sabato, ottobre 26, 2013

CON CUPERLO, PER L’ULTIMA VOLTA.

Alle primarie per la scelta del segretario del PD in programma il prossimo 8 dicembre sosterrò la candidatura di Gianni Cuperlo: la sosterrò come estremo tributo di coerenza alle idee in cui non ho mai smesso di credere; la sosterrò per necessità; la sosterrò, consapevole del fatto che potrebbe essere la mia ultima volta con una tessera di partito in tasca. Coerenza; necessità; ultima volta.

Come ha intelligentemente evidenziato Filippo Ceccarelli in un suo recente editoriale, c’è aria di festa a Matteolandia: Renzi procede nella sua trionfale ascesa ai vertici del partito accompagnato dalla rumorosa fanfara di supporter, artisti, sedicenti intellettuali e transfughi provenienti dai vari settori di quel che resta del centro-sinistra. Il giubbotto esibito a beneficio delle telecamere di Maria De Filippi si sposa perfettamente con la battuta sempre pronta in punta di lingua. “Voglio i voti di Berlusconi e quelli di Grillo; voglio restare a Palazzo Vecchio; voglio essere leader di partito; voglio correre per la premiership”. Voglio, voglio, voglio: ma cosa vuole fare da grande, il fu Rottamatore?

La Leopolda ribolle di entusiasmo autentico quanto le statuette del David vendute in Piazza della Signoria. Matteo vince perché piace, ma soprattutto piace perché vince: e allora, tutti con Matteo, uno strapuntino alla tavola del vincitore val bene qualche salto mortale ideologico. Eppure, nel profluvio di parole che scandiscono i tempi della marcia trionfale, ce n’è una che a Matteolandia si evita accuratamente di pronunciare: partito. Che modello di partito ha in mente, il popolo riunito accanto ai binari della Leopolda? La risposta risuona assordante, nel silenzio imbarazzato di fedelissimi della prim’ora e professionisti della conversione a comando: partito? Che bizzarria! La Leopolda è solo una stazione, e il partito è solo un treno in corsa alla volta di Palazzo Chigi.

Una fastidiosa sensazione di già visto si diffonde tra quanti, dell’interminabile calvario della sinistra italiana, sono stati vittime prima ancora che testimoni: a Matteolandia non hanno capito nulla. Non hanno capito che la crisi della sinistra è crisi strutturale, prima ancora che crisi di leadership; è una crisi che ha avuto inizio proprio con la scelta di procedere all’eutanasia dei partiti, alla demolizione delle strutture di mobilitazione, all’anteposizione del carisma del leader rispetto alla consistenza del progetto politico, alla santificazione delle primarie come mezzo di selezione alternativo rispetto alla tradizionale formazione della classe dirigente. No, a Matteolandia non hanno capito: non hanno capito che del modello del partito leggero, liquido e senza tessere, Veltroni è stato il primo profeta, e Renzi è solo l’abile esecutore finale.

 Eppure, le conseguenze dell’eutanasia dei partiti – pervicacemente perseguita dal 2008 ad oggi – si sono manifestate in tutta la loro drammatica evidenza in occasione della notte dei 101: quando alcuni parlamentari selezionati tramite le primarie (fieri del loro non essere “figli dell’apparato”) hanno in un colpo solo liquidato la candidatura di Prodi al Quirinale, vanificato il tentativo di Bersani di dare vita ad un autentico governo di cambiamento, consegnato nell’abbraccio mortale delle larghe intese un partito paralizzato da faide interne e veti incrociati. Un partito paralizzato; un partito che non decide; un partito che non si schiera; un partito che non è partito.

Nel deserto cagionato dall’eutanasia dei partiti, tenta di elevarsi, flebile ed isolata, la voce di Gianni Cuperlo:  voglio fare il segretario a tempo pieno di un partito da ricostruire; voglio fare il segretario di un partito che si schiera; voglio fare il segretario di un partito vero. Parole semplici, di un dirigente onesto che non ambisce a proporsi come il novello uomo della provvidenza; parole semplici, di chi prova a declinare uno straccio di progetto politico.

