inondata di luce e di bandiere, con i manifestanti che si dividono i pochi spazi all’ombra del palco e del grande palazzo con l’orologio. Il Segretario sorride e regala una di quelle battute che avrebbero fatto felice il suo imitatore Crozza: “O Ragazzi, siam mica qua ad abbronzarci al comizio?”. Il popolo democratico ricambia il sorriso e batte le mani: le rottamazioni di Renzi sono lontane, così come le narrazioni di Vendola e gli “I care” di Veltroni. Bersani parla una lingua diversa: non è un rottamatore né un narratore, è un dirigente della vecchia scuola chiamato ad elaborare un’alternativa di governo.

Alcuni commentatori assiepati sotto il palco affilano la penna nell’inchiostro della polemica: malgrado la luce di Pesaro, lunghe ombre oscurano la leadership dell’ex ministro del governo Prodi. Il caso-Penati ha lacerato la base come ai tempi dell’affaire Unipol, la minoranza interna si prepara all’ennesimo redde rationem, mentre i sostenitori della politica new age mugugnano inferociti: Bersani è debole, Bersani è logoro, Bersani è l’apparato che non muore mai. Cambiamento, rinnovamento, “partito leggero” tra facebook e gli I-pad.

Bersani sorride, e parla: parla di un’Italia spinta sull’orlo del precipizio di una crisi senza ritorno dalla deriva egocratica di un premier asserragliato nella stanza del potere, oppresso dal terrore di affogare nell’ingestibile circuito di interessi privati, starlette, faccendieri, veline e calciatori con cui per anni ha alimentato la logica del “ghe pensi mì”; parla di un sistema politico impegnato giorno e notte ad elaborare soluzioni per le personali pendenze del Princeps, e dunque non in grado di avviare quelle riforme strutturali di cui il Paese avverte disperato bisogno. Non è più tempo di dialoghi e di mediazioni, la voce del Segretario si unisce al grido della Piazza: “Dimissioni! Dimissioni!”

Bersani parla: parla del partito che ha in mente, fortemente radicato nella galassia delle forze progressiste europee; parla di un partito strutturato e presente sul territorio, in grado di assolvere la sua tradizionale funzione di catena di collegamento tra società ed istituzioni; parla di un partito collocato al centro di una vasta alleanza riformatrice, di un nuovo Ulivo capace di traghettare l’Italia oltre le secche del populismo berlusconiano; parla di un partito della Costituzione, di un partito della Resistenza, di un partito del 25 aprile. La riforma della politica è al centro del progetto: la cultura della diversità non costituisce un tratto cromosomico, ma rappresenta una regola di condotta che deve ispirare l’azione di una forza politica erede della grande tradizione della sinistra italiana.

Buona politica, diversità, etica.

Già, l’etica. Bersani si ferma, prende fiato, guarda la piazza ed il grande orologio: non può nascondersi dietro una battuta alla Crozza, è consapevole di quanto il fantasma di Penati, l’eco del sistema-Sesto e delle vicende di Serravalle stiano mettendo in pericolo la sua leadership. Le parole del Segretario arrivano, altro spiraglio di luce che allontana le ombre: non pretende sconti per un suo dirigente sottoposto a procedimento penale, chiede alla magistratura di accertare al più presto la verità dei fatti, si aspetta un passo indietro dagli esponenti democratici coinvolti in inchieste politicamente sensibili. Ma deve difendere il buon nome del Partito dalla logica del calderone, dal teorema di quanti sostengono “tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera”, nella consapevolezza del fatto che se Berlusconi avesse fatto un passo indietro ogni qualvolta è stato coinvolto in un’indagine avrebbe rapidamente coperto la distanza tra Roma ed Arcore.

E mentre gli applausi si disperdono nella luce che cala, le parole di Bersani richiamano il ricordo di Mino Martinazzoli, autorevole esponente di quel cattolicesimo democratico lontano anni-luce dalle logiche del CAF; di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica caduto sotto i colpi della camorra; e soprattutto di quello splendido, indimenticato ed indimenticabile Enrico Berlinguer, e del suo progetto di ricondurre i partiti alla loro naturale collocazione di strumento preposto “alla formazione della volontà politica della nazione, interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni”.

Il discorso del Segretario si avvia al termine, i militanti arrotolano le bandiere ed abbandonano la piazza, ormai stabilmente occupata dalle ombre della sera che incombe. Eppure, l’eco degli applausi continua a rimbombare tra i palazzi di Pesaro, spingendo sempre più lontano le rottamazioni di Renzi e le narrazioni di Vendola. Ed anche i più strenui sostenitori della politica new age iniziano ad avvertire un dubbio, da condividere tra facebook e gli I-pad: forse, in questo strano gioco di ombre e luci, tra le battute alla Crozza e le stoccate a Berlusconi, tra la ricerca dell’alternativa ed il ricordo di Berlinguer, vale la pena di credere che il centro-sinistra abbia davvero trovato il suo leader.

Carlo Dore jr.

martedì, settembre 13, 2011

IL FUNAMBOLO TRISTE

Nella cornice dorata di un importante vertice parigino, il Funambolo triste propone alla stampa internazionale la consueta maschera fatta di sorrisi da venditore e ruggiti da caimano, immancabile substrato scenico del numero volto ad identificare nei giornali “di sinistra” e nell’opposizione “criminale ed anti-italiana” il vulnus che paralizza un Paese senza più fiato.

I cronisti di tutta Europa prendono nota, e si scambiano sguardi sempre più perplessi: l’opinione pubblica del Vecchio Continente è infatti concorde nel descrivere l’Italia come una zattera che si trova al centro della tempesta del secolo, affidata ad un nocchiero senza bussola ed ebbro di potere e privilegi: una zattera destinata ad affondare nel gorgo di un debito pubblico incontrollabile, arenata nelle secche di una crescita inesistente, saccheggiata senza ritegno da una variegata compagine di cricche di varia composizione ed estrazione, che fino a ieri banchettavano impunemente alla tavola del Sovrano. Il timone gira a vuoto, il naufragio è prossimo: che fa il nocchiero?

Ai dubbi di Bruxelles, alle istanze della BCE, il premier contrappone il gioco del funambolo triste: tenta di annacquare le indegne parole che emergono dai brogliacci delle sue conversazioni notturne nella minaccia di una nuova riforma delle intercettazioni; tratta le tasse come i fazzoletti colorati che scompaiono nel cappello del prestigiatore; esalta per l’ennesima volta la sua fama di protagonista indiscusso delle “cene eleganti” consumate tra la magione di Arcore e le dependance dell’Olgettina.

Ma le luci si spengono, il numero volge al termine, il sorriso del funambolo si spezza in un’impietosa rete di rughe, la sua mano è stanca e malferma. Cade il contributo di solidarietà, non si toccano i capitali scudati, la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione delle province viene consegnata alle Calende Greche di un’improbabile riforma costituzionale. Niente determinazioni da “socialismo reale”, niente “tasse alla Visco”: l’approvazione delle misure “lacrime e sangue” spetta all’opposizione criminale. Le onde continuano, Tremonti annaspa, la Lega tuona dal pratone di Pontida: chi deve gestire la politica economica di questo povero Paese? Chi deve guidare l’Italia fuori dalla bufera?

E’ colpa dell’opposizione anti-italiana, del sindacato irresponsabile, della stampa catastrofista. Dal palco della Festa di Pesaro, Bersani ascolta e scuote la testa: la dimensione del funambolo triste proprio non gli appartiene. Alle ombre che si allungano su pezzi importanti del suo partito risponde con serena fermezza: non ci sono privilegi, si accerti la verità, e chi ha sbagliato paghi; alla crisi che incombe, oppone misure ispirate a buon senso ed equità: tassazione dei capitali rientrati in Italia grazie allo scudo fiscale, tassazione dei grandi patrimoni immobiliari, tracciabilità dei pagamenti, concreta razionalizzazione dei costi della politica; alle critiche di alcuni autorevoli commentatori, replica con un semplice: ragioniamo insieme. Rigore, onestà, concretezza dialogo: sono i pilastri sui cui è costruita l’alternativa democratica, le coordinate della rotta per portare la zattera in acque sicure. Rigore, onestà, concretezza, dialogo. Parte implacabile la contraerea del centro-destra, affidata alle note di Gasparri e Cicchitto: morte alla demagogia post-comunista, l’opposizione e la CGIL lavorano solo per la crisi di governo.

