lunedì, aprile 24, 2006


UNA STORIA PER IL 25 APRILE


L’anniversario della Liberazione assume quest’anno un significato del tutto particolare, inquadrandosi in un momento storico caratterizzato da un clima politico reso incandescente dall’esito della recente competizione elettorale. Come noto, dopo cinque anni di dura opposizione, le forze del centro-sinistra, che individuano proprio nei valori della Resistenza e della lotta partigiana i loro ideali di riferimento, hanno infatti riconquistato il governo del Paese.
Proprio in ragione di questo successo, è possibile affermare, volendo riprendere i concetti recentemente espressi da Andrea Camilleri, che la giornata di oggi deve essere dedicata non solo al ricordo delle gesta di quanti combatterono la tirannide nazifascista, ma anche alle celebrazioni per il ritorno ad una condizione di democrazia compiuta.
Costituisce infatti una realtà tristemente incontrovertibile il principio in forza del quale Berlusconi ha di fatto sottoposto, nell’ultima legislatura, l’Italia ad una sorta di regime politico e sociale: un regime odioso e strisciante, basato sull’arroganza che deriva dal potere economico, sulla brutale violazione delle fondamentali regole utili a determinare gli equilibri tra i poteri dello Stato, sulla censura della stampa non allineata, sulla costante demonizzazione degli avversari e sul tentativo di riabilitare la memoria di quanti scelsero di vestire la camicia nera, in ragione dell’abusato assunto secondo cui “tutti i caduti devono essere onorati”.
Tuttavia, sarebbe forse inutile dimostrare una volta ancora l’erroneità di una simile equiparazione attraverso l’esposizione di una serie di ragioni di principio in confronto di quanti tuttora sostengono quel grossolano imprenditore milanese, già capace di definire Mussolini come un dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza nelle località di confine.
Per incidere sulle coscienze di quanti continuano a credere nella necessità di “non dimenticare il sangue versato dai vinti”, è preferibile riportare alla memoria i dettagli di una delle più tristi, intense ed appassionanti storie che contraddistinguono la guerra di Liberazione: la storia dei fratelli Cervi.
Questa è la storia di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore: di sette contadini emiliani educati al rispetto degli elementari principi del cristianesimo e del marxismo, riassumibili nella massima secondo cui “protestava Cristo, protestava Lenin, per questo non bisogna mai avere paura”.
Semplicità, fede e coraggio erano proprio l’essenza del loro antifascismo, della loro naturale avversione nei confronti di un regime capace di ferire l’individuo nella sua più profonda dignità. Semplicità, fede e coraggio caratterizzarono anche la condotta che essi tennero nelle ultime ore della loro vita, quando, dopo avere scaricato le poche pallottole di cui disponevano sui soldati repubblichini che circondarono il loro casolare in una notte di novembre del 1943, rifiutarono di arruolarsi nella milizia fascista, sostenendo con un sorriso che erano pronti a morire ma non erano disposti “sporcarsi”.
I fratelli Cervi furono giustiziati all’alba del 28 dicembre e poi seppelliti in una delle tante fosse comuni che l’ex Presidente del Consiglio (assiduo frequentatore di fantomatici cimiteri americani situati nella bassa padana) non ha forse mai avuto modo di visitare. In occasione dei loro funerali, svoltisi dopo la fine della guerra, l’intera città di Reggio Emilia ebbe modo di tributare ai sette figli di Alcide un lungo, commosso e struggente omaggio: l’omaggio di un popolo intero ad una semplice famiglia di contadini della Pianura che avevano scelto di “non sporcarsi” combattendo per il Fascio, ma di contrapporre una volta ancora “la forza delle ragione alle ragioni della forza”.
A distanza di oltre sessant’anni da quei drammatici eventi, l’esempio dei Cervi torna prepotentemente d’attaulità. Allorquando viene manifestata (da alcuni intellettuali illuminati forse più dalla fame di notorietà che da effettive ragioni ideologiche) la necessità di rileggere le varie fasi della lotta partigiana alla luce di una più equilibrata valutazione delle ragioni che indussero determinati soggetti a aderire alle brigate nere, assecondando così la già descritta tendenza a porre sullo stesso piano i difensori della libertà ed i legionari della tirannide nazifascista, il ricordo del sacrificio dei sette figli di Alcide può davvero scuotere la coscienza di tutti coloro i quali credono nei valori della democrazia.
Riportando alla memoria gli accadimenti appena descritti, essi possono infatti trovare la forza per “non sporcare” nel fango del revisionismo quei principi e quegli ideali di cui la Resistenza costituisce la massima espressione e su cui la nostra Carta Costituzionale risulta fondata.