Ecco, forse Cuperlo sa cosa vuol fare da grande: per questo lo sosterrò. Me lo impone la mia coerenza, la coerenza di chi preferisce continuare a credere nelle proprie idee e non è disposto a barattarle con un posto alla tavola del vincitore; me lo impongono le mie necessità, la necessità di individuare nella ristrutturazione dei partiti la risposta alla crisi politica in atto, la necessità di chi ad un partito degradato a comitato elettorale permanente di questo o quel leader in carriera proprio non ha interesse a partecipare. Per questo, il prossimo 8 dicembre mi presenterò regolarmente al seggio, con la mia tessera del PD in tasca. E sarò con Cuperlo, anche se probabilmente sarà l’ultima volta.
Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

lunedì, ottobre 14, 2013

IL PD SARDO E IL “CODICE ETICO FLESSIBILE”: UNA PROPOSTA SULL’INCANDIDABILITA’

Le notizie relative alle indagini sulla gestione dei fondi in dotazione ai gruppi del Consiglio regionale – indagini che, come noto, coinvolgono alcuni esponenti del PD della Sardegna – hanno riaperto, all’interno del centro-sinistra, il dibattito in ordine all’attualità della questione morale: mentre alcuni militanti affermano che la semplice esistenza di un’indagine non può incidere sulle scelte dei partiti in ordine alla candidature per le ormai prossime elezioni, altri esponenti della coalizione,  invocando “liste pulite”, segnalano la necessità di salvaguardare quella “diversità etica” che, dai tempi di Berlinguer, caratterizza il patrimonio culturale dei progressisti italiani.

A prescindere dalle specificità della vicenda appena richiamata (gli indagati hanno infatti assicurato di essere in grado di dimostrare “nel procedimento” la correttezza del loro operato), il contrasto di opinioni in atto all’interno del centro-sinistra sardo rappresenta l’occasione per rielaborare alcune considerazioni di carattere generale sul controverso rapporto tra politica e giustizia, tra necessaria tutela delle garanzie degli indagati e salvaguardia della legittima aspirazione degli elettori ad essere rappresentati da una classe dirigente al di sopra di ogni sospetto.

Preliminarmente, occorre osservare come l’apertura di un procedimento penale e l’eventuale trasmissione di un’informazione di garanzia non possono di per sé costituire una ragione sufficiente per indurre un partito ad escludere automaticamente la candidatura di un inquisito, dato che il PM è obbligato a procedere con le indagini per valutare la fondatezza di ogni notizia di reato, e dato che l’informazione di garanzia costituisce il presupposto indispensabile per il compimento dei c.d. atti garantiti (interrogatorio, ispezione, confronto). Ciò chiarito, non si può però non rilevare come il codice etico “flessibile” adottato dal PD nel 2007 – in base al quale le valutazioni sulla candidabilità di una persona indagata o imputata variano a seconda della natura del reato contestato – ha già dimostrato, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, la propria inidoneità ad assecondare la richiesta (troppo spesso ignorata) di rigore nella selezione della classe dirigente avanzata da iscritti e militanti in confronto delle varie forze politiche dell’area democratica. 

Ecco allora che proprio la necessità di individuare il corretto punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia della politica rispetto all’azione della magistratura e le istanze di moralità che pervadono l’elettorato mi induce a rinnovare una proposta più volte avanzata nel corso degli ultimi anni: se infatti, per le ragioni sopra esposte, l’esistenza di un’indagine non può giustificare l’automatica esclusione di un candidato dalle liste, il discorso muta completamente quando, nel disporre il rinvio a giudizio, il GUP attesta l’esistenza di un impianto accusatorio tanto solido da determinare l’apertura del dibattimento, ovvero quando, per i procedimenti c.d. a citazione diretta (non caratterizzati cioè dal filtro dell’udienza preliminare), viene pronunciata la condanna di primo grado. 

Proprio l’esistenza di un provvedimento (di rinvio a giudizio, o di condanna in primo grado) pronunciato da un giudice terzo e imparziale può permettere l’individuazione di quel punto di equilibrio a cui si è appena fatto cenno: con l’eccezione dei reati c.d. d’opinione, i partiti del centro-sinistra potrebbero cioè impegnarsi a non inserire nelle proprie liste candidati rinviati a giudizio, ovvero - per i procedimenti a citazione diretta - condannati in primo grado  per un delitto punibile con pena superiore ai due anni, e ad imporre ai propri candidati l’obbligo morale delle dimissioni da ogni carica istituzionale in caso di rinvio a giudizio o condanna per i medesimi delitti intervenuta dopo l’elezione. 

La soluzione appena prospettata sarebbe, da un lato, utile a mettere i partiti al riparo dal logoramento conseguente al gioco di ombre, sospetti e veti incrociati che sistematicamente fa da sfondo alla candidatura di persone sottoposte a procedimento penale, e d’altro lato contribuirebbe a sterilizzare gli argomenti di quei movimenti a dimensione esclusivamente protestataria, che proprio nel diffuso senso di sfiducia del cittadini nei confronti delle istituzioni trovano la loro linfa vitale.
Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)