Sulla conferenza stampa cala il sipario: i cronisti dei principali quotidiani europei spengono i computer, chiudono i taccuini e guadagnano rapidamente l’uscita della sala: il numero del funambolo triste ha un brutto sapore di già visto. Cicchitto e Gasparri, il pratone di Pontida, le tasse che compaiono e scompaiono, gli attacchi all’opposizione: la loro opinione iniziale appare sempre più corretta, l’Italia naufraga sotto la guida del nocchiero ebbro e disorientato, affonda sotto le invettive del funambolo triste. Le misure lacrime e sangue spetteranno alla sinistra irresponsabile: per ritrovare la rotta dopo il momento buio, per riportare la zattera fuori dalla bufera.

Carlo Dore jr.

domenica, agosto 28, 2011

“NEL LABIRNTO DEGLI DEI – STORIE DI MAFIA E DI ANTIMAFIA”

A. Ingroia, Ed. ilSaggiatore – Milano, 2010, pp. 181, E 15,00


Questa è una “storia di mafia e di antimafia”, un dettagliato resoconto della recente storia giudiziaria d’Italia tratteggiato dalla penna di uno dei principali protagonisti della lotta a Cosa Nostra. Magistrato da sempre impegnato tanto nell’attività di contrasto alla criminalità organizzata quanto nelle grandi battaglie civili a difesa dei principi di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e di autonomia dell’ordine giudiziario rispetto al potere politico consacrati nella nostra Costituzione, Antonio Ingroia ricostruisce i fatti principali della sua esperienza presso le Procure di Marsala e Palermo attraverso il richiamo ad una serie di singole storie: le storie di verità accertate e negate, di vicoli ciechi e squarci di luce, di porte che si aprono e si chiudono, come in ogni labirinto degno di tale nome. Sono storie di donne e di uomini, di eroi e di sicari, di pentiti e di persone per bene, di lacrime e di fango, di tribunali e di palazzi del potere: sono le storie che vanno a costituire l’inestricabile reticolato lungo il quale si dipana il Labirinto degli Dei.

Ingroia ricostruisce e racconta: racconta della profondità dello sguardo di Giovanni Falcone mentre sondava gli imperscrutabili abissi dell’omertà mafiosa, e della corsa a sirene spiegate verso il rogo di Capaci, tra le lacrime per la scomparsa di un amico e la disperazione che accompagna un destino percepito come maledetto ed ineludibile. Racconta del coraggio e della travolgente umanità con cui Borsellino interpretava il suo ruolo di giudice istruttore e di pubblico ministero impegnato nelle indagini sui rapporti tra cosche e colletti bianchi, opponendo la forza di un sorriso e della battuta “Io il Procuratore sono” alla minaccia nera di un pericolo sempre incombente, concretizzatasi in un maledetto pomeriggio di luglio in via d’Amelio, tra il calore dell’asfalto, l’odore acre del tritolo, lo spettacolo orribile di una città ferita a morte da un nemico invisibile. Racconta di Tommaso Buscetta, pentito istrionico e tagliente nonché testimone diretto del conflitto tra il tradizionalismo criminale della “mafia perdente” di Stefano Bontate e la ferocia sanguinaria dei “viddrani” discesi da Corleone. E racconta di Rita Atria, giovane collaboratrice di giustizia morta suicida all’indomani dell’attentato a Borsellino, alla quale la Mafia aveva tolto il padre, il fratello ed al fine anche “il suo giudice”, lasciandola sola sotto il peso di una disperazione insopportabile.

Ma Ingroia non è il solo il testimone privilegiato dei momenti di una stagione lontana, un cronista dei giorni di fuoco in cui Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato. No, il suo racconto è stretta attualità, perché ancora nessuno è riuscito a trovare la via verso l’uscita dal Labirinto degli Dei. E così, nel buio di quelle strade dalla destinazione incerta, capita di incrociare Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza – protagonisti di una nuova stagione di antimafia della quale non è ancora possibile conoscere l’epilogo - , Tanino Cinà e Vittorio Mangano – “testa di ponte della mafia al nord” a cui gli improvvidi eredi dei detrattori di Falcone e degli altri “professionisti dell’antimafia” hanno inopinatamente concesso la patente di eroe – e persino un uomo di potere come Marcello Dell’Utri.

Già, Dell’Utri: in questa storia di labirinti e di verità cercate, trovate o negate, Ingroia imbocca una strada che lo conduce fino al portone principale di Palazzo Chigi, fino alla sala del trono di Silvio Berlusconi, dove l’attuale Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo si reca, nel novebre del 2002, per chiedere aiuto al Presidente. Aiuto per gettare un salutare fascio di luce su "dubbi, incertezze, ombre e buchi neri", aiuto per chiarire "l’origine dei suoi rapporti con Dell’Utri, la conoscenza e l’origine dei suoi rapporti con Mangano, e le sue mansioni, quando ebbe notizia delle sue “relazioni pericolose” con Cosa Nostra, la storia e le ragioni del suo licenziamento, le origini dei suoi rapporti con Tanino Cinà e quelli con il finanziere Filippo Alberto Rapisarda". Ma soprattutto, aiuto per spazzare via i "tanti misteri, gli apparenti “buchi neri” sulle origini del suo impero finanziario, le risultate opacità di taluni flussi di denaro in contanti, in entrata nelle casse del gruppo Fininvest" .


Quella domanda è rimasta in sospeso per alcuni lunghissimi secondi, prima che il Presidente, su consiglio dei suoi legali, decidesse di opporre ad essa la classica formula "mi avvalgo della facoltà di non rispondere", per poi sparire, lasciando dietro di sé il consueto strascico di polemiche sull’uso politico della giustizia e sulla necessità di una riforma volta a “normalizzare” le toghe militanti ed a garantire ai titolari di cariche di governo il sereno svolgimento della loro funzione. Un'altra porta che si apre e che si chiude, un’altra fuga verso la luce destinata a morire in un vicolo cieco. Ma, del resto, questa è la storia di un labirinto: del dedalo incomprensibile da cui è composto il Labirinto degli Dei.



Carlo Dore jr.

sabato, agosto 20, 2011

GALGENHUMOR: UMORISMO DA PATIBOLO.

(Un mio intervento pubblicato su Sardegna24 del 20 agosto 2011)

In una strana domenica di metà agosto, mentre le fibrillazioni dei mercati tengono con il fiato sospeso le principali potenze occidentali, Silvio Berlusconi si concede la consueta passeggiata per le vie di Porto Rotondo, alla ricerca dell’applauso con cui la solita (ed invero, sempre più sparuta) pattuglia di sostenitori accompagna il pasillo del princeps attraverso i vari palcoscenici che compongono il suo mondo dorato. Le cronache dal Paese reale, le incertezze di Tremonti, gli sberleffi di Bossi, i musi lunghi di Brunetta non sembrano interrompere l’eco di quell’applauso: Berlusconi ostenta polo giovanile e pull-over coordinato, dispensa sorrisi e strette di mano, ripropone il repertorio dei momenti migliori: “il consenso ce l’ho io, gli Italiani mi applaudono perché sono con me”.

Eppure, alla vigilia dell’approvazione di una manovra economica dai contenuti ancora incerti e dai molteplici profili di criticità - fulmine che precede il temporale di un’altra stagione di “lacrime, sangue e sacrificio” –, l’ottimismo del premier sembra risolversi in quello che Franco Cordero ha brillantemente definito galgenhumor, ovvero umorismo da patibolo. Berlusconi sorride dinanzi al patibolo di un Paese sfibrato, orfano di una guida politica autorevole, disarmato dinanzi alla minaccia della crisi che incombe; Berlusconi sorride dinanzi al patibolo di un Paese tradito, saturo di promesse non mantenute, ormai insensibile al doping del “miracolo italiano” somministrato in dosi da cavallo dagli house organ di Cologno Monzese; Berlusconi sorride dinanzi al patibolo di un Paese esausto, dal quale si eleva come un sospiro di liberazione il grido “dimissioni! dimissioni!”