Carlo Dore jr.

GANG – LA PIANURA DEI SETTE FRATELLI


E terra, e acqua, e vento
Non c'era tempo per la paura,
Nati sotto la stella,
Quella più bella della pianura.
Avevano una falce
E mani grandi da contadini,
E prima di dormire
Un padrenostro, come da bambini.

Sette figlioli, sette,
di pane e miele, a chi li do?
Sette come le note,
Una canzone gli canterò.

E pioggia, e neve e gelo
e vola il fuoco insieme al vino,
e vanno via i pensieri
insieme al fumo su per il camino.
Avevano un granaio
e il passo a tempo di chi sa ballare,
di chi per la vita
prende il suo amore, e lo sa portare.

Sette fratelli, sette,
di pane e miele, a chi li do?
Non li darò alla guerra,
all'uomo nero non li darò.

Nuvola, lampo e tuono,
non c'e perdono per quella notte
che gli squadristi vennero
e via li portarono coi calci e le botte.
Avevano un saluto
e, degli abbracci, quello più forte,
avevano lo sguardo,
quello di chi va incontro alla sorte.


Sette figlioli, sette,
sette fratelli, a chi li do?
Ci disse la pianura:
Questi miei figli mai li scorderò.


Sette uomini, sette,
sette ferite e sette solchi.
Ci disse la pianura:
I figli di Alcide non sono mai morti.


E in quella pianura
Da Valle Re ai Campi Rossi
noi ci passammo un giorno
e in mezzo alla nebbia
ci scoprimmo commossi.

