lunedì, ottobre 27, 2014

RENZI, SORU E QUELLA FORZA SENZ'ANIMA

Renato Soru completa la sua scalata alla segreteria del Partito Democratico della Sardegna proprio nel giorno in cui Renzi, rottamando definitivamente gli ultimi presidi di quel che resta della sinistra italiana, si pone come unico riferimento del Partito della Nazione, forte della benedizione di finanzieri, imprenditori rampanti, seguaci della prima ora e novizi folgorati sulla via della Leopolda.

Soru completa la sua scalata tra le ovazioni dei soliti fedelissimi e gli applausi dei nemici di un tempo, riposizionatisi sotto le insegne del neo-segretario ora per rinnovata convinzione, ora per assecondare insondabili logiche di realpolitik, ora in quanto spinti dal naturale spirito di sopravvivenza. Completa la scalata ad un partito ormai “pacificato”dal culto dell’Uomo solo al comando, costretto a trincerarsi dietro uno strano unanimismo di facciata, utile a coprire la mancanza di un progetto politico di ampio respiro.
            
Esiste un’evidente sintonia tra le dinamiche proprie della “comunità di destino” a cui l’ex Governatore ha di recente fatto riferimento, nel tentativo di teorizzare il superamento della dicotomia capitale-lavoro,  e le logiche ispiratrici degli ultimi capitoli dal Vangelo secondo Matteo: muore la cultura della sinistra del lavoro e per il lavoro; viene superata la concezione del partito inteso come centro di formazione della classe dirigente e come strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese; la stessa idea di democrazia parlamentare delineata dalla Carta Costituzionale si riduce al vuoto simulacro di un’epoca che non esiste più.
            
Le ragioni dell’impresa prevalgono sulle posizioni del sindacato, i finanzieri che dissertano sul superamento del diritto di sciopero meritano più attenzione delle rivendicazioni di una piazza che invoca diritti e tutele, il dissenso viene liquidato come l’estremo tentativo di reazione di un gruppo di potere ormai privato di ogni massa di manovra, il refrain del 41% si impone sui riferimenti ad una cultura politica radicata in un secolo di battaglie democratiche. Una dimensione perfetta per esaltare la vena plebiscitaria di Renzi, forte di un crescente consenso da brandire contro gufi e rottamati; una dimensione perfetta per assecondare la “comunità di destino” teorizzata da Soru, prototipo del self made man dichiaratosi da sempre estraneo ai polverosi riti della politica tradizionale.
            
Eppure, mentre si spegne l’eco degli ultimi applausi sparsi tra Cagliari e Firenze, sulla scalata dei vincitori continua a gravare il peso di un interrogativo inevaso, l’ombra di un dubbio irrisolto, il fantasma di un equivoco troppo a lungo ignorato. Privato di una cultura di riferimento, disconnesso sentimentalmente dal cuore pulsante del proprio popolo, ridotto ad una sovrastruttura “capace di parlare all’intero Paese” e “di raccogliere consensi a destra come a sinistra”, il nascente Partito della Nazione non rischia di crescere come una forza senz’anima, destinata, prima o poi, ad essere risucchiata da quello stesso vuoto ideologico di cui oggi intende alimentarsi?
       
Gli oplites della Leopolda si limitano ad un’indifferente scrollata di spalle: il Partito della Nazione si sostiene sul mito del 41%, il Partito della Nazione guarda solamente al futuro, al successo di Renzi, al carisma di Soru. Leader discussi e mai discutibili, in diretta empatia con il popolo delle primarie, antepongono la loro individualità di uomini soli al comando a culture e progetti politici. Fino a quando il venire meno di quell’empatia non ne appannerà l’immagine di eterni vincenti; fino a quando spirito di sopravvivenza ed insondabili logiche di realpolitik non ritrasformeranno i fedeli alleati di oggi negli scatenati oppositori di ieri. Fino a quando la realtà della crisi sociale in atto non li costringerà a confrontarsi con l’assenza di un riferimento culturale a cui guardare, di un progetto politico a cui ispirare la loro azione: per non essere risucchiati dal vuoto ideologico su cui hanno cercato di costruire la loro forza senz’anima.

Carlo Dore jr.

(cagliari.gobalist.it)

venerdì, ottobre 24, 2014

“IL MONDO DI BERLINGUER”: STORIA DI NANI E GIGANTI


(Introduzione al dibattito pubblico: "Il Mondo di Berlinguer - Dialogo sulla politica internazionale del '900" svoltosi a Cagliari il 24 ottobre 2014. Sono intervenuti Antonio Rubbi, Vindice Lecis e Luisa Sassu)


Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio delluomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.
            