La batteria degli oplites riuniti in tutta fretta sull’uscio di Palazzo Grazioli non esita a far partire il suo coro a bocca chiusa: non si possono imputare al Governo italiano le conseguenze di una negativa congiuntura internazionale, una crisi politica finirebbe solo con l’alimentare la sfiducia dei mercati e le conseguenti incursioni dei professionisti della speculazione.

Le opposizioni, questa volta, non sembrano però disposte a chinare la testa, e denunciano come, per tre lunghissimi anni, l’Italia si è limitata a contrapporre allo spettro di questa infelice congiuntura il galgenhumor del Presidente, che negava l’esistenza della crisi sbandierando i dati relativi ai consumi di cosmetici, che invitava i cittadini a boicottare i giornali “dispensatori di catastrofismo”, che affermava di poter risollevare le sorti dell’economia sarda attraverso una semplice telefonata all’amico Putin. Nel frattempo, l’attività parlamentare veniva fossilizzata nell’approvazione dell’immancabile ridda di leggi ad personam e leggi ad aziendam (in gran parte, fulminate dalla scure della Corte Costituzionale), l’equilibrio tra i poteri dello Stato risultava vulnerato dalla costante intimidazione nei confronti della magistratura requirente, e il conflitto sociale raggiungeva lo zenit anche a causa della ricerca di visibilità condotta da ministri con l’aspirazione del premio Nobel.

Ora che il miracolo sembra essersi interrotto, ora che la realtà fatta di “sacrifici, lacrime e sangue” finisce con l’irrompere anche nella cornice dorata di Porto Rotondo, ora che Tremonti tentenna, che Bossi inveisce, che Brunetta protesta e che persino Crosetto e Straquadanio osano assumere gli improbabili panni degli irredentisti ultraliberali, viene da chiedersi cosa resta della credibilità del Governo italiano, di fatto emarginato dai grandi circuiti decisionali della politica europea. Restano i sorrisi di Berlusconi a beneficio dei sempre meno convinti professionisti dell’applauso a comando; restano le battute e le strette di mano; resta il galgenhumor di un premier che - istituzionalizzando per l’ennesima volta l’esistenza di un conflitto di interessi non configurabile presso qualsiasi democrazia occidentale – invita i risparmiatori a fronteggiare la crisi in atto investendo nelle sue aziende, sane ed in attivo. Sono gli ultimi scampoli di galgenhumor, gli ultimi passaggi di umorismo prima del patibolo: nella speranza che anche sulla scena rubata da questa strana domenica di agosto possa al più presto calare il sipario.

Carlo Dore jr.

giovedì, agosto 04, 2011

LA FINE DEL “SOCIALISMO GENTILE” E LE PROSPETTIVE DELLA SINISTRA ITALIANA: GLI “INDIGNADOS” A PIAZZA DEL POPOLO?


Di seguito, un mio intervento pubblicato su Sardegna24 del 4 agosto 2011

Quando le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia delle dimissioni di Zapatero, i progressisti europei hanno avvertito la sensazione che di solito fa seguito alla brusca interruzione di un bel sogno.

L’epoca di Zapatero è finita, e con lui si è esaurito il miraggio della“rivoluzione tranquilla” che aveva alimentato le speranze di quanti, all’alba del nuovo millennio, credevano nella possibilità di elaborare un’alternativa all’ondata conservatrice in cui il Mondo sembrava destinato ad affogare. L’epoca di Zapatero è finita, e con lui è finito quel “socialismo gentile” con cui lo sconosciuto avvocato di Leòn aveva osato sfidare gli anatemi della destra cattolica e le aspirazioni dei Signori del conflitto iracheno. Istituzionalizzazione delle unioni civili, immediato disimpegno dal fronte più incomprensibile della guerra preventiva, affrancazione della TV di Stato dal controllo della politica: dopo gli anni del blairismo, Madrid era diventata la nuova capitale della sinistra in Europa. Eppure, l’epoca di Zapatero è finita. Dove ha sbagliato Zapatero?

Forse, ha sbagliato quando – per combattere le sue battaglie civili – ha portato il PSOE troppo lontano dal mondo del lavoro, troppo lontano dalle esigenze di quella diffusa realtà precaria che, stretta nella morsa della disoccupazione crescente alimentata da una crisi globale e senza controllo, ha trasformato in indignados gran parte dei sostenitori dell’erede di Felipe Gonzales. Il mondo del lavoro senza prospettive e senza punti di riferimento, un socialismo troppo “gentile” per guidare un Paese nella bufera: il sogno è finito troppo presto, Zapatero torna a Leòn.

Le vicende che hanno scandito la crisi del PSOE sono così diverse, ma al contempo così simili alle varie tappe della diaspora a cui, tanto in Sardegna quanto a livello nazionale, i progressisti sono andati incontro nell’ultimo decennio: l’estinzione dei partiti tradizionali ha infatti generato un vuoto di rappresentanza che ha lasciato quella che Ilvo Diamanti definisce “la sinistra diffusa” di fatto senza guida, oppressa dalla minaccia di un futuro senza certezze, delusa da una classe politica percepita come indifferente ai problemi che la quotidianità propone. La sfiducia genera antipolitica, gli indignados si preparano ad invadere Piazza del Popolo.

A colmare questo vuoto di rappresentanza non è riuscito il PD di Veltroni - partito anti-ideologico, schiacciato dall’ambizione di farsi al contempo portatore delle rivendicazioni del sindacato e delle aspettative dell’ala dura di Confindustria –, né la neonata SEL, movimento personale legato a doppio filo alle alterne fortune della vaga narrazione vendoliana. Di questo vuoto di rappresentanza sembra invece aver preso coscienza Bersani, il quale – resistendo all’accusa di passatismo proveniente da quei settori della base democratica che ogni giorno invocano la rottamazione della “sinistra che parla solo di operai” -, ha da subito posto il tema del lavoro e della giustizia sociale al centro del suo progetto di leadership.

Se l’eco degli scandali che attualmente squassano l’area democratica non finiranno col minare la credibilità del gruppo dirigente, ecco che il modello di un partito vicino al mondo del lavoro ed alle istanze del sindacato – capace di porsi come credibile interlocutore rispetto alle imprese – può costituire il naturale punto di riferimento per quella fetta di elettorato che, sfiancata dall’opulento egocratismo del ventennio berlusconiano, chiede sicurezza e tutele dinanzi alla crisi che incombe. La “sinistra diffusa” non si nutre di sogni o di vaghe narrazioni, non vuole promesse né brama rottamazioni: in Italia come in Sardegna, chiede rappresentatività, ed una prospettiva analoga a quella che il socialismo gentile di Zapatero aveva offerto ai progressisti europei nella primavera del 2005. Chiede rappresentatività ed una nuova prospettiva: per non cedere al vento dell’antipolitica, per non invadere con altri “indignados”il sagrato di Piazza del Popolo.


Carlo Dore jr.

mercoledì, luglio 27, 2011

IL PD E LA MALAPOLITICA: DUE RISPOSTE SULLA QUESTIONE MORALE

Di seguito, un mio intervento pubblicato su Sardegna 24 del 27 luglio 2011.

“ Il ciclo storico della deindustrializzazione, quando gli immobiliaristi si imposero come potenze fameliche intorno alle aree degli stabilimenti svuotati, ha forse trascinato anche una sinistra indebolita nelle dinamiche del consociativismo e dell’affarismo?”. L’interrogativo proposto lo scorso giovedì da Gad Lerner attraverso le colonne de “La Repubblica” tormenta gran parte del popolo progressista, comprensibilmente scosso dalle notizie collegate ai procedimenti penali che hanno coinvolto, dopo il manager dell’Enac Franco Pronzato, anche un esponente di primo piano come Filippo Penati.