venerdì, aprile 14, 2006


RIFLESSIONI A MARGINE DEL SUCCESSO ELETTORALE


L’interminabile notte del 10 aprile ha rappresentato la concretizzazione del momento che l’intero popolo del centro-sinistra attendeva da cinque, lunghissimi anni. Dalle principali agenzie di stampa, dagli “speciali” predisposti da tutte le emittenti nazionali, dai tanti siti intrenet che davano la possibilità di seguire in diretta l’andamento dello spoglio, la stessa notizia ha iniziato a diffondersi con una velocità dirompente ed inebriante: Berlusconi è stato sconfitto, l’Unione ha riconquistato il governo del Paese.
Le migliaia di persone che gremivano Piazza Santi Apostoli rappresentavano a Romano Prodi e agli altri leaders della coalizione la gioia immensa che in quel momento univa tutti i progressisti d’Italia nella consapevolezza di avere spezzato, seppur grazie ad una vittoria maturata sul filo di lana, quel regime odioso e strisciante imposto dal Caimano durante la sua permanenza a Palazzo Chigi.
A margine di quella che può essere obiettivamente definita come una giornata importante per la nostra democrazia, è però ora necessario , essendosi al fine placata la folle giostra di numeri, sondaggi, percentuali e dichiarazioni a caldo che da sempre caratterizza il funzionamento della macchina elettorale, formulare alcune considerazioni in ordine ad uno dei risultati politici più controversi ed indecifrabili della storia della Repubblica.
Premesso che il rifiuto da parte del Presidente del Consiglio di riconoscere la legittima vittoria dell’Unione (rifiuto motivato in ragione di fantomatiche irregolarità che avrebbero caratterizzato le operazioni di voto) rappresenta un ennesimo sfregio alle regole su cui si fonda l’ordinamento democratico, occorre rilevare che l’affermazione del centro -sinistra non ha assunto le proporzioni che era lecito attendersi in base ai dati forniti all’opinione pubblica nei giorni precedenti il voto.
Si era infatti più volte auspicato che la volontà degli elettori non si esaurisse in un semplice mutamento della maggioranza parlamentare, ma che costituisse il momento iniziale di un radicale processo di epurazione della classe dirigente imposta dalla Casa delle Libertà, schiacciata dal peso dei continui fallimenti riportati nel corso della sua esperienza di governo.
Tuttavia un simile effetto non si è verificato: forte di un consenso popolare imprevedibile, Berlusconi ed il suo entourage di stagionate veline, oscuri pregiudicati e laidi cortigiani ( ora nobilitato anche dal sorriso stereotipato ed inespressivo del redivivo Mauro Pili) continueranno ad esercitare un ruolo di primo piano sulla scena politica italiana.
Le cause di questo parziale fallimento sono, a mio avviso, individuabili in due principali argomenti. I leaders dell’Unione, evidentemente certi del successo finale, hanno condotto una campagna elettorale di basso profilo, scegliendo di non attaccare gli avversari nei loro tradizionali punti deboli (i tanti precedenti penali di alcuni uomini di punta della nuova destra; la partecipazione del premier alla loggia P2; le presunte connivenze tra alcuni candidati della Casa delle Libertà e determinati settori della criminalità organizzata; la presenza nell’ambito della medesima coalizione di esponenti del neofascismo più bieco) anche a costo di rinunciare alla replica in confronto delle quotidiane bordate provenienti da Palazzo Grazioli.
Una simile strategia, basata sull’individuazione dei problemi del Paese e sulla esposizione dei programmi elaborati per risolverli, ha avuto poca incidenza (anche a causa di alcuni banali errori di comunicazione commessi con particolare riferimento alle scelte di politica economica) su quell’ampia fetta dell’elettorato medio, dimostratasi particolarmente sensibile alle mirabolanti promesse contenute nell’ennesimo Libro dei Sogni presentato dal Caimano come effettivo programma di governo.
Le considerazioni appena formulate permettono di offrire un’adeguata valutazione del risultato complessivamente deludente riportato dai Democratici di Sinistra, dimostratisi ancora una volta incapaci di ripetere lo straordinario exploit del 1996.
La più volte denunciata crisi di identità derivante dalla politica moderata imposta dai vertici del partito e dalla decisione di confluire nella lista unitaria dell’Ulivo - primo passo per procedere alla formazione del Partito Democratico - ha infatti creato una prevedibile frattura tra il suddetto gruppo dirigente e quella parte della base che, fedele ai principi della sinistra tradizionale, fatica ad identificarsi in un soggetto politico ibrido, e per questo tende ad individuare nelle forze dell’area più radicale della coalizione il suo nuovo punto di riferimento.
Posto che la forte investitura popolare ricevuta attraverso le primarie rende inattaccabile la leadership di Prodi indipendentemente dal suo porsi come leader di un autonomo soggetto politico, il direttivo diessino dovrebbe interrogarsi sull’opportunità di elaborare una nuova strategia per riproporre il partito quale principale forza della sinistra italiana. In questo senso, la proposta di realizzare (attraverso un processo di riunificazione che coinvolga anche Rifondazione Comunista e Comunisti italiani) una sorta di casa comune dei progressisti, ideologicamente coerente con i principi del socialismo europeo e per questo capace di dare vita ad un' alleanza stabile con il centro riformista, potrebbe garantire all’Unione la stabilità necessaria per affrontare in maniere efficace ed incisiva le tante sfide che caratterizzeranno i prossimi cinque anni di governo.

Carlo Dore jr.

giovedì, aprile 06, 2006


LA PAURA DEL CAIMANO
- breve cronaca di una giornata da ricordare –


Cagliari accoglie Romano Prodi mostrando la sua luce migliore, quella di un tiepido sole d’aprile capace di rendere più brillanti i colori delle centinaia di bandiere che riempiono la principale piazza della città, da sempre sede privilegiata per le adunate della destra più o meno estrema.
Mentre risuonano dagli altoparlanti collocati accanto al palco le note della “Canzone Popolare” di Ivano Fossati (storico inno dell’Ulivo fin dalle elezioni del 1996), una leggera brezza porta con sé il flebile eco delle invettive appena scagliate da Berlusconi in occasione di una delle sue ultime passerelle nella sala stampa di Palazzo Chigi.
La colonna sonora che scandisce il monologo del Caimano è lenta e prevedibile: l’ennesimo attacco ai magistrati politicizzati ed alla stampa di regime precede l’altrettanto abusata denuncia del pericolo in cui versa la nostra democrazia, minacciate dalle orde cosacche che incombono agguerrite e terribili sul sagrato di San Pietro.
I militanti del centro-sinistra incassano e sorridono, compiaciuti ed indifferenti. I deliri verbali con cui il Cavaliere è ormai solito animare la cronaca politica possono essere interpretati solamente in un modo: non si può più avere paura del Caimano , ora è il Caimano ad avere paura.
Ha paura di Renato Soru, che liquida con una semplice battuta il già descritto spauracchio rosso, ricordando il contributo imprescindibile che le forze della sinistra tradizionale hanno fornito, attraverso la Resistenza al nazifascismo e la partecipazione all’Assemblea Costituente, per la creazione di un ordinamento democratico degno di tale nome.
E quando il Presidente della Giunta regionale rileva che le “avvisaglie di un regime” possono essere individuate esattamente nella limitazione della libertà di espressione, nello svilimento delle istituzioni di garanzia, nella violazione del principio della separazione dei poteri, i tanti momenti bui che hanno caratterizzato gli ultimi cinque anni scorrono dinanzi agli occhi dei presenti come gli spezzoni di un brutto film giunto finalmente ai titoli di coda.
Ma il terrore che attanaglia il Demiurgo di Arcore cresce vertiginosamente di fronte all’implacabile incedere di Prodi, capace di dire qualcosa di sinistra attraverso la prospettazione di un modello sociale in cui la stabilità del lavoro non rappresenti più una rara eccezione ma una condizione di assoluta normalità, in cui la centralità della scuola pubblica rispetto alla scuola privata costituisca un valore indiscutibile, ed in cui a tutti i cittadini vengano offerte le stesse opportunità, indipendentemente dalla condizione economica che li caratterizza e dalla appartenenza a un determinato gruppo di potere.
Nella convinzione di trovarsi di fronte non ad un altro libro dei sogni ma ad un progetto di governo concretamente attuabile, il popolo del centro – sinistra, pervaso dallo stesso entusiasmo percepibile prima della vittoria del 1996, celebra la conclusione di questa estenuante campagna elettorale con un lungo applauso, che sovrasta le ultime parole del Professore unitamente alle note della canzone di Fossati.
La speranza è che l’eco di una simile ovazione giunga, trascinato dal vento di ponente, fino alle dorate stanze di Palazzo Grazioli, dove il Caimano predispone il suo ultimo monologo: questo applauso rappresenta infatti l’espressione della volontà della parte migliore di questo Paese, la cui determinazione a porre fine ad un inverno lungo cinque anni risulta più forte di insulti, promesse mirabolanti e minacce più o meno velate. Per questa Italia la primavera, forse, è davvero arrivata.

Carlo Dore jr.

domenica, aprile 02, 2006


Lettera aperta a Pietro Maurandi,
Deputato DS

Caro Maurandi:

ho seguito con grande attenzione le vicende che hanno caratterizzato la sua esclusione dalle liste dei candidati proposte dai DS per le prossime elezioni politiche. Per questo, con particolare riferimento agli argomenti espressi nel Suo ultimo intervento, ho deciso di proporre alcune mie considerazioni in merito a tali vicende.
Premesso che non è mia intenzione esprimere in questa sede alcuna valutazione in ordine alla Sua attività di parlamentare, sono praticamente certo del fatto che (considerati anche gli episodi grotteschi e tragicomici che quotidianamente animano l’attività delle Camere) non può essersi macchiato di alcuna colpa politica tanto grave da rendere giustificabile sul piano del merito la decisione assunta nei suoi confronti.
In ogni caso, dalla mia posizione di semplice militante, non posso che condividere la sua delusione per la scarsa credibilità ed il basso profilo che nel complesso caratterizza la rosa di candidati scelta dai vertici locali del nostro Partito, forti della evidente consapevolezza di poter contare sul mio voto ( e su quello di tanti altri elettori che si trovano nella mia stessa condizione) esclusivamente in ragione della necessità di frenare la bieca calata dei lanzichenecchi provenienti da Villa Certosa.
Costituisce una verità tristemente incontrovertibile l’affermazione secondo cui la struttura locale dei DS risulta attualmente basata sull’imperversare di alcuni ben noti personaggi ormai logori e privi di carisma, i quali però vengono puntualmente imposti all’elettorato malgrado i tanti rovesci riportati durante il loro eterno cursus honorum.
Aderendo orgogliosamente ai valori ed ai principi della sinistra tradizionale (quella che trova in Gramsci e Berlinguer, Allende e Giorgio Amendola non solo un immagine da utilizzare durante la campagna elettorale, ma un costante ed indefettibile modello di ispirazione), non nego però di sentirmi sempre meno rappresentato dal partito che di questi principi dovrebbe costituire la massima espressione, anche e soprattutto a causa di determinazioni di tenore analogo a quella che direttamente la riguarda.
Le malformazioni strutturali cui ho precedentemente fatto cenno hanno infatti imposto ai DS di conformarsi a ben precise logiche di spartizione dei posti di potere, precludendo l’attuazione di una linea politica diretta al perseguimento di quella necessaria opera di moralizzazione sociale ed organizzativa che era lecito attendersi dall’ascesa dell’Unione al governo delle principali istituzioni isolane.
Se si escludono infatti alcune illuminate valutazioni in questo senso assunte da Renato Soru (capace di debellare almeno parzialmente il faraonico complesso di inutili ciambellani, ambasciatori da operetta, manager di dubbia fama ed impiegati privi di mansioni effettive che gravava come un macigno sul bilancio della Regione), non si è avvertita quella reale scossa, quel radicale cambiamento nel modo di governare di cui la Sardegna aveva disperatamente bisogno dopo gli anni di reggenza dei propretori del Cavaliere di Arcore.
Le determinazioni di tipo clientelare e i giochi di palazzo sono tuttora tristemente rilevabili nell’ambito della nostra piccola realtà, malgrado le aspirazioni del popolo progressista risultino dirette alla creazione di una classe dirigente di alta qualità morale e politica, capace di collocarsi in una posizione di forte discontinuità con le nefandezze del recente passato, emarginando una volta per sempre le tante logge di parveneau allevate dal regime berlusconiano.
Posto che probabilmente Lei è stato vittima di una di queste determinazioni, pagando a caro prezzo il fatto di non risultare afferente ad un determinato potentato, il famoso richiamo alla “questione morale” realizzato dall’intempestivo e maldestro Parisi potrebbe assumere una sua paradossale logica a livello locale.
All’indomani della (si spera) prossima vittoria elettorale, sarà infatti a mio avviso necessario procedere ad un effettivo e reale rinnovamento del gruppo dirigente del nostro partito: occorre infatti che i DS recuperino la loro identità di forza della sinistra tradizionale, imponendo agli esponenti preposti all’esercizio di cariche di governo di operare nel rispetto di quel già descritto insieme di principi e valori a cui la più consistente parte della base ancora si ispira. Se una simile opera di rinnovamento verrà attuata in maniera decisa, quel modello di classe dirigente a cui ho prima fatto riferimento cesserà di essere una mera astrazione, assumendo i connotati tipici di una effettiva realtà di cambiamento.
A questo disegno innovatore avremo, spero, modo di contribuire entrambi.

Con stima,
Carlo Dore jr.