Dallinizio della militanza antifascista condotta tra le strade di Sassari e Roma fino alle ultime parole scagliate con disperata determinazione contro il cielo di Padova in quella maledetta notte di trentanni fa, la vita di Berlinguer si è risolta in un ostinato sforzo di comprensione delle dinamiche di un mondo in perenne evoluzione, nellincessante e pervicace tentativo di individuare la via per la costruzione di un mondo migliore.

Ecco, un mondo migliore: che mondo era quello di Enrico Berlinguer, figlio della borghesia sassaresse divenuto il riferimento costante dei comunisti italiani, democratico autentico destinato, suo malgrado, a combattere con un sistema paralizzato dagli opposti imperialismi, leader silenzioso e mai disposto a scivolare nella dimensione egocratica propria del capo carismatico?          Era un mondo terribile ed intricato, attraversato da muri e colonnelli, eroi e faccendieri, spie e uomini dello Stato, bombe e lacrime. Era il mondo in cui Jan Palak bruciava insieme alla primavera di Praga, ed in cui i militanti del PCI, che ancora non avevano del tutto metabolizzato il fantasma dellUngheria, cercavano un riferimento alternativo al mito della grande madre Russia,  una dimensione autonoma dal sistema di pesi e contrappesi partorito dal gelo di Jalta. 

Berlinguer vedeva lontano, ed aveva intuito la necessità di risolvere la complessità del mondo che lo circondava, elaborando unalternativa allo scontro tra capitalismo e sovietismo; Berlinguer vedeva lontano, e fu il protagonista di quellalternativa. Unalternativa fondata sullinterlocuzione con Carrillo e Marchais, diretta ad affrancare i principali partiti comunisti doccidente dallorbita del PCUS; sul socialismo dal volto umano, da praticare sotto lombrello della NATO; sul confronto continuo e costante con Willy Brandt ed Olof Palm, primo abbozzo di costruzione di un modello di sinistra europea; sullidea del compromesso storico, del fronte comune tra forze democratiche da contrapporre alla minaccia di una deriva autoritaria che avrebbe potuto trasformare Roma nella Santiago di Pinochet. 

Un PCI proiettato nella dimensione della sinistra europea, espressione di un socialismo democratico e (come tale) non allineato alle determinazioni del Cremlino, capace di superare la conventio ad excludendum e di accreditarsi quale credibile forza di cambiamento per il governo del Paese: il terribile, intricato mondo di Berlinguer iniziava a trovare una sua logica; la terza via tra capitalismo e rivoluzione era lo strumento adatto per rileggere le storture, i limiti, le contraddizioni della società europea al crepuscolo del XX secolo. 

Ma quel terribile, intricato mondo conservava equilibri che non dovevano essere superati, e i depositari di quegli equilibri spezzarono lincedere del sogno berlingueriano: il compromesso storico fu seppellito insieme al cadavere di Moro in quella Renault rossa in via Caetani, nelle tenebre della più oscura tra le notti di questa disgraziata Repubblica; e lo strappo da Mosca non fu sufficiente ad integrare i comunisti italiani nella galassia delle forze progressiste europee. La morte del Segretario, in definitiva, arrivò troppo presto, talmente presto da impedirgli di replicare allaccusa di avere trascinato il PCI in mezzo al guado: né al governo né allopposizione, né con la socialdemocrazia né con gli eredi di quel che restava della Rivoluzione dOttobre. 

Eppure, anche a trentanni di distanza dallultima chiamata alla mobilitazione casa per casa, sezione per sezione, nel bel mezzo di unepoca caratterizzata da diseguaglianze sempre crescenti, in cui le fredde regole delleconomia e della finanza prevalgono sulla componente solidale di una politica disumanizzata proprio perché percepita come lontana dalle istanze provenienti dai settori più vulnerabili della società contemporanea, il tentativo di Berlinguer di individuare una terza via per costruire un mondo diverso riemerge in tutta la sua dirompente attualitàAffrancandoci per un attimo dalla dimensione di una politica post-ideologica, tutta concentrata sulla banale esaltazione delluomo solo al comando, il ricordo del Segretario continua infatti ad offrirci un punto di vista privilegiato per comprendere ed interpretare il terribile, intricato mondo in cui ci troviamo a vivere: un punto di vista che oggi cercheremo di sfruttare nel migliore dei modi, come dei nani a cui è concesso, per una volta, di salire sulle spalle di un gigante.

Carlo Dore jr.