Davvero, si chiedono iscritti e simpatizzanti, la sinistra ha abdicato dalla sua tradizionale funzione di contraltare dei poteri forti per divenire parte integrante del sistema affaristico e consociativo in cui, giorno dopo giorno, sprofonda l’Italia di Berlusconi? Davvero la cultura della diversità, fondata sul primato della questione morale, è stata messa in soffitta, insieme alle bandiere rosse ed al ritratto di Berlinguer? Davvero il PD ha rinunciato ad elaborare una proposta di alto profilo per contrastare il vulnus della malapolitica?

Ai quesiti appena prospettati, il principale partito di opposizione è tenuto a dare due diverse risposte, in grado di assecondare il grido di indignazione che si solleva dai principali settori della società civile. La prima: il centro-sinistra non ha rinunciato a porre la questione morale al centro della propria azione, la differenza tra destra e sinistra non può, sotto questo profilo, considerarsi ancora venuta meno. Lo confermano le ragioni che hanno portato l’intero gruppo parlamentare del PD a sostenere la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Alfonso Papa, contribuendo così a spezzare – almeno per una volta – l’insopportabile rete di privilegi e logiche immunitarie che ha caratterizzato il ventennio del Cavaliere; lo conferma la fermezza con cui Rosi Bindi ha chiesto le dimissioni del senatore Alberto Tedesco, asceso al seggio di Palazzo Madama anche a causa delle troppe disfunzioni che caratterizzano il sistema delle “liste bloccate” in vigore per la selezione dei parlamentari. Lo conferma, infine, la condotta osservata dallo stesso Filippo Penati, il quale ha deciso di dimettersi dal suo ruolo di vice-presidente del Consiglio regionale lombardo, senza mai mettere in discussione né la legittimazione della magistratura ad indagare sulle ipotesi di reato che gli vengono contestate, né quella della stampa a mettere al corrente l’opinione pubblica dei fatti su cui verte tale inchiesta.

No, destra e sinistra non possono ancora essere messe sullo stesso piano, la cultura della “diversità” non ha ancora perduto la propria ragion d’essere: la questione morale continua ad ispirare la politica del centro-sinistra, i progressisti italiani non metteranno mai in soffitta il ritratto di Berlinguer.

Ma proprio per rimarcare le radici della loro “diversità” rispetto alla parodia della “banda degli onesti” tratteggiata da Alfano nel suo discorso di insediamento alla guida del PDL, i democratici devono dare anche una seconda risposta alla sete di etica che pervade il loro elettorato di riferimento. Posto infatti che il processo volto a proporre il PD come credibile alternativa per il governo del Paese non può, in questa particolare fase storica, prescindere dall’elaborazione di nuovi criteri di selezione della classe dirigente, questa seconda risposta potrebbe risolversi nella scelta, da parte della segreteria di Bersani, di imporre ai suoi tesserati che vengono rinviati a giudizio per un delitto (diverso dai reati di opinione) punibile con una pena superiore ai due anni di reclusione l’automatica sospensione da tutti gli incarichi dirigenziali per l’intera durata del processo, nonché di prevedere a carico degli stessi l’obbligo morale delle dimissioni dalle cariche elettive precedentemente assunte.

Una soluzione come quella appena indicata potrebbe costituire un’adeguata risposta ai dubbi di Gad Lerner, alla manifesta sfiducia di quanti descrivono la sinistra italiana ormai lontana dalle istanze sociali e sostanzialmente assuefatta alle logiche del Palazzo: una risposta che conferma l’attualità della questione morale dinanzi all’incedere del fantasma della malapolitica.


Carlo Dore jr.

domenica, luglio 17, 2011

IL DISCORSO DEL SEGRETARIO

Bersani prende la parola nel bel mezzo di un’infuocata seduta parlamentare, mentre l’aula di Montecitorio procede a tappe forzate nell’approvazione della manovra economica varata dal ministro Tremonti. Le notizie che giungono dall’esterno riportano il grido di dolore di un Paese allo sbando, paralizzato dallo spettro di una crisi che le trame degli speculatori rischiano di trasformare in una clamorosa bancarotta collettiva. Berlusconi tace, per “non turbare i mercati”: il mito del “ghe pensi mì” suona sempre più come una barzelletta utile per far sorridere i potenti impegnati nei vertici internazionali, come il mantra di una politica destinata ad esaurirsi nella tutela del circuito di interessi privati e di vicissitudini giudiziarie che gravita attorno al mausoleo di Arcore.

Berlusconi tace, Bersani parla. Il discorso del Segretario non è caratterizzato da toni enfatici e da frasi ad effetto: i giorni del “miracolo italiano” sono lontani quasi quanto le narrazioni vendoliane o le rottamazioni di Renzi. No, il discorso del Segretario è un discorso da Segretario: mette in fila fatti, analizza situazioni, propone soluzioni. Il ritornello secondo cui “la crisi esiste solo sulle pagine dei giornali di sinistra”o “nelle elaborazioni dei professionisti del catastrofismo” resiste solo negli editoriali di Minzolini: la crisi c’è, e il Segretario lo dice forte e chiaro, mentre un manipolo di cricche di varia estrazione e colore continua ad arricchirsi sfruttando il colpevole immobilismo di un Governo senza rotta e senza timoniere.

Bersani parla, riflette, denuncia: attacca la Lega Nord, eternamente sospesa tra la dimensione populista dei rituali di Pontida - trasposizione in chiave casereccia della protesta di Piazza Tahrir - e l’opulenza arrogante dei Ministri di Mubarak; declina una linea di politica economica ispirata ai valori dell’equità e della giustizia sociale; propone una strategia di contenimento della spesa pubblica, da attuare attraverso l’abolizione di alcune province e dei piccoli comuni, l’eliminazione di alcune società miste, la cancellazione degli enti inutili.

Semplice, onesto, intellegibile. Il discorso del Segretario evidenzia il più grande vulnus che il ventennio del Cavaliere ha generato nel sistema politico italiano, identificabile in una concezione “minorata” della democrazia, intesa come mera genuflessione del popolo alla volontà del miliardario, come depotenziamento della funzione tradizionale dei partiti, ridotti a veicolo di diffusione del vangelo del capo. Mediaticizzazione esasperata che soffoca i contenuti di ampio respiro, narrazioni velluate e slogan gridati al vento che prendono il posto dei ragionamenti di alto profilo: siamo tutti col Capo, meno male che il Capo c’è. Cricche e spioni, scandali e esasperazione: questa è la politica italiana nell’epoca della crisi globale.

In un simile contesto, mentre l’indignazione dei cittadini nei confronti del Palazzo si manifesta soprattutto attraverso il crescente consenso attribuito a realtà che si pongono – almeno all’apparenza - come alternative rispetto ai partiti tradizionali, il discorso del Segretario suona come l’ennesima sfida rivolta ad una maggioranza attaccata agli ultimi brandelli di un potere senza consenso: il Miliardario esca di scena, per consegnarsi una volta per sempre alla valutazione della Storia e, prima ancora, al giudizio dei Magistrati; i Ministri di Mubarak tornino al prato di Pontida, per spiegare agli ultimi pasdaran della secessione le troppe intelligenze tra lo spadone di Alberto da Giussano e i salotti buoni della “Roma ladrona”. Rigore, onestà, chiarezza, cambiamento: in una parola, elezioni.

Il discorso del Segretario volge al termine: gli applausi dai banchi dell’opposizione risuonano più convinti del solito. La fabbrica di Bersani non produce fumo, Bersani ha parlato da persona seria che non ha interesse a scaldare i cuori perché non deve promettere l’impossibile: ha inquadrato problemi, ha proposto soluzioni con la serietà ed il realismo che deve caratterizzare il discorso di un Segretario, del leader di un partito che vuole proporsi come alternativa per il governo di un Paese alla deriva.


Carlo Dore jr.

venerdì, giugno 24, 2011

LA FORZA DI NICHI E LE RAGIONI DI MASSIMO: LEADERSHIP DI POPOLO O LEADERSHIP DI PROGETTO?


“Sono i movimenti collettivi quelli che determinano i cambiamenti più profondi, più duraturi. Naturalmente la politica oggi è fortemente personalizzata, e ci vogliono leader in grado di interpretare questi movimenti collettivi: però un leader che non sia espressione di un movimento di fondo della società è un finto leader, e alla fine non produce nulla al di là delle sue fortune personali. Un leader che produce un cambiamento profondo nella società è la forma della leadership più moderna e democratica”.

Le riflessioni affidate da Massimo D’Alema al quotidiano “IlPost” hanno ulteriormente alimentato il dibattito relativo alla futura leadership del centro-sinistra, tornato d’attualità dopo l’autocandidatura di Nichi Vendola alle primarie per la guida della coalizione. Le ultime elezioni amministrative – scandite dalle travolgenti affermazioni di Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli – sono state caratterizzate più dalle vittorie dei leader che dalle “vittorie di progetto”: si è infatti spesso riscontrata una forte empatia tra leader e popolo, empatia che ha trascinato il successo dei leader talvolta a prescindere dai consensi dei partiti che ne sostenevano la candidatura. Il leader viene applaudito indipendentemente dai suoi errori e dalle sue debolezze, i partiti vengono depotenziati indipendentemente dai loro meriti: nel pactum subiectionis con cui il popolo affida al leader le chiavi del potere, viene dunque messo in discussione il ruolo dei partiti come strumento di formazione e selezione della classe dirigente, come veicolo di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.

Proprio questa magica empatia - capace persino di trasformare il mite Giuliano Pisapia, degnissimo politico di lungo corso con alle spalle oltre quindici anni di attività parlamentare, in un campione della riscossa civica – è la linfa vitale che alimenta la narrazione vendoliana: Vendola è la freschezza che mette i brividi ai vecchi castosauri della politica militante, è il grande affabulatore che scalda teste e cuori. E’ il leader che parla al popolo: fuori dagli schemi, fuori dai partiti, fuori dai binari di un progetto di governo. Il leader davanti al progetto, che si rapporta direttamente alla base: questa è la forza di Nichi.

Eppure, la forza di Nichi non sembra tanto intensa da scalfire le ragioni di Massimo: del segretario del PDS che per due volte ha costretto Emilio Fede a riempire di bandierine rosse la mappa della Penisola, del delfino di Berlinguer che per anni ha studiato da naturale punto di riferimento dello schieramento progressista, per poi crollare all’ultima curva del suo brillante cursus honorum. Massimo ha vinto e ha perso: ha chiuso gli occhi dinanzi alle incongruenze del progetto della Bicamerale, ed ha sottovalutato la carica di veleno che poteva trasmettere il morso di un Caimano da tutti dato per moribondo. Ha combattuto chi, nel non lontano 2007, liquidava Prodi come un poeta morente, ed ha denunziato per primo l’intrinseca debolezza che si celava sotto lo smagliante “I care” veltroniano.

Massimo ha vinto e ha perso, ha sbagliato e ha pagato. Ma Massimo ha capito: ha capito che l’empatia tra leader e popolo, i sorrisi patinati, le magliette multicolori ed i manifesti in stile dark possono essere sufficienti per vincere un’elezione, non per governare un Paese. Ha capito come la più volte invocata “alternativa” al berlusconismo passa dalla creazione di un vasto campo di forze afferenti all’area democratica e riformatrice, che sappiano rendersi interpreti di un disegno politico di ampio respiro, fondato sui valori dell’equità, della solidarietà, della giustizia sociale. Ha capito che il carisma di un leader che impone a caratteri cubitali il suo nome sul simbolo della coalizione non è sufficiente a colmare la mancanza di un progetto degno di tale nome, a sopperire alla endemica debolezza di partiti de-strutturati in quanto ridotti a mera cassa di risonanza della voce del capo. Ha capito che la leadership di popolo mantiene una consistenza diversa (e per forza di cose inferiore) rispetto alla leadership di progetto.

E’ proprio su questo punto che la forza di Nichi non può non cedere alle ragioni di Massimo: senza strategie definite, senza una coalizione predeterminata, senza un programma condiviso, le eventuali primarie per la designazione del prossimo candidato premier del centro-sinistra rischiano di creare l’ennesimo leader dimezzato o falso leader, in quanto mero prodotto di un brutale scontro di personalità, del definitivo redde rationem tra quanti si entusiasmano per la leadership di popolo e coloro i quali ancora ravvisano la necessità di sostenere un’autentica leadership di progetto.

Carlo Dore jr.

giovedì, maggio 26, 2011

L’UOMO DEL CUCU’

La scena che stiamo per raccontare non rappresenta il frammento di un vecchio show del Bagaglino, né uno sketch prodotto dall’irresistibile verve comica di Maurizio Crozza o Antonio Cornacchione: è una scena accaduta solo poche ore fa, e, per quanto incredibile possa sembrare, è accaduta davvero. Nei minuti che precedono l’apertura di un importante vertice internazionale, mentre i leaders delle principali potenze mondiali ricontrollano per l’ennesima volta la scaletta del loro intervento, Berlusconi si alza dal posto assegnatogli, percorre impettito il breve perimetro che costeggia il lungo tavolo ovale attorno al quale la riunione è convocata per pararsi di colpo davanti al presidente americano Obama. Il capo della White House abbozza un sorriso di circostanza, mentre Sarkozy e la Merkel iniziano a scambiarsi occhiate al vetriolo: vuoi vedere che il funambolico collega italiano si produrrà in un numero analogo a quello che, solo due anni fa, mandò su tutte le furie la Regina Elisabetta? Vuoi vedere che l’Uomo del Cucù sta per regalare altro materiale a tabloid e cabarettisti?

Ciò che accade nei successivi dieci secondi conferma la fondatezza dei loro timori: servendosi dell’ausilio di un incolpevole interprete, il Cavaliere attacca: “Sai, ho una nuova maggioranza: adesso potrò fare quella riforma della giustizia che considero necessaria perché in Italia abbiamo una quasi-dittatura dei giudici di sinistra”. Il sorriso di Obama si trasforma in una maschera di ghiaccio, Sarkozy e la Merkel oscillano tra imbarazzo e rassegnazione, i giornalisti di tutto il mondo si scambiano battute e risate: forse che Berlusconi gradirebbe l’intervento dei marines contro i giudici di Milano? Riecco la politica da cabaret, l’Uomo del Cucù ha colpito ancora: l’Italia rimedia l’ennesima figura barbina agli occhi della comunità internazionale.

Dal palco di uno dei tanti comizi che in questi giorni colorano le nostre piazze, Bersani scuote amaramente il capo: quel gesto rappresenta al meglio lo stato d’animo della metà del Paese, di milioni di persone che, davanti alle televisioni, alle radio o ai computer connessi ad internet, adesso trasudano rabbia ed indignazione, e che vorrebbero gridare all’unisono: basta, non ne possiamo più. Non ne possiamo più della deriva egocratica di un premier che considera lo Stato alla stregua dell’ultima filiale della sua lucrosa azienda di Cologno Monzese, e che tratta le istituzioni di garanzia come un fastidioso bug in grado di compromettere l’efficienza del ciclo produttivo. Non ne possiamo più della gestione individualista del potere, del Parlamento piegato giorno dopo giorno alle esigenze di un Sovrano talmente ossessionato dalla sua ricerca di privilegi e impunità da risultare insensibile al grido di dolore che costantemente promana dal retroterra di una nazione al collasso. Scherzi da caserma e comizi a reti unificate, menzogne di Stato e bunga bunga, lodi e prostitute marocchine, igieniste dentali ed ex piduisti riscopertisi liberali: basta, non ne possiamo più!

Nei salotti delle TV di famiglia, i trombettieri del Cavaliere si affannano a minimizzare l’accaduto: non si può costruire una polemica infinita sulle parole rubate da un giornalista indiscreto, non si può offendere l’immagine dell’Italia gettando fango sul Presidente del Consiglio. E’ solo una strumentalizzazione: l’ennesima strumentalizzazione ordita dagli esponenti di quella sinistra che soltanto ieri l’Uomo del Cucù definiva “composta da gente senza cervello”. Ma è proprio la gente senza cervello che ora sembra finalmente pronta ad abbozzare una reazione, a delineare una prospettiva di cambiamento volta a ricondurre la politica al suo alveo di democratica normalità, emendata come tale dalle troppe degenerazioni derivanti dall’overdose di berlusconismo: a mettere, una volta per sempre, fine all’esperienza di governo imposta al Paese dall’Uomo del Cucù.

Carlo Dore jr.

domenica, aprile 17, 2011

QUELL’UOMO MORTO CON IL CODICE IN MANO


In una strana mattina di aprile, sui muri di Milano sono apparsi dei grandi manifesti bianchi e rossi, recanti un messaggio sconvolgente nella sua violenta brutalità: “fuori le BR dalle procure”. Indipendentemente da chi ha confezionato questi strani volantini, è facile cogliere la connessione tra il testo in essi riportato e le parole urlate dal Presidente del Consiglio a beneficio dello sparuto drappello di oplites che, lo scorso lunedì, lo attendeva plaudente all’uscita del Palazzo di Giustizia: “contro di me, brigatismo giudiziario”.

“Brigatismo giudiziario”, “I giudici sono matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”, “Fuori le BR dalle Procure”: come in un film di seconda visione, le immagini e le parole di queste strane giornate di aprile si confondono e si intrecciano, per lasciare improvvisamente spazio ad altre immagini e ad altre parole, emerse dagli archivi della memoria di quella fetta di Paese che ancora non ha smarrito la propria capacità di ricordare, la propria capacità di pensare, la propria capacità di indignarsi. Sono le immagini sgranate di un filmato della Milano dei primi anni’80, sono le immagini di un uomo riverso in una pozza di sangue, crivellato dai colpi di P38 davanti alla porta dell’aula universitaria in cui doveva tenere la sua lezione. A pochi centimetri dalla mano inerte, un codice aperto: quell’uomo è morto, è morto con il codice in mano.

Un uomo morto con il codice in mano. Chi era quell’uomo? Quell’uomo era un giurista, un professore, un magistrato: quell’uomo era Guido Galli, giudice istruttore presso il Tribunale milanese, a cui erano state assegnate le più delicate indagini relative al terrorismo brigatista. Guido Galli era un modello di magistrato democratico al quale (come acutamente ha osservato Armando Spataro nel suo ultimo libro) difficilmente oggi sarebbe stata risparmiata la patente di “toga rossa”. Era un magistrato indipendente, soggetto, come tale, soltanto alla legge: le contaminazioni ideologiche non ne intaccavano la lucidità e la serenità di giudizio, il codice che portava sempre con sé costituiva la sua stella polare.

I gruppi di fuoco di Prima Linea ne avevano pianificato l’omicidio proprio per questo: perché era un esponente della “fazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente”. Guido Galli era bravo, era indipendente, era pericoloso: per questo è stato ucciso, per questo è caduto davanti a quell’aula universitaria, mentre rileggeva le norme su cui avrebbe dovuto impostare la sua lezione. Morto perché applicava la legge, morto con il codice in mano.

“Contro di me, brigatismo giudiziario”. “Fuori le BR dalle procure!”. Sugli slogan urlati a squarciagola dai trombettieri del Cavaliere si impone, ferma e serena, la voce di Edmondo Bruti Liberati: “Abbiamo già avuto le BR qui in procura. Vennero per uccidere Emilio Alessandrini e Guido Galli”. Eppure, anche la dura replica del procuratore di Milano non basta a cancellare del tutto lo sdegno che ogni sincero democratico prova di fronte alla violenza di quelle parole scritte in lettere bianche su sfondo rosso: “Fuori le BR dalle Procure”. I magistrati additati come eversori solo perché conducono inchieste sgradite ai sostenitori del Princeps, paragonati ai brigatisti solo perché colpevoli di applicare la legge anche contro la volontà di certi settori del potere politico. Eversori perché indipendenti, terroristi perché non controllabili, se non attraverso il potente silenziatore delle leggi ad personam.

Indipendenti, non controllabili, soggetti solamente alla legge.

“Contro di me brigatismo giudiziario”. “Fuori le Br dalle Procure”. Le lettere bianche di quei manifesti sono anch’esse macchiate di rosso, ma non si tratta dell’inchiostro dello sfondo che perde consistenza sotto l’ultima pioggia di Milano. Sono macchiate dal sangue dei tanti magistrati uccisi perché applicavano la legge contro le pallottole, contro il fanatismo, contro le stragi di Stato, contro il silenzio figlio della paura.

Sono macchiate del sangue di Emilio Alessandrini, di Bruno Caccia e di Guido Galli: l’uomo morto con il codice in mano.

Carlo Dore jr.

lunedì, marzo 28, 2011


“SULLA PORTA DELLA LEGGE C’E’ UN GUARDIANO”: TRA KAFKA E BERLUSCONI.

“Sulla porta della legge c’è un guardiano” scrive Kafka ne “Il processo”: un guardiano che impedisce il contatto con la legge ad un povero contadino destinato a consumarsi nel suo disperato tentativo di sentire la sua domanda di giustizia rimbombare oltre i battenti di quella porta. “Sulla porta della legge c’è un guardiano”, deve aver pensato oggi Berlusconi, sedendosi ancora una volta dietro il banco degli imputati: un guardiano che si ostina a sbarrargli la via che conduce lontano dalle aule di giustizia.

“Sulla porta della legge c’è un guardiano”: un guardiano settario e fazioso che si oppone alla libera volontà espressa dalla maggioranza degli elettori, impedendo al Presidente del Consiglio di completare il miracoloso processo di rinnovamento avviato dal miglior governo degli ultimi 150 anni. “Contro di me accuse ridicole” tuona il Cavaliere nella cornetta di Belpietro: si sente come il personaggio di Kafka, che si consuma sulla porta della legge. La Santanchè grida e si agita sul marciapiede che costeggia il Tribunale di Milano, con i tacchi a spillo che massacrano impietosamente il grigio dell’asfalto; i Pretoriani della libertà si schierano in capannelli sempre meno numerosi, tra i claxon degli automobilisti esasperati e gli sberleffi degli oppositori inferociti: “Silvio è un perseguitato!” “Ma si faccia processare!”.

“Sulla porta della legge c’è un guardiano”, che da quindici anni non si sposta. C’è stato Borrelli con il suo “resistere, resistere, resistere”, c’è stato D’Avigo con la sua scienza al vetriolo, ora c’è la Boccassini che indaga insieme a Di Pasquale: Mills e il Ruby-gate, la Minetti e Lele Mora, false testimonianze e conti cifrati, escort e notti brave, telefonate indebite e balle spaziali. E’ il fango del potere, è il potere che affoga nel fango: si salvi chi può! Arrivano Ghedini con la sua teoria de “l’utilizzatore finale”, Alfano con il suo arsenale di scudi e legittimi impedimenti, Paniz con la pazza idea della prescrizione breve. Fioccano le immunità e le sentenze di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato: il Cavaliere tira un sospiro di sollievo, e marcia impettito verso l’uscita del Tribunale. La via è libera, il guardiano è neutralizzato? No, il guardiano è sempre lì, sulla porta della legge, e gli ordina a brutto muso di tornare in aula.

Le immunità cadono una dopo l’altra sotto la scure della Corte Costituzionale, le prescrizioni non possono neutralizzare le nuove indagini: il fango continua a sommergere i palazzi del potere. La gente si indigna e scende in piazza “Dimissioni! Dimissioni!”. I leoni dell’etere tornano a ruggire: arriva Ferrara da Radio Londra, arrivano Sallusti e Kalisphera. Riparte la teoria del complotto, dell’aggressione delle toghe rosse, dei giudici politicizzati da punire, magari attraverso una bella riforma in grado di colpirli, oltre che nell’indipendenza, anche nel portafogli. Berlusconi lascia l’udienza e guarda in cagnesco il Tribunale dal basso del predellino della solita auto blu. I supporter lo attendono, lui sfodera toni trionfalistici e sorriso da caimano: sono un perseguitato, sono come il personaggio di Kafka. Persino la Santanchè, che conosce Kafka parola per parola, si rende conto della scarsa consistenza della metafora: il contadino de “Il Processo” si consuma dinanzi al guardiano chiedendo di accedere alla porta della legge, non di attraversarla per stare lontano dal banco degli imputati.

Sulla porta della legge c’è un guardiano: quel guardiano si chiama Costituzione, si chiama legalità, si chiama uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Sulla porta della legge c’è un guardiano: è dinanzi a quel guardiano che il potere di Berlusconi è forse destinato a spegnersi poco a poco.

Carlo Dore jr.

mercoledì, marzo 16, 2011


RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: UNA MIA REPLICA A PASQUALE MOTTA.

Una mia replica all'articolo di Pasquale Motta, apparso su Rosa Rossa on line del 12 marzo 2011. Questo mio intervento è stato pubblicato oggi (16 marzo 2011) sul sito Rosa Rossa on line ( http://www.rosarossaonline.org/art/2011/03/16/riforma-della-giustizia-una-replica-a-pasquale-motta_13002 ) che ringrazio per la disponibilità.

Gentile Direttore,
nei giorni scorsi, sul periodico da Lei diretto è stato pubblicato un articolo che (in aperta adesione all’appello formulato da alcuni giornalisti del sito “The Frontpage”) invitava le forze progressiste presenti in Parlamento a collaborare all’attuazione dei progetti di riforma della Giustizia recentemente elaborati dall’Esecutivo, e ad affrancarsi una volta per sempre dalla loro “storica, e per certi versi comoda, subalternità ad una certa magistratura”.

A costo di essere etichettato come un esponente della “sinistra del Palasharp, degli indignati sempre e comunque, dei forcaioli e dei manettari” (definizione che invero non mi offende, considerato che in questa schiera di “forcaioli giustizialisti” militano giuristi del calibro di Gustavo Zagrebelsky e magistrati, come Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, da sempre in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata), credo che il suddetto articolo meriti una breve replica, giacché la proposta di istituire in tutta Italia “comitati a favore della riforma” denota, a mio sommesso avviso, una percezione poco lucida dell’impatto che l’approvazione della “bozza Alfano” potrebbe determinare sull’ordinamento.

Limitandomi all’essenziale, rilevo in primo luogo come il testo della riforma in esame non incide in alcun modo sull’amministrazione della giustizia (cioè sull’assetto dell’attuale sistema processuale), ma stravolge completamente la struttura dell’ordinamento giudiziario. Dunque, non una di una riforma della giustizia si tratta, ma di una riforma dei Giudici, approvata in chiaro spregio ad alcuni di quei “principi supremi” della Carta Fondamentale a cui anche una legge approvata attraverso il procedimento ex art. 138 Cost. deve per forza di cose sottostare.

Cinque sono i capisaldi della “riforma epocale” elaborata a tamburo battente dai giureconsulti di Palazzo Grazioli: la separazione delle carriere di giudici e PM (misura volta a garantire una piena parità tra accusa e difesa, così da imporre all’”Avvocato dell’accusa” di presentarsi al cospetto giudice “col cappello in mano”); lo smembramento e la duplicazione del CSM; la creazione di un’Alta Corte (a nomina prevalentemente politica) preposta a “sanzionare civilmente” i magistrati che sbagliano; la cancellazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale, e la conseguente attribuzione all’Esecutivo del potere di indicare i reati da perseguire con priorità; l’assegnazione alla polizia giudiziaria (affrancata dal controllo del magistrato requirente) del monopolio esclusivo delle indagini.

In altre parole, la “grande, grande grande” riforma di cui ora discutiamo mira a creare la figura di un PM cieco e privo di strumenti di indagine, da un lato costretto a perseguire esclusivamente i reati sui quali il potere politico gli impone di concentrare la sua azione, e d’altro lato perennemente sottoposto alla minaccia di una sanzione erogata da un organo di cui lo stesso potere politico detiene l’esclusivo controllo.

Tutto ciò premesso, ci si deve domandare: queste misure contribuiranno a migliorare la posizione del cittadino che “chiede giustizia”? Serviranno cioè ad assicurare pene più certe, processi più rapidi, giudizi più equilibrati? La risposta, alla luce delle considerazioni appena formulata, appare drammaticamente scontata: la riforma elaborata da Alfano finirà esclusivamente col creare una giustizia a due velocità, implacabile nel reprimere i reati “umili” (come il furto o la rapina) ma straordinariamente permissiva nei confronti della c.d. criminalità economica o amministrativa.

Ma dinanzi alla prospettiva di una magistratura asservita alla voluntas principis, quale sforzo collaborativo può essere richiesto alle forze dell’area democratica, che già troppe volte in passato hanno disatteso le aspettative dell’elettorato in materia di giustizia e di tutela della legalità? Al contrario, è auspicabile invece che, per una volta, l’intera opposizione si mobiliti in una rigorosa azione di contrasto al ddl che si esamina, azione di contrasto da condurre tanto nelle aule parlamentari quanto in seno alla società civile, in previsione della prossima battaglia referendaria: per avanzare poi una serie di proposte di riforma che, incidendo sui tanti problemi di un sistema prossimo al collasso, risultino in grado di dare risposte concrete alla domanda di giustizia che magistrati, avvocati e semplici cittadini ogni giorni rivolgono ai palazzi della politica.

Grato per lo spazio che vorrà concedermi,
 
Carlo Dore jr.
 
Di seguito, pubblico sia l'intervento di Pasquale Motta che l'appello firmato dai giornalisti del sito "The Frontpage".
 
Carissimi Micucci, Sansonetti, Rondolino, Velardi, Bruno Bossio,

ho condiviso e sottoscritto il vostro/nostro appello sulla giustizia, così come avevo fatto per il primo appello su questo tema. Credo però che questa volta solo l’appello non basti, bisogna osare di più.

Che fare allora? A mio avviso, bisogna chiamare a raccolta tutti i riformisti liberali e garantisti della sinistra italiana, io credo che non siamo pochi e, con loro, mettere su una iniziativa nazionale che metta giù delle proposte e nello stesso tempo agisca come strumento di pressione politica. Amici miei, è giunta l’ora di mettere su un movimento, di fare rete, affinché emerga l’anima garantista, democratica e liberale della sinistra italiana. La discussione sulla riforma sarà lunga, visto l’impianto di riforma costituzionale, ma già vedo titubanze nel gruppo dirigente del Pd che non lasciano presagire nulla di buono ai fini della partecipazione del maggiore partito d’opposizione alla costruzione di una seria riforma della giustizia.

Ricordo a tutti voi che i Ds prima e il Pd poi più volte hanno cercato di varare una radicale riforma della giustizia; ci provò D’Alema con la Bicamerale, ci provò Boato, ci hanno timidamente provato Violante e Orlando, ma ogni tentativo è naufragato sotto il fuoco micidiale della propaganda mediatico-giustizialista messa in campo da Travaglio, Santoro, Idv e compagnia bella, una lobby questa che sta assumendo giorno dopo giorno i connotati di una vera e propria “Gladio giustizialista”. In queste ore rivedo un film già visto tante volte: le dichiarazioni in tono greve delle icone giustizialiste Caselli e Spataro; altri, sono sicuro, verranno nelle prossime ore; poi ci saranno le trasmissioni di Santoro, si mobiliteranno le piazze viola, poi ancora Il Fatto comincerà a pubblicare qualche intercettazione telefonica generosamente passata da qualche Pm e, infine, non escludo qualche “eclatante” inchiesta.

In passato, quando ci si è avvicinati a qualche riforma dell’ordine giudiziario, è finita sempre così. I tentativi di riformare il ruolo del Pm non sono stati inventati da Berlusconi, o dal disegno postumo della P2, come si sostiene nella valanga di sciocchezze che, in queste ore, portano avanti orde di forcaioli giustizialisti. Già Piero Calamandrei nell’Assemblea Costituente pose il problema, nel 1981 faceva parte del programma di governo di Spadolini, ma la riforma non andò in porto perché quel governo durò poco più di un anno. Nel 1983 il Psi riprese il tema approvando nella sua direzione un’ampia proposta di riforma, ma pochi giorni dopo, alla vigilia delle elezioni politiche, scoppiò lo scandalo Teardo, presidente socialista della Regione Liguria, il quale fu arrestato insieme ad alcuni esponenti della sua giunta. Tutto si fermò fino al 1989, quando, con la riforma del codice penale, si introdusse una qualche innovazione, da allora, e sono passati 20 anni, la politica non è riuscita più ad imporre nessuna riforma.

L’ordine giudiziario si è sempre opposto con tutti i mezzi. Anche quando fu introdotta la DDA, proposta da Falcone e Martelli, la magistratura si oppose a quella innovazione e Giovanni Falcone fu accusato di tutto e di più, non solo, la sua nomina a Procuratore distrettuale antimafia fu bloccata e gli si preferì Sica, grazie al voto determinante in Csm, di un esponente di Magistratura Democratica, e sempre allora, tra i più attivi detrattori pubblici di Falcone, si registrarono Leoluca Orlando Cascio e Flores d’Arcais, proprio loro, gli stessi paladini della legalità di oggi.

Di fronte a tutto ciò, ogni volta la sinistra, anche quella garantista, è sempre scappata, schiacciata dalla propria ignavia, sottraendosi così al diritto-dovere di affrontare il tema della riforma della giustizia e collocandosi nella sua storica e, per certi versi, comoda, subalternità culturale ad una certa magistratura. Ecco perché, a questo punto, diventa necessaria una mobilitazione che vada oltre il mero esercizio degli appelli scritti. Voi cari amici e compagni, avete avuto il merito di rompere schemi e tabù consolidati a sinistra, l’avete fatto con coraggio, ora vi chiediamo un altro sforzo, quello cioè di mettere in campo una iniziativa di mobilitazione, magari a Roma, dando vita a veri e propri “comitati di sostegno della riforma” in tutta Italia.

Sono convinto, infatti, che bisogna dare la percezione plastica alla sinistra e al Paese che non c’è solo la sinistra del popolo viola, dei Palasharp, degli indignati sempre e comunque, dei forcaioli, dei manettari, come appare mediaticamente. Ma c’è anche una sinistra moderata, riformista, democratica e liberale; attenta alle garanzie, ai diritti della persona, al rispetto della dignità. Allora mi chiedo e vi chiedo: “se non ora quando?” Quando cioè iniziare una battaglia politica e culturale per cambiare veramente la sinistra in senso riformista e liberarla dalla sedimentazione forcaiola che, a partire dagli inizi dagli anni ‘90, ha condizionato la sua azione e minato la sua credibilità?

Pasquale Motta

APPELLO DEI GIORNALISTI DEL SITO "THE FRONTPAGE"
Compagne e compagni, sulla riforma della giustizia non tiratevi indietro!



Le preoccupazioni che vi abbiamo illustrato nell’appello garantista si sono purtroppo drammaticamente confermate. Siamo in presenza di una ulteriore degenerazione del quadro politico, in chiave illiberale, conservatrice, giustizialista e mediatica: perciò se si discuterà davvero di giustizia, non tiratevi indietro.

La riforma della giustizia è urgentissima. E deve essere una riforma garantista perché il nostro sta diventando il Paese meno garantista d’Occidente. E il potere della magistratura sta diventando squilibrato rispetto agli altri poteri.

Che cosa vuol dire garantista? Tre cose: primo, aumento delle procedure di garanzia per gli imputati (per esempio separazione delle carriere, responsabilità civile dei giudici, riduzione delle intercettazioni e della loro diffusione); secondo, riduzione delle pene; terzo, depenalizzazione dei reati minori. La scelta garantista può essere solo antirepressiva, e su questo la sinistra deve essere protagonista di una grande battaglia, care compagne e cari compagni, perché sono temi nostri e dobbiamo imporli a una destra che non li ama. Questo è il momento buono.

Non diciamo che, con Berlusconi al governo, non se ne deve parlare. Perché così si perde una grande occasione e si legittima l’uso personale e partigiano del tema della giustizia. Invece sono milioni i cittadini e le imprese che hanno a che fare con i tribunali. Se si sostiene a priori che con una parte non si deve parlare, si avvallano i teoremi contrapposti: tutti i magistrati sono di parte, tutti i politici (della parte avversa) sono corrotti.

Non diciamo che “non è il momento perché la magistratura è in prima fila nella lotta alla corruzione”. La magistratura non è una forza di combattimento. Non deve esserlo. I magistrati sono diversi tra loro, nei comportamenti, nell’esercizio della professione e nei loro interessi materiali. Le loro opinioni vanno certo ascoltate, come quelle di tutti i gruppi professionali o sociali. I loro rappresentanti, però, non possono pretendere di piegare l’interesse generale ai loro fini. Non possono ignorare i problemi dei cittadini sottoposti ad una giustizia lenta, costosa, inconcludente e condizionata da logiche mediatiche. Non può più accadere che un magistrato celandosi dietro l’obbligatorietà dell’azione penale scelga a chi, come e con quanto impegno dedicarsi, e come coinvolgere i media, secondo logiche personali e irresponsabili. Lo diciamo prima di tutto a difesa della magistratura, della sua insostituibile funzione, della sua efficacia e della sua autorevolezza.

Carriere limpide e non intercambiabili tra chi formula l’accusa e chi giudica e per questi dev’essere super partes ed equidistante tra accusa e difesa; forme di rappresentanza, di governo e di responsabilità civile eguali e compatibili con quelle di tutti i cittadini e finalmente estranee ad ogni logica di casta; durata dei processi; certezza e correttezza nei procedimenti di indagine, compresa la riservatezza e la non strumentalizzazione dei materiali raccolti; l’uso appropriato e certo delle intercettazioni; un ricorso davvero limitato alle necessità reali dei provvedimenti di restrizione della libertà prima dei processi; la corrispondenza dei risultati all’impegno e al talento dei giudici: sono tutti argomenti che la sinistra e le forze democratiche hanno messo più volte all’ordine del giorno, in singole proposte di legge e avviando un dialogo con le altre forze politiche.

Del resto le proposte messe sul piatto dall’attuale titolare della Giustizia, il ministro Alfano, non sono così lontane dalla bozza Boato approvata da tutti (tranne Rifondazione) ai tempi della Bicamerale. Ma da allora non si è fatto nulla. La giustizia dovrebbe essere la chiave per l’affidabilità e il funzionamento corretto del Paese. Invece è terreno di contrapposizioni esclusive e aprioristiche che paralizzano tutto e tutti. In questo modo la politica è consegnata all’esito dei processi, a loro volta anticipati nel massacro mediatico, mentre il destino di intere aree del Paese è affidato alle misure militari contro il sistema criminale. Tra le ragioni dei mancati investimenti nel nostro Paese non c’è la criminalità, ma il cattivo funzionamento della giustizia. Lo scontro politico si è ridotto ad una faida tra le armate del crimine e quelle della giustizia, tra i crociati dell’etica e gli anticristi della corruzione e della prostituzione diffusa.

L’assenza di una seria riforma della giustizia è una responsabilità di lunga data, reiterata dai governi di centrodestra nonostante le ricorrenti petizioni di principio. E’ però una necessità sociale ed istituzionale, una condizione per ripristinare il terreno della politica vera. Facciamola nostra. Non lasciamo alibi a nessuno, non consentiamo che l’occasione si disperda. Non blocchiamo il confronto, e lavoriamo semmai perché si discuta di contenuti, finalità e indirizzi dei provvedimenti chiamando il Parlamento a far bene e al più presto.


Massimo Micucci, Fabrizio Rondolino, Piero Sansonetti, Claudio Velardi, Enza Bruno Bossio.