domenica, marzo 16, 2014

LA CULTURA DELLA COSTITUZIONE NEL “TEMPO DEL CORAGGIO”.

Si respira uno strano clima, mentre Renzi ed il Ministro Boschi elencano a beneficio delle telecamere i passaggi fondamentali della legge elettorale appena approvata dalla Camera dei Deputati: le mille criticità che hanno scandito il voto di Montecitorio vengono superate in un battito di ciglia, affogate in profluvio di riferimenti a svolte epocali, traguardi storici, sconfitte dei gufi e vittorie conseguite a tavolino sui cantori dell’eterno disfattismo. I protagonisti della presunta “svolta buona” gonfiano il petto, abusando scientemente del linguaggio da cine-panettone: in fondo, questo è il “tempo del coraggio”, non dei vuoti sofisimi praticati dai teorici della democrazia parlamentare.
            
Eppure, lo strano clima che aleggia nella sala stampa di Palazzo Chigi resta inalterato, malgrado frasi ad effetto ed impegni assunti a reti unificate, e continua a gravare sull’Italicum con tutto il peso di una domanda destinata a rimanere senza risposta: nel tempo del coraggio, c’è ancora spazio per la cultura della Costituzione?
            
Figlio legittimo dell’accordo concluso da Renzi e Berlusconi in quel di Sant’Andrea delle Fratte (e maledetto dall’immagine della partita a golf tra Che Guevara e Fidel Castro), l’Italicum dovrebbe costituire il primo passaggio di un percorso riformatore destinato ad includere anche il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma del titolo V della Carta Fondamentale: una vera e propria relecture dei pilastri del nostro sistema istituzionale, concordato al chiuso di una stanza da due leader accomunati dall’adesione alla logica de “L’Etàt c'est moi”.

E così, ecco apparire una nuova legge elettorale destinata ad operare per la sola Camera dei Deputati, mentre l’elezione dei senatori continua ad essere regolata dagli ultimi brandelli del Porcellum. A quanti segnalano i rischi a cui va incontro un Paese costretto a danzare sul baratro della sostanziale ingovernabilità, rilevando l’impossibilità di far coesistere due sistemi radicalmente antitetici (un proporzionale con sbarramento, liste bloccate, premio di maggioranza ed eventuale doppio turno; ed un proporzionale puro, senza premio di maggioranza e con le preferenze), il premier oppone una infastidita scrollata di spalle: che ci importa del Senato, se tanto lo dobbiamo abolire? Basta rallentare il rinnovamento ricorrendo a bizantinismi inutili: è il tempo del coraggio, non del disfattismo!

Ma le certezze del Presidente del Consiglio si infrangono contro quell’interrogativo inevaso: quale spazio rimane alla cultura della Costituzione nel tempo del coraggio? Già, la Costituzione: la Costituzione sfugge alla piena disponibilità degli uomini del fare, rimesso com’è il procedimento di revisione al doppio passaggio parlamentare, alla presenza di maggioranze qualificate, all’eventuale referendum confermativo. Un procedimento aggravato, e come tale non del tutto controllabile dalla maggioranza politica contingente; un procedimento aggravato, il cui esito non può considerarsi scontato per chiunque abbia acquisito un minimo di cultura costituzionale.

Di più: chiunque abbia acquisito un minimo di cultura costituzionale sarebbe in grado di rilevare l’anomalia collegata all’approvazione di una legge che di fatto considera già superato un principio (quello del bicameralismo paritario) ancora vivo e vitale in seno all’ordinamento tracciato dalla Carta Fondamentale. Siamo ben oltre la riflessione sui possibili profili di illegittimità costituzionale che potrebbero caratterizzare l’Italicum: siamo all’istituzionalizzazione della cultura dell’incostituzionalità.

E allora, la risposta a quell’interrogativo inevaso implica di fatto la soluzione dell’ulteriore quesito prospettato da alcuni esponenti della minoranza interna al Partito democratico all’indomani del patto di Sant’Andrea delle Fratte, suggellato sotto l’icona incredula del Che: per quale motivo non si è approvata una norma che, restituendo efficacia alla legge elettorale in vigore fino al 2006, avrebbe permesso all’Italia di superare le secche del semestre europeo, per poi affidare alla maggioranza uscita vincitrice dalle nuove elezioni il compito di intraprendere un percorso di riforme ispirato ad un programma politico ben definito?

Altra scrollata di spalle, altra battuta al vetriolo: basta con i gufi, basta con il disfattismo. Siamo gli uomini del fare, siamo quelli della svolta buona: siamo i protagonisti del tempo del coraggio. Già, del tempo del coraggio, in cui non c’è più spazio per la cultura della Costituzione.
Carlo Dore jr.
(cagliari.globalist.it)

            

domenica, marzo 09, 2014

CARO BEPPE, HAI MAI ASCOLTATO “ERNANI”?

"L’Italia è un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme”. Le parole di Grillo squarciano la quiete del web in una tranquilla domenica di fine inverno, ennesima puntata di un’invettiva senza fine: dopo la gogna ai giornalisti, le epurazioni di massa, gli attacchi rivolti a tutte le istituzioni operanti in seno all’ordinamento repubblicano, ecco l’affondo contro il valore stesso dell’unità nazionale, contro quell’idea di Italia “una e indivisibile” recepita dalla Carta Costituzionale.

E’ troppo. Mentre Maroni e Salvini si affrettano a rilanciare l’ultimo versetto dal vangelo del Dio del Blog – preconizzando forse una tanto improbabile quanto pericolosa santa alleanza tra i vecchi galli calati da Pontida e i novelli grillini inneggianti al ritorno del Regno delle due Sicilie – a quanti proprio non intendono rinunciare a difendere i valori fondanti della democrazia repubblicana non rimane che opporre la forza di un paio di domande ai sermoni del guru pentastellato: davvero siamo un popolo senza radice comune? Davvero gli Italiani non hanno più ragione di stare insieme?

Ma soprattutto: caro Beppe, tra uno show e l’altro, tra un’espulsione e l’altra, tra un anatema e l’altro, hai mai ascoltato “Ernani”?

Si, Beppe, hai mai ascoltato “Ernani”? La maggioranza dei fans del comico - normalmente lontana, per cultura e formazione, dalle nobili pagine del melodramma italiano – non potrà che accogliere questo interrogativo con un ruggito di infastidita indifferenza; i pochi militanti del Movimento che invece risultano più sensibili alle note del repertorio verdiano non esiteranno a gonfiare il petto, pervasi da un sano fremito di orgoglio: Ernani era il Robin Hood spagnolo, che lottava contro l’arroganza della Corona, proprio come Beppe combatte contro la Casta a colpi di comizi e post al vetriolo. Beppe è Ernani, e noi siamo il coro dei fidi che si preparano a dare l’assalto al palazzo del potere.

In verità, ben pochi sono i punti di contatto tra lo sgangherato vate genovese e lo sfortunato conte di Aragona: Ernani incarna infatti, più di ogni altro personaggio animato dalle note di Verdi, la capacità di un popolo di lottare per farsi nazione, l’esaltazione dell’unità tra princeps e collettività, l’orgoglio dei tanti che scelsero la morte dell’eroe alla prospettiva di una vita macchiata dal disonore. Ernani è Venezia soffocata dal tacco austriaco; Ernani è “La Fenice” che esplode in un tripudio di coccarde tricolori al termine del coro dell’atto terzo, nella grandiosità di una Nazione che sorge radiante di gloria; Ernani sono i soldati in divisa bianca che sbandano sotto gli applausi di un branco di banditi, accecati, per una sera, dallo sconosciuto orgoglio di sentirsi Italiani; Ernani è Verdi che abbandona il teatro con un sorriso, forse consapevole di avere legato per sempre il suo nome ad un sogno. Ernani è Verdi, e Verdi è l’Italia.

E allora, diviene ancor più necessario chiedere: caro Beppe, tu che pretendi di guidare una rivoluzione a colpi di tastiera; tu che, in quel che resta del tuo Movimento comandi, imponi e disponi; tu che descrivi l’Italia come un’arlecchinata di popoli di fatto privi di radice comune, hai mai ascoltato “Ernani”?

La risposta è: forse no. Se Grillo avesse ascoltato il coro del terzo atto, avrebbe forse sentito l’eco degli applausi de “La Fenice”, e avrebbe trovato nella forza di quelle note la radice comune che costituisce la ragione più autentica del nostro “essere popolo”, il vincolo fondante del nostro “stare insieme”.

No, Grillo non ha mai ascoltato Ernani, e piuttosto che vivere la luminosa fine dell’eroe tragico, rischia di affidare il momento conclusivo della sua esperienza politica da ad una scena differente: quella di un uomo solo nelle tenebre di un palcoscenico vuoto, abbandonato da cortigiani paludenti e nemici immaginari, schiacciato dal peso insopportabile della sua ultima maledizione. Un finale da buffone della sorte, più adatto a Rigoletto che a Ernani. Un finale da buffone della sorte: ma pur sempre un finale da melodramma.

Carlo Dore